[Pagina precedente]...ata di farmi dispiacere e offesa. Cosa che in verità è rarissima. Ma a vedere il procedere degli altri comunemente nelle amicizie, si direbbe che gli uomini non le contraggono se non per avere il piacere di romperle; e che questo è il principal fine a cui mirano nell'amicizia: tanto studiosamente cercano e tanto cupidamente abbracciano le occasioni di rompersi coll'amico, eziandio frivolissime, ed eziandio tali che essi medesimi nel fondo del loro cuore non possono a meno di non discolpar l'amico, e di non conoscere che quella offesa o dispiacere, almen secondo ogni probabilità , non venne da volontà determinata di offenderli.
(7. Apr. 1827.)
Perchè l'esistenza dell'universo fosse prova di quella di un essere infinito, creatore di esso, bisognerebbe provare che l'universo fosse infinito, dal che risultasse che solo una potenza infinita l'avesse potuto creare. La quale infinità dell'universo, nessuna cosa ce la può nè provare, nè darcela a congetturare probabilmente. E quando poi l'universo fosse infinito, la infinità sarebbe già nell'universo, non sarebbe più propria esclusivamente del creatore, di quell'essere unico e perfettissimo; allora bisognerebbe provare che l'universo non fosse quello che lo credono i panteisti e gli spinosisti, cioè dio esso medesimo; ovvero, che l'universo essendo infinito di estensione, non potesse anco essere infinito di tempo, cioè eterno, stato sempre, e sempre futuro. Nel qual caso non avremmo più bisogno di un altro ente infinito. Il quale sarebbe sempre ignoto e nascosto: dove che l'universo è palese [4275]e sensibile. (7. Apr. Sabato di Passione. 1827. Recanati.). Chi vi ha poi detto che esser infinito sia una perfezione?
Alla p.4245. Un'altra cagione per la quale io amo la ????????? è per non avere (come necessariamente avrei se mangiassi in compagnia) dintorno alla mia tavola, assistenti al mio pasto, d'importuns laquais, épiant nos discours, critiquant tout bas nos maintiens, comptant nos morceaux d'un oeil avide, s'amusant à nous faire attendre à boire, et murmurant d'un trop long dîner. (Rousseau, Émile.) Disgraziatamente non mi è mai riuscito di assuefarmi a provar piacere in presenza di persone che, di mia certa scienza, lo condannino, lo deridano, se ne annoino; non ho mai potuto comprendere come gli altri sopportino anzi si compiacciano, di siffatti testimonii, l'occupazione e i pensieri dei quali in quel tempo, tutti sanno essere appunto quelli detti di sopra. Anche gli antichi a tavola si facevano servire, ma da schiavi, cioè da genti che essi stimavano meno che uomini, o certo, meno uomini che essi. Però aveano forse ragione di non curarsi, e di non temere le loro railleries e disapprovazioni. Ma i nostri servitori sono nostri uguali. Ed è bene strano che noi, tanto sensibili sopra ogni menomo ridicolo, ogni menoma parola o pensiero che noi possiamo sapere o sospettare in altrui a nostro disfavore; non ci diamo cura alcuna di quelli dei servitori in quel tempo, i quali, non sospettiamo, ma sappiamo ben certo quali sieno intorno di noi: e che mentre non potremmo senza molestia starcene fermi e oziosi a sedere in un luogo dove fosse presente uno che noi sapessimo che attualmente si trattenesse in dir male di noi ed in ischernirci; possiamo poi, avendo molti dintorno di questa sorte, gustare tranquillamente, e pienamente senza disturbo alcuno, i piaceri della tavola. L'opinione che gli antichi avevano dei loro schiavi, li giustifica anche per un altro verso, cioè del loro non curarsi dell'incomodo, della noia, della rabbia che i loro servi dovevano necessariamente provare nel tempo, e per cagione, di quei loro piaceri; e che ciascun di noi proverebbe se si trovasse nel [4276]luogo dei nostri servi quando assistono alle nostre tavole. In vero l'umanità e la cordialità nostra possono essere un poco accusate, quando elle ci permettono abitualmente di godere in presenza di persone che il nostro godimento fa patire, e il cui patimento ci sta sotto gli occhi; e nondimeno godere senza il