[Pagina precedente]...ciano raffrontare dall'occhio. Non così l'orecchio; capricciosissimo, perchè raccoglie involontario, istantaneo e di necessità tutti i suoni; e gli organi della voce gli sono connessi, cooperanti passivi, e meccanici imitatori; e però niun uomo cresce muto se non perchè nasce sordissimo. Di quanto dunque più preste e più varie e più impercettibili che la scrittura non saranno le alterazioni della pronunzia? Ma si rimutano senza che mai lascino, non pure le forme delineate, come ne' vocaboli scritti, ma nè una lontana reminiscenza. Or chi mai fra' posteri potrà rintracciarle se non con l'orecchio? e dove le troverà egli? [4386]Ridomandandole all'aria, che se le porta? o al tempo che torna a ingombrare l'orecchio di nuovi suoni? ALLAGHERI, com'ei scrivevalo, e poscia ALIGIERI, ALLEGHIERI, ALLIGHIERI, era lungo o breve nella penultima? or è ALIGHIERI; ma in Verona s'è fatto sdrucciolo, ALIGERI. Certo se gli arcavoli risuscitassero in qualunque città penerebbero ad intendere i loro nepoti.
§.203. ed ult. Ma perciò che i Fiorentini di padre in figlio continuarono a ingoiare vocali o rincalzarle raddoppiando consonanti, l'Accademia ideò che quel vezzo fosse nato a un parto co' loro vocaboli. (Avvertim. della Lingua, Vol.2. p.129-160. ed. Mil. de' Classici. Nota.) Pur è sempre accidente più tardo; anzi comune ed inevitabile a ogni lingua parlata: e tutti i popoli con l'andare degli anni per affrettare e battere la pronunzia scemano modulazioni, perchè sono molli e più lunghe; e le articolazioni riescono vibrate insieme e spedite. De' Greci è detto; e più numero tuttavia di vocali scrivono gli Inglesi, e pare che parlino quasi non avessero che alfabeto di consonanti: ma chi ne' loro poeti antichi leggesse all'uso moderno, non troverebbe versi nè rime. Nè credo che altri possa additare poesia di gente veruna ove i fondatori della lingua scritta non si siano dilettati di melodia; e che non vi dominassero le vocali; e che poi non si diminuissero digradando. Anche nella prosodia latina, che era meno primitiva e tolta di pianta da' Greci, e in idioma più forte di consonanti finali, regge l'osservazione; ed anche nelle reliquie di Ennio pochissime, pur le battute de' ventiquattro tempi dell'esametro [4387]su le vocali per via d'iato sono moltissime; e spesse in Lucilio; e parecchie in Lucrezio; non rare in Catullo; non più di sette, che io me ne ricordi, in Virgilio; e una sola in Orazio, nè forse una in Ovidio. Or quante, se pur taluna è da trovarne in Lucano e gli altri tutti congegnatori intemperanti di consonanze, fino allo strepitosissimo Claudiano? Ben diresti che la divina commedia sia stata verseggiata studiosamente a vocali. Ma che le modulazioni non prevalessero alle articolazioni de' versi, avveniva più presto in Italia che altrove; perchè il Petrarca aveva temprato l'orecchio alla prosodia Provenzale sonora di finali tronche più che la Siciliana che a Dante veniva fluida di melodia. La lingua nondimeno per que' suoi fondatori fu scritta, nè mai parlata; e quindi i libri non avendo compiaciuto alle successive pronunzie, gli organi della voce hanno da stare obbedientissimi all'occhio. Il danno della parola dissonante dalla scrittura nelle lingue popolari e letterarie ad un tempo (cioè la francese l'inglese ec.), è minore della sciagura che toccò alla Italiana, destinata anzi all'arte degli scrittori, che alla mente della nazione (vuol dire, scritta e non parlata, nè scritta pel popolo). A questo i tempi, quando mai la facciano parlata da un popolo, provvederanno. Per ora il potersi scrivere così che ogni segno alfabetico sia elemento essenziale del senso e del suono in ogni vocabolo, rimane pur quasi vantaggio su le altre sino da' giorni di Dante. Onde mi proverò di rapprossimarla alla prosodia di tutte le poesie primitive, e alla ortografia che dove le lingue vivono scritte, ma non parlate, [4388]si rimane letteraria, permanente nelle apparenze, e svincolata de' suoni accidentali e mutabili d'età in età nelle lingue popolari (francese inglese ec.), e ne' dialetti municipali. Forse così la lezione della divina commedia, perdendo i vezzi di Fiorentina ritornerà schietta e Italiana. Fine del discorso.
