ZIBALDONE, di Giacomo Leopardi - pagina 441
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Dalle quali cose è manifesto che la imitazion suggerita dalla natura, è per essenza, del tutto differente dalla drammatica.
Il dramma non è proprio delle nazioni incolte.
Esso è uno spettacolo, un figlio della civiltà e dell'ozio, un trovato [4236]di persone oziose, che vogliono passare il tempo, in somma un trattenimento dell'ozio, inventato, come tanti e tanti altri, nel seno della civiltà, dall'ingegno dell'uomo, non ispirato dalla natura, ma diretto a procacciar sollazzo a se e agli altri, e onor sociale o utilità a se medesimo.
Trattenimento liberale bensì e degno; ma non prodotto della natura vergine e pura, come è la lirica, che è sua legittima figlia, e l'epica, che è sua vera nepote.
- Gli altri che si chiamano generi di poesia, si possono tutti ridurre a questi tre capi, o non sono generi distinti per poesia, ma per metro o cosa tale estrinseca.
L'elegiaco è nome di metro.
Ogni suo soggetto usitato appartiene di sua natura alla lirica; come i subbietti lugubri, che furono spessissimo trattati dai greci lirici, massime antichi, in versi lirici, nei componimenti al tutto lirici, detti ??????, quali furon quelli di Simonide, assai celebrato in tal maniera di componimenti, e quelli di Pindaro: forse anche ????????, come quelle che di Saffo ricorda Suida.
Il satirico è in parte lirico, se passionato, come l'archilocheo; in parte comico.
Il didascalico, per quel che ha di vera poesia, è lirico o epico; dove è semplicemente precettivo, non ha di poesia che il linguaggio, il modo e i gesti per dir così.
ec.
(Recanati.
15.
Dic.
1826.)
Alla p.3177.
Noterò qui, come cosa solamente poco nota oggidì, e curiosa da sapersi che lo stesso argomento della Gerusalemme, nello stesso tempo del Tasso fu trattato in un poema latino di 12 libri, intitolato la Siriade, da un altro Italiano, cioè da Pietro Angelio, o degli Angeli, da Barga (Castello di Toscana 20.
miglia lontano da Lucca), nato del 1517.
e morto del 1596.
a' 29.
Febbraio (non un intero anno dopo il Tasso, morto a' 25 Aprile 1595.), versificatore e prosatore italiano e latino, certo non indotto, e a' suoi tempi, ed anche appresso, molto stimato, il quale aveva viaggiato in Levante, per la Grecia e per l'Asia, andato a Costantinopoli in compagnia d'uno inviato del Re di Francia, ed aveva per zelo ed onore della nazione italiana ucciso un francese chè parlavane con disprezzo, onde incorse poi in gravi pericoli.
V.
Tiraboschi secolo 16° libro 3.
capo 4.
§ .5° e Dati Prefaz.
alle prose fiorent.
nella Raccolta di prose a uso delle regie scuole di Torino, Torino 1753.
p.633.
Non saprei dire qual de' due, il Tasso o l'Angelio, fosse primo a concepire questo bell'argomento, o se l'uno senza saputa dell'altro.
Ciò solo interesserebbe in questo particolare.
(19.
Dic.
1826.).
Vedi l'oraz.
in lode dell'Angelio, recitata [4237]da Francesco Sanleolini fiorentino nell'Accademia della Crusca l'anno 1597.
Prose fior.
parte 1.
vol.1.
oraz.7.
particolarmente verso la fine, ediz.
di Venez., Occhi, 1730-1735.
p.105-106.
dove l'oratore afferma e vuol provare che il primo a concepire il detto argomento fu il degli Angeli.
V.
il Tasso Apologia agli Accad.
della Crusca, opp.
ed.
del Mauro.
t.2.
p.309.
e le Lettere poetiche, dove si vede che il Tasso veniva facendo comunicare al Barga i pezzi del suo poema in iscriverlo, per avere il suo parere.
(20.
Dic.
1826.
Vigilia di S.
Tommaso apost.).
Dice (aiunt) che un certo poeta greco, per nome Simonide diceva di tenere appresso di se due cassette.
A.
M.
Salvini nelle prose fiorentine, parte 3.
vol.1.
lettera 99.
(lett.
al Signore Antonio Montauti) ediz.
di Venez., Occhi, 1730-35.
tomo 5.
parte I.
p.152.
Tenacità dei greci verso la loro lingua, e loro ignoranza delle altre, in ispecie della latina.
V.
Dati, pref.
alle prose fiorentine, nella Raccolta di prose ad uso delle regie scuole di Torino, Torino 1753.
p.620.
segg.