menomo disturbo. Non è molto umano il divertirsi in una conversazione mentre il vostro cocchiere sta esposto alla pioggia: ma in fine voi non lo vedete. Non è molto umano lo stornar gli occhi dai patimenti degli altri per non esserne afflitto o turbato, perchè quel pensiero non vi guasti i vostri diletti. Ma il dilettarsi tranquillamente e a tutto suo agio, finchè n'è capace il corpo e lo spirito, avendo, non lontane, ma presenti, non nel pensiero, ma negli occhi, persone uguali a noi, che manifestamente (e con tutta ragione) soffrono, e non per altra causa, ma pel nostro stesso godere, quanto sarà umano? Io confesso che non mi è riuscito mai di provar piacere in cosa che io, non dico vedessi, non sapessi, ma che pur sospettassi che fosse di molestia o di noia ad alcuno: perchè non mi è mai riuscito di potermi in quel tempo cacciar quel pensiero dalla mente. E ciò, quando anche non fosse ragionevole in quella tal persona il darsene quella molestia. Perciò non voglio mangiare in compagnia, per non aver servitori intorno: perchè appunto io voglio alla tavola provar piacere: e mangiando solo, non voglio averne che mi assistano. Tanto più che io per bisogno, e con molta ragione, voglio mangiare a grand'agio, e con lunghezza di tempo (non parendomi anche che il tempo sia male impiegato in questo, come par che stimino molti, che si affrettano d'ingoiare ogni cosa, e di levarsi su, quasi che questo momento fosse il più bello del desinare); la qual lunghezza, con altrettanta ragione, da chi mi servisse, sarebbe trovata estremamente fastidiosa e intollerabile.
(7. Apr. 1827.)
To pant inglese - panteler francese.
[4277]Allegano in favore della immortalità dell'animo il consenso degli uomini. A me par di potere allegare questo medesimo consenso in contrario, e con tanto più di ragione, quanto che il sentimento ch'io sono per dire, è un effetto della sola natura, e non di opinioni e di raziocinii o di tradizioni; o vogliamo dire, è un puro sentimento e non è un'opinione. Se l'uomo è immortale, perchè i morti si piangono? Tutti sono spinti dalla natura a piangere la morte dei loro cari, e nel piangerli non hanno riguardo a se stessi, ma al morto; in nessun pianto ha men luogo l'egoismo che in questo. Coloro medesimi che dalla morte di alcuno ricevono qualche grandissimo danno, se non hanno altra cagione che questa di dolersi di quella morte, non piangono; se piangono, non pensano, non si ricordano punto di questo danno, mentre dura il lor pianto. Noi c'inteneriamo veramente sopra gli estinti. Noi naturalmente, e senza ragionare; avanti il ragionamento, e mal grado della ragione; gli stimiamo infelici, gli abbiamo per compassionevoli, tenghiamo per misero il loro caso, e la morte per una sciagura. Così gli antichi; presso i quali si teneva al tutto inumano il dir male dei morti, e l'offendere la memoria loro; e prescrivevano i saggi che i morti e gl'infelici non s'ingiuriassero, congiungendo i miseri e i morti come somiglianti: così i moderni; così tutti gli uomini: così sempre fu e sempre sarà . Ma perchè aver compassione ai morti, perchè stimarli infelici, se gli animi sono immortali? Chi piange un morto non è mosso già dal pensiero che questi si trovi in luogo e in istato di punizione: in tal caso non potrebbe piangerlo: l'odierebbe, perchè lo stimerebbe reo. Almeno quel dolore sarebbe misto di orrore e di avversione: e ciascun sa per esperienza che il dolor che si prova per morti, non è nè misto di orrore o avversione, nè proveniente da tal causa, nè di tal genere in modo alcuno. Da che vien dunque la compassione che abbiamo agli estinti se non dal credere, seguendo un sentimento intimo, e senza ragionare, che essi abbiano perduto la vita [4278]e l'essere; le quali cose, pur senza ragionare, e in dispetto della ragione, da noi si tengono naturalmente per un bene; e la qual perdita, per un male? Dunque noi non crediamo naturalmente all'immortalità dell'animo; anzi crediamo che i morti sieno morti veramente e non vivi; e che colui ch'è morto, non sia più.
