[Pagina precedente]...radictions, supprimèrent des vers, des passages interpolés, etc. Mais ce travail ne fut pas fait avec assez d'art pour qu'on ne découvre des traces de leurs soudures; et leur jugement ne fut pas toujours assez sain pour qu'ils sussent distinguer ce qui appartenait à Homère d'avec les interpolations de ses successeurs. À l'exemple de Wolf, M. Müller signale plusieurs passages qui paraissent prouver que l'Iliade et l'Odyssée [4321]n'avaient point cette unité que ces poëmes presentent aujourd'hui, et qu'ils n'étaient dans l'origine que des chants lyriques détachés. Cependant Aristote ne les considéra que sous la forme qu'on leur avait donnée à Athènes, et célébra Homère comme poëte épique. Depuis, on ne vit plus dans l'Iliade et l'Odyssée que deux poëmes épiques. Assurément il règne une sorte d'unité dans chacun de ces deux poëmes; mais c'est la même qu'on trouve, par exemple, dans les romances espagnoles sur le Cid, lorsqu'on les lit de suite. Dans l'Odyssée on pourrait enlever les 4 premiers chants et la moitié du 15e sans nullement faire tort à la marche de l'action; c'est que le poëte ne les vivait jamais reunis et n'avait jamais pensé faire un grand poëme. D'un autre côté l'Iliade et l'Odyssée ont des lacunes que les diaskeuastes n'ont pas été capables de cacher. Dans l'Iliade le 1er et le 5e chants commencent par les mêmes récits: dans le 5e les événemens sont racontés comme si le poëte n'en avait jamais parlé. Les débuts des deux poëmes paraissent avoir été ajoutés par les diaskeuastes. Suivant l'usage de l'ancien temps, les homérides faisaient précéder leurs chants d'une invocation religieuse. Ce sont-là les prétendus hymnes homériques qui n'ont de commun avec le grand poëte que d'avoir été chantés pour le début de ses morceaux liriques. D. G. (Depping.) Bulletin de Férussac, loc. cit. alla p.4312. Octobre, 1824. tome 2. art.239. p.231-234.
In questa ipotesi, che è quasi una transazione coll'opinion comune, poichè riconosce l'esistenza di Omero, ed ammette in qualche modo [4322]l'unità di autore dell'Iliade e dell'Odissea, a differenza di Wolf che attribuisce quei poemi a vari autori, e di B. Constant, che li attribuisce a due; io ammetto assai volentieri che Omero, non avendo nessuna idea di quello che fu poi chiamato poema epico, nè anche avesse alcun piano o intenzione di comporne uno, cioè di fare una lunga poesia che avesse un principio, mezzo e fine corrispondenti, che formasse un tutto rispondente ad un certo disegno, che avesse una qualunque circoscritta e determinata unità . Credo che incominciasse le sue narrazioni dove ben gli parve, le continuasse indefinitamente senza proporsi una meta, le terminasse quando fu sazio di cantare, senza immaginarsi di esser giunto a uno scopo, senza intender di dare una conclusione al suo canto, nè di aver esaurita la materia o de' fatti, o del suo piano, che nessuno egli n'ebbe.
Aggiungo che credo ancora che i suoi versi fossero ritmici, non metrici, fatti cioè ad un certo suono, non ad una regolata e costante misura; alla quale (mediante però l'ammissione di quelle loro infinite irregolarità ed anomalie, che furono chiamate e si chiamano eccezioni, licenze, ed ancora regole) fossero ridotti in séguito dai diascheuasti ec. Così è probabile che originalmente e nell'intenzione dell'autore fossero ritmici i versi di Dante, ridotti poi per lo più metrici nello stesso secolo, 14°. E così, come ha provato un loro dotto editore, il Dott. Nott, che mi ha eruditamente parlato di questa materia, furono puramente ritmici i versi dell'inglese Chaucer. Lo furono ancora certamente quelli de' più antichi verseggiatori nostri, provenzali, spagnuoli, francesi. V. p.4334.4362.