(Firenze. Domenica. 21. Sett. 1828.). V. p.4487.
Nel principio, e nel risorgimento degli studi, si credeva impossibile un'ortografia volgare, un'ortografia che non fosse latina, nel modo stesso che una letteratura volgare e non latina; e le lingue moderne si credevano incapaci di ortografia propria, così appunto come di letteratura.
(21. Sett. Domenica. 1828.)
Alla p.4367. Ci sarebbe ancora un altro partito, e ragionevolissimo. Avere due poesie e letterature, l'una per gl'intendenti, l'altra pel popolo. Così quelli non perderebbero, mentre questo ricupererebbe; non isparirebbero dal mondo i piaceri squisiti e divini (per chi gli può gustare) delle leterature perfezionate; ci potrebbe ancora essere chi provasse de' trasporti di piacere leggendo Virgilio, come ci sono e saranno intendenti che ne provino mirando un quadro di Raffaello ec. ec.
(21. Sett. 1828.)
Alla p.4355. Sorte simile ad Omero ebbe anche in ciò il nostro Dante, il quale fino nello stesso sec. 14. ebbe forse tanti diascheuasti, cioè limatori del suo poema, più o meno arditi, quanti copiatori: onde quelle enormi e continue discrepanze de' suoi codici e stampe anteriori alla edizione della Crusca. V. p.4412.
Alla p.4317. marg. Si legge così a Napoli anche l'Orlando innamorato del Berni e soprattutto la Gerusalemme del Tasso, e il popolo prende partito chi per l'uno di quegli eroi, chi per l'altro, e con tanto ardore, che dopo la [4389]lettura, discorrendo tra loro sopra quei racconti, e quistionando, talora vengono alle mani, e fino si uccidono. Una notte al tardi, due del volgo di Napoli che disputavano caldamente fra loro, andarono a svegliare il famoso Genovesi per saper da lui chi avesse ragione, se Rinaldo o Gernando (Gerusalemme del Tasso). Tengo tutto ciò dall'Imbriani padre, il quale mi dice che il popolo napoletano non ha bisogno che il lettore gli traduca quei poemi, ma che gl'intende da se. In questo modo quei poemi si possono dir veramente pubblicati.
(22. Sett. 1828.). V. p.4408.
Si dice con ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese. Ma non so se alcuno abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriamente poeti, ma come, al più, intermedii fra' poeti e' prosatori) fu Ateniese. Tanto la civiltà squisita è impoetica. (22. Sett. 1828.). Però, chi dice che la letteratura greca fiorì principalmente in Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere che la poesia al contrario. ec.
(22. Sett. 1828.)
Chi presentandomi o raccomandandomi o parlando di me a qualcuno, uomo o donna, ha detto: mio grandissimo amico, grande ingegno, dotto ec. ec., non ha fatto nulla. Ci mancava la gran parola. Chi ha detto: uomo celebre, mi ha proccurato accoglienze e distinzioni e ricerche. Fama ci vuole, e non merito. Anche qui si verifica quello che ho detto altrove, la sola fortuna fa fortuna. Celebre equivale [4390]a ricco, nobile, potente, dignitario, ed altre fortune simili.
(22. 7.bre 1828.)
L'eroismo ci strascina non solo all'ammirazione, all'amore. Ci accade verso gli eroi, come alle donne verso gli uomini. Ci sentiamo più deboli di loro, perciò gli amiamo. Quella virilità maggior della nostra, c'innamora. I soldati di Napoleone erano innamorati di lui, l'amavano con amor di passione, anche dopo la sua caduta: e ciò malgrado quello che aveano dovuto soffrire per lui, e gli agi di cui taluni godevano dopo il suo fato. Così gli strapazzi che gli fa l'amato, infiammano l'amante. E similmente tutta la Francia era innamorata di Napoleone. Così Achille c'innamora per la virilità superiore, malgrado i suoi difetti e bestialità , anzi in ragione ancora di queste.
(22. Sett. 1828.)