Universalità della lingua greca anticamente.
V.
Dati, loc.
citato qui sopra, p.627.
fin.
e segg.
Studio e pregio in cui era la lingua italiana presso gli stranieri nel Secolo 17° V.
Dati, loc.
citato qui sopra, p.630: e nella medesima Raccolta cit.
qui sopra, v.
le Orazioni del Lollio e del Buommattei e del Salvini in lode della lingua toscana.
(Recanati.
20.
Dic.
1826.)
Defectus per qui defecit o deficit.
V.
Forcellini.
Zocco-zoccolo.
Fagus-fagulus (v.
Forcell.
Gloss.
ec.) - faggio.
Scultare da sculptum, come in franc.
sculpter.
V.
Crusca.
Sminuzzare-sminuzzolare.
Quell'idiotismo nostro e latino del sibi, o mihi ec.
e del si, mi, ti, ci ec.
ridondante, in vero o in apparenza, notato da me altrove, nell'uso dei verbi, anche attivi, ha molta corrispondenza coll'uso del verbo greco medio, nei quali verbi spessissimo a prima vista non si scorge ombra di azione reciproca, e paiono usati a puro capriccio, in vece dell'attivo; benchè poi, attentamente guardando, sempre o il più delle volte, massime ne' buoni autori, vi si scuopra la cagion di usarli piuttosto che gli attivi, e un non so che di reciproco nella significazione.
(Vigilia di Natale.
Domenica.
1826.
Recanati.).
[4238]?(?????????(???? o ???(????, come appunto in latino patina-patella.
Senz'altro fiato (cioè nessuno).
Galilei, Saggiatore, opp.
ed.
di Padova, t.2.
p.284.
luogo molto insigne e notabile al proposito.
Alla p.4204.
Bellissimo, e da vedersi e leggersi attentamente, è il capo 7.
del libro VI.
di Casaubono ad Athenaeum, dove parla degli antichi libri intitolati ????????(?? o ???(??????????(? (che potremmo tradurre delle Esposizioni dei drammi), libri che contenevano le istorie o croniche delle opere drammatiche, in quanto alle circostanze dei tempi, occasioni, modi, in cui furono esposte sulla scena.
Intorno a tale argomento si affaticarono i primi letterati, incominciando da Aristotele, e massime i Critici.
Erano libri, come bene osserva il Casaubono, utilissimi alla cronologia da una parte, e dall'altra alla storia sì delle vicende politiche e sì dei costumi, tanto generali della Grecia o di Atene (dove si esponevano i drammi), quanto individuali delle persone più cospicue e famose di ciascun tempo.
Giacchè mille volte le vicende politiche davano occasione, e argomento intero, a questo o quel dramma, e vi erano figurati i caratteri dei principali personaggi dell'attuale repubblica.
Tali erano le istorie teatrali dei greci; libri, dove quasi senz'avvedersene, s'imparava la storia politica, la storia più intima delle opinioni e dei costumi nazionali, civili, individuali della Grecia, anno per anno.
Che cosa di comune potrebbero avere con queste le nostre istorie teatrali, le istorie, se ne avessimo, delle nostre esposizioni di arti; e simili libri? Quando presso di noi nè drammi, nè opere d'arte, nè cosa alcuna d'ingegno, suol rappresentare le circostanze dei tempi, nè essere occasionata e figlia legittima del tempo? In fatti quale interesse hanno le nostre istorie teatrali, se non forse per le compagnie degl'istrioni?
(Recanati.
29.
Dic.
1826.).
V.
p.4294.
Differenza tra le antiche e le più recenti, le prime e le ultime, mitologie.
Gl'inventori delle prime mitologie (individui o popoli) non cercavano l'oscuro per [4239]tutto, eziandio nel chiaro; anzi cercavano il chiaro nell'oscuro; volevano spiegare e non mistificare e scoprire; tendevano a dichiarar colle cose sensibili quelle che non cadono sotto i sensi, a render ragione a lor modo e meglio che potevano, di quelle cose che l'uomo non può comprendere, o che essi non comprendevano ancora.
Gl'inventori delle ultime mitologie, i platonici, e massime gli uomini dei primi secoli della nostra era, decisamente cercavano l'oscuro nel chiaro, volevano spiegare le cose sensibili e intelligibili, colle non intelligibili e non sensibili; si compiacevano delle tenebre; rendevano ragione delle cose chiare e manifeste, con dei misteri e dei secreti.