[4323]Ma quello in cui la mia ragione non può trovare una probabilità , non solo nel caso di Omero, ma nè anche in quelli di Ossian e di qualunque altro si possa addurre in proposito, è che dei canti, certo in ogni modo assai lunghi, improvvisati p.e. a un convito o ad una festa pubblica, in mezzo a gente ubbriaca o dal vino o dalla gioia ec., da un poeta, forse ancor esso ?( ?(???????in quel momento, e ciò in un secolo privo di stenografi e di tachigrafi; dei canti che, secondo ogni verisimiglianza, dovevano esser dimenticati dal poeta stesso un momento dopo, anzi di mano in mano che li proferiva; si sieno, non solo quanto al soggetto, ma quanto alle parole, conservati nella memoria semplice degli ascoltanti in maniera, che trasmessi poi fedelmente di bocca in bocca per più secoli, distinti ben bene ne' loro versi (ritmici o metrici poco vale), ora dopo 30 secoli si leggano begli e stampati in milioni d'esemplari, che li conserveranno ai futuri secoli in perpetuo. Apparentemente il Müller, che pone Omero nel secondo secolo dalla guerra troiana, (v. p.4330. capoverso 3.) non riconosce nelle cose e nelle parole dell'Iliade e dell'Odissea, quei segni di avanzatissima civiltà e letteratura ionica o greca, che a tanti altri (come ultimamente a G. Capponi) sono sembrati così evidentissimi, certissimi ed innumerabili. Altrimenti come si potrebbe credere che quei poemi, da Omero o da altri, non fossero scritti subito? che l'uso della scrittura fosse ignoto o sì scarso in una letteratura e civiltà innoltratissima? come supporre sopra tutto una fiorente letteratura non scritta?
Ma se il Müller vuol persuadermi che i poemi d'Omero non [4324]fossero scritti (al che non farò resistenza, tanto più che è conforme alla tradizione ricevuta fra gli antichi stessi, a quel che si dice di Licurgo ec.), mi trovi qualche altro mezzo probabile di trasmissione e conservazione fuori della scrittura non mi parli d'inspirazioni e d'improvvisazioni; mi dica almeno che Omero prima di cantare i suoi versi, li componeva; che li cantava poi più e più volte (a diversi uditorii, o in varie occasioni), colle stesse parole, e quali gli aveva composti e cantati; che gl'insegnava ad altre persone, fossero del volgo, o fossero cantori e genti del mestiere, che solessero impararne da altri, non sapendo farne del loro, e col cantarli si guadagnassero il vitto. Allora, considerata anche la superiorità della memoria avanti l'uso della scrittura, superiorità affermata da Platone (Teeteto e Fedro) e confermata dall'esperienza e dal raziocinio, troverò verisimile la conservazione di canti non scritti, sieno d'Omero o de' Bardi ec.
Ma posto che Omero componesse veramente e meditatamente i suoi canti, in modo da ricordarsene esso poi sempre, e da insegnarli altrui, allora, esclusa anche ogn'idea di piano, non sarà poi fuor di luogo il supporre tra questi canti una certa tal qual relazione; il pensare che Omero nel compor gli uni, si ricordasse degli altri che aveva composti, e intendesse di continuarli, o vogliamo dire, di continuare la narrazione, senza (torno a dire) tendere perciò ad una meta. Anzi questa supposizione è più che naturale, trattandosi di canti che hanno un argomento comune: è certo che Omero nel compor gli uni di mano in mano, si ricordava de' precedenti. E non è egli verisimile che li cantasse sovente tutti ad uno [4325]stesso uditorio, oggi un canto, domani un altro? che l'uditorio s'invogliasse di ascoltar domani la continuazione della storia d'oggi? (ricordiamoci che allora non v'erano altre storie che in versi) che Omero nel cantare i suoi diversi componimenti seguisse un ordine, quello de' fatti? (sia il medesimo o altro da quello che si trova oggi ne' suoi poemi) che seguisse anche quest'ordine nel comporli, cioè, che dopo aver cominciato dove il caso volle, andasse avanti immaginando e narrando, soggiungendo oggi al racconto di ieri, senza (ripeto ancora) mirar mai ad altro, che a tirare innanzi la narrazione?