Alla p.4354. marg. Potrebbe anco essere che i primi libri fossero in prosa, la prima applicazione della scrittura alla letteratura fosse alla prosa, continuando forse intanto a comporsi in versi senza scriverli, e consegnandoli solamente alla memoria, sì per l'inveterata abitudine, e sì per considerarsi la scrittura come non necessaria, anzi inutile, alla conservazione dei versi, e solo utile e necessaria a quella della prosa. In tal modo potrebbe esser passato molto tempo dopo che si scriveva in prosa, prima che si avessero versi scritti, nel qual tempo non si sarebbero avuti libri che in prosa. In tal caso, che mi par naturale, la prosa à son tour avria preceduto la poesia, come scritta, come opera di letteratura consegnata in libri.
(22. Sett. 1828.). V. p. seg.
Alla p.4318. marg. Ciclo epico, che comprendeva in varie poesie, [4391]incluse quelle d'Omero, la storia tutta del mondo, dalle Origini delle cose, cioè dalla teogonia ec. fino ad Ulisse; ciclo raccolto, secondo un critico tedesco, forse vivente (Bull. de Féruss. ec.) che ha fatto sopra di esso ciclo una dissertazione particolare, poco dopo il tempo de' Pisistratidi. Le poesie comprese in questo ciclo, e i loro argomenti, non erano certamente epici nel senso che noi diamo a questa parola: nondimeno il ciclo si chiamava epico, cioè storico o narrativo. La poesia epica fu distinta dalla lirica, benchè anche??(?(?? si cantassero sulla lira. ec.
(23. Sett. 1828.)
Ridete franco e forte, sopra qualunque cosa, anche innocentissima, con una o due persone, in un caffè, in una conversazione, in via: tutti quelli che vi sentiranno o vedranno rider così, vi rivolgeranno gli occhi, vi guarderanno con rispetto, se parlavano, taceranno, resteranno come mortificati, non ardiranno mai rider di voi, se prima vi guardavano baldanzosi o superbi, perderanno tutta la loro baldanza e superbia verso di voi. In fine il semplice rider alto vi dà una decisa superiorità sopra tutti gli astanti o circostanti, senza eccezione. Terribile ed awful è la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire.
(23. Sett. 1828.)
Alla p. qui dietro. Tutto ciò in quanto a possibilità o verisimiglianza. Ma in quanto a tradizione, par ch'ella provi che i libri in prosa o non precedettero, o solo di poco tempo, quegli in versi; poichè essa tradizione mette le prime prose greche nel principio del [4392]sec. 6. av. G. C., tempo di Pisistrato che raccolse i versi Omerici, e tempo abbondante di altri poeti, i quali non pare al Wolf che potessero mancar di scrittura. Certo che di essi la tradizione non porta, come di Omero, che i loro versi fossero raccolti e scritti posteriormente. Nondimeno, benchè la tradizione non porti ciò neppur di Esiodo (V. p.4397) (onde il Vico, lib.3. p.400. Talchè Esiodo, che lasciò opere di sè scritte, poichè non abbiamo autorità che da' Rapsodi fusse stato, com'Omero, conservato a memoria, si dee porre dopo de' Pisistratidi), pure il Wolf pone anche Esiodo fra que' poeti che non iscrissero, e le poesie esiodee (che egli reputa di vari autori) fra quelle che furono conservate lungamente per sola memoria. - Certior quidem historia adhuc saeculo VI. et V. ante Chr. Simonidi Ceo atque Epicharmo Siculo, antiquae Comoediae principi, satis insignes partes tribuit in litteris complendis et inveniendis novis, quas deinde cum prioribus in aptam seriem collectas a Callistrato quodam, ante alios Jonica Samos publice usurpavisse fertur. Atq. hoc Jonicum alphabetum 24 litterarum a populo Atheniensi tandem Euclide archonte, Olymp. 94, 2. ante Chr. 403 receptum, nec ibi ante hoc tempus usum duarum longar. vocalium publicatum tradunt plures et ex probatis auctoribus. Adeo sero litteratura Graecorum absoluta est et redacta in ordinem, primum, ut multis de causis coniicio, in iis civitatibus quae Sicil. et Magn. Graeciam tenebant, tum in illa posthac litterarum conficientissima urbe, Athenis. Sed cavendum est rursus ne tam serum usum scribendi credamus, aut in omni Graeci...
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