Ma se crediamo questo, perchè lo piangiamo? che compassione può cadere sopra uno che non è più? - Noi piangiamo i morti, non come morti, ma come stati vivi; piangiamo quella persona che fu viva, che vivendo ci fu cara, e la piangiamo perchè ha cessato di vivere, perchè ora non vive e non è. Ci duole, non che egli soffra ora cosa alcuna, ma che egli abbia sofferta quest'ultima e irreparabile disgrazia (secondo noi) di esser privato della vita e dell'essere. Questa disgrazia accadutagli è la causa e il soggetto della nostra compassione e del nostro pianto; Quanto è al presente, noi piangiamo la sua memoria, non lui.
In verità se noi vorremo accuratamente esaminare quello che noi proviamo, quel che passa nell'animo nostro, in occasion della morte di qualche nostro caro; troveremo che il pensiero che principalmente ci commuove, è questo: egli è stato, egli non è più, io non lo vedrò più. E qui ricorriamo colla mente le cose, le azioni, le abitudini, che sono passate tra il morto e noi; e il dir tra noi stessi: queste cose sono passate; non saranno mai più; ci fa piangere. Nel qual pianto e nei quali pensieri, ha luogo ancora e parte non piccola, un ritorno sopra noi medesimi, e un sentimento della nostra caducità (non però egoistico), che ci attrista dolcemente e c'intenerisce. Dal qual sentimento proviene quel ch'io ho notato altrove; che il cuor ci si stringe ogni volta che, anche di cose o persone indifferentissime per noi, noi pensiamo: questa è l'ultima volta: ciò non avrà luogo mai più: io non lo vedrò più mai: o vero: questo è passato per sempre. V. p.4282. Di modo che nel dolore che si prova per morti, il pensiero dominante e principale è, insieme colla rimembranza e su di essa fondato, il pensiero della caducità umana. Pensiero veramente non troppo simile nè analogo nè concorde a quello della nostra immortalità . [4279]Alla quale noi siamo così alieni dal pensar punto in cotali occasioni, che se noi dicessimo allora a noi stessi: io rivedrò però questo tale dopo la mia morte: io non sono sicuro che tutto sia finito tra noi, e di non rivederlo mai più: e se noi non potessimo nel nostro pianto, usare e tener fermo quel mai più; noi non piangeremmo mai per morti. Ma venga pure innanzi chi che si voglia e mi dica sinceramente se gli è mai, pur una sola volta, accaduto di sentirsi consolare da siffatto pensiero e dall'aspettativa di rivedere una volta il suo caro defonto: che pur ragionevolmente, poste le opinioni che abbiamo della immortalità dell'uomo, e dello stato suo dopo morte, sarebbe il primo pensiero che in tali casi ci si dovrebbe offrire alla mente. Ma in fatti, come dal fin qui detto apparisce, quali si sieno le nostre opinioni, la natura e il sentimento in simili occasioni ci portano senza nostro consenso o sconsenso a giudicare e tenere per dato, che il morto sia spento e passato del tutto e per sempre.
Concludo che per quanto permette la infinita diversità ed assurdità dei giudizi, dei pregiudizi, delle opinioni, delle congetture, dei dogmi, dei sogni degli uomini intorno alla morte; noi possiamo trovare, massime se interroghiamo la pura e semplice natura, che essi in sostanza, e nel fondo del loro cuore, piuttosto consentono in credere la estinzione totale dell'uomo, che la immortalità dell'animo: senza che, nella detta diversità ed assurdità , io pretenda che tal consentimento sia di gran peso.
(Recanati. 9. Apr. Lunedì Santo. 1827.)
Embrasé per ardente. Ses regards embrasés. Barthélemy, Voyage d'Anacharsis, dove parla di Omero. Raffiné spesso per fin semplicemente.
(?????(?(????, abbaco. V. Forcell. ec.
Congetture sopra una futura civilizzazione dei bruti, e massime di qualche specie, come delle scimmie, da operarsi dagli uomini a lungo andare, come si vede che gli uomini civili hanno incivilito molte nazioni o barbare o selvagge, certo non meno feroci, e forse meno ingegnose delle scimmie, specialmente di alcune specie di esse; e che insomma la civilizz...
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