Così sarà spiegata plausibilmente quella tal quale unità , quanto si voglia larga, ma sempre unità , che si trova ne' suoi poemi, e massime nell'Odissea, nella quale bisogna pur convenire che è ben difficile il non riconoscere un legame qualunque tra le parti, una continuità nel racconto, un insieme, ed anche un principio e fine, nelle avventure romanzesche di quell'eroe. Ed osservo di più, che nell'uno e nell'altro poema, ma più nell'Iliade, moltissimi sono quei tratti di considerabile lunghezza, ai quali non si potrebbe mai dare un titolo a parte, che non fosse frivolo; staccati dal rimanente, non hanno nessuna ragionevole importanza, e riuscirebbero noiosissimi; essi non possono interessare che dipendentemente dalla relazione e connessione che hanno col resto del racconto, come accade ne' poemi scritti con piano determinato; e in se stessi non offrono un argomento che potesse mai parer degno d'esser cantato isolatamente. Questi tratti sono troppo numerosi, troppo lunghi, e formano troppo gran parte [4326]de' due poemi, perchè si possano credere interpolati appostatamente da' diascheuasti per mettere de la liaison tra i canti di Omero.
Le ripetizioni, le cose inutili, le contraddizioni, oltre che a niuno potrebbero far meraviglia in poemi fatti, com'io dico, senza intenzione e senza piano, non annunziano che l'infanzia dell'arte, e non possono parere obbiezioni valevoli, anzi appena obbiezioni, a chi ha pratica e familiarità cogli scrittori antichi; dico assai meno antichi, assai più artifiziosi e dotti che non fu Omero; dico non solo poeti, ma prosatori. Quanto, e come spesso, debbono sudar gli eruditi commentatori per conciliare e por d'accordo seco stesso p.e. qualche antico storico, la cui opera fu certamente scritta, e con piano, e con materiali di fatti scritti da altri, o conservati da tradizione! V. p.4330.
L'infanzia dell'arte in Omero, è annunziata ancora p.e. dalla sterile soprabbondanza degli epiteti, usati fuor di luogo, senza causa o proposito, e spessissimo, com'è noto, a sproposito. Lo stesso per l'appunto fanno i fanciulli quando scrivono i loro esercizi di rettorica: essi non sono mai semplici, anzi più lontani che alcun altro dalla semplicità . Così la maniera di Omero ha una certa naturalezza, ma non semplicità . Quella era effetto del tempo, non dell'autore: i fanciulli non l'hanno, perchè hanno letto, hanno che imitare, ed imitano. Ma la semplicità , come ho detto e sviluppato altrove, è sempre effetto dell'arte; sempre opera dell'autore e non del tempo. Chi scrive senz'arte, non è semplice. Omero anzi cercava tutt'altro che il semplice, cercava l'ornato, e quella sua naturalezza che noi sentiamo, fu contro sua voglia. I poeti greci posteriori hanno abbondanza di epiteti per imitazione di Omero: i più antichi però ne hanno meno, e più a proposito. V. p.4328. capoverso 2., e la pag.4350. fin.
[4327]Questa mia ipotesi, come si vede, sarebbe una nuova transazione fra l'opinione di Wolf e di Müller, e la comune. Secondo ambe le ipotesi, la mia e quella de' due tedeschi, Omero sarebbe stato poeta epico senza volerlo; e sarebbe interessante e curioso il notare il modo della nascita del genere epico, nascita che verrebbe ad essere immaginaria, e pur questa semplice immaginazione avrebbe dato luogo ai lavori epici in che hanno speso la vita eccellentissimi ingegni, come Virgilio e il Tasso: non sarebbe questo il solo caso ridicolo che sarebbe stato originato dalla inclinazione dell'uomo a imitare, ed a sottomettere a regole e a forme il proprio genio. Del resto, ammessa la mia ipotesi, riman sempre luogo a qualche degna lode dell'arte di Omero per l'effetto dell'insieme dell'Iliade, benchè composta senza piano preliminare; l'effetto, dico, osservato nelle mie riflessioni sul poema epico. Ammessa però, in vece, l'ipotesi di Wolf o di Müller, tutta la lode sarà dovuta al solo caso, e risulterà dalle predette mie riflessioni che il caso è molto meglio riuscito nel formare e ordinare un corpo di poema epico, che l'arte de' successori. E al caso si attribuiranno quelle lodi che io ho date all'arte di Omero per l'insieme del suo poema. Altra circostanza umiliante per lo spirito umano.
(Firenze. 26 31. Luglio. 1828.). V. p.4354. fine.
C'est par Aristote que commencent les écrivains qui emploient ce qu'on appelle le dialecte commun (??(???????????(), et Dém...
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