Le prime mitologie non avevano misteri, anzi erano trovate per ispiegare, e far chiari a tutti, i misteri della natura; le ultime sono state trovate per farci creder mistero e superiore alla intelligenza nostra anche quello che noi tocchiamo con mano, quello dove, altrimenti, non avremmo sospettato nessuno arcano.
Quindi il diverso carattere delle due sorti di mitologie, corrispondente al diverso carattere sì dei tempi in cui nacquero, sì dello spirito e del fine o tendenza con cui furono create.
Le une gaie, le altre tetre ec.
(Recanati 29.
Dic.
1826.)
Vi-g-ore coi derivati - vi-v-ore coi derivati.
V.
Crusca.
Violato per violaceo, violetto, o appartenente a viole.
V.
Crusca.
Lanatus (v.
Forcell.), lanuto per lanosus, lanoso.
Violetto.
Diminutivo aggettivo positivato.
Misceo, mixtus, misto-mestare (quasi da mesto per misto, come meschio per mischio, e meschiare, mescolare ec.) rimestare mesticare (noi marchegiani diciamo più alla latina misticare, misticanza ec.); coi derivati.
Per il Manuale di filosofia pratica.
Pazienza quanto giovi per mitigare e render più facile, più sopportabile, ed anco veramente più leggero lo stesso dolor corporale; cosa sperimentata e osservata da me in quell'assalto nervoso al petto, sofferto ai 29 di Maggio 1826.
in Bologna; dove il dolore si accresceva effettivamente colla impazienza, e colla inquietezza.
Consiste in una non resistenza, una rassegnazione [4240]d'animo, una certa quiete dell'animo nel patimento.
E potrà essere disprezzata questa virtù quanto si voglia, e chiamata vile: ella è pur necessaria all'uomo, nato e destinato inesorabilmente, inevitabilmente, irrevocabilmente a patire, e patire assai, e con pochi intervalli.
Ed ella nasce, e si acquista eziandio non volendo, naturalmente, coll'abitudine del sopportare un travaglio o una noia.
La pazienza e la quiete, è in gran parte quella cosa che a lungo andare rende così tollerabile, p.e.
a un carcerato, il tedio orrendo della solitudine e del non far nulla; tedio da principio asprissimo a tollerare, per la resistenza che l'uomo fa a quella noia, e l'impazienza e smania ed avidità ed ansietà di esserne fuori, la quale passata, e dolore e noia si rendono assai più facili e più leggeri.
E in ciò consiste la pazienza, che è una qualità negativa più che altrimenti.
(30.
Dic.
1826.
Recanati.).
V.
p.4267.
Circa la stima che gli antichi facevano della felicità, e il contarla come una delle principali doti dei loro eroi, e come soggetto principalissimo di lode, è curioso vedere come Giorgio Gemisto Pletone, nella sua breve ed elegantissima orazione in morte della imperatrice Elena, poi fatta monaca e detta Ipomone, pubblicata da Mustoxidi e Scinà nella loro ?????????????????, ?????????, cioè quaderno ??, imitando nelle altre cose, e molto felicemente, gli antichi, gl'imiti anche in questo, di lodar principalmente quella donna per li favori della fortuna; sentimento alieno da' suoi tempi.
(Recanati.
ultimo del 1826.)
Chi scrivendo oggi, cerca o consegue la perfezion dello stile, e procede secondo le sottilissime avvertenze e considerazioni dell'arte antica intorno a questa gran parte, e secondo gli esempi perfettissimi degli antichi, si può dir con tutta verità, che scriva solamente e propriamente ai morti, non meno di chi scrive in latino, o di chi usasse il greco antico.
Tanto è oggi (e sarà forse in futuro) cercare con quanto si sia successo, la perfezion dello stile nelle lingue vive, quanto cercarla ed anco trovarla nelle morte, come facevano molti illustri italiani del cinquecento nella latina.
(2.
1827.)
[4241]Brancicare.
Zoppicare.
Spruzzolare.
Avvolticchiare.
Svolticchiare.
Magalotti Lett.
familiari, lett.8.
circa fin.
par.1.
Non so s'io m'inganno, ma certo mi par di scorgere nella maniera sì di pensare e sì di scrivere del Galilei un segno e un effetto del suo esser nobile.
Quella franchezza e libertà di pensare, placida, tranquilla, sicura, e non forzata, la stessa non disaggradevole, e nel tempo stesso decorosa sprezzatura del suo stile, scuoprono una certa magnanimità, una fiducia ed estimazion lodevole di se stesso, una generosità d'animo, non acquisita col tempo e la riflessione, ma quasi ingenita, perchè avuta fin dal principio della vita, e nata dalla considerazione altrui riscossa fin da' primi anni ed abituata.
Io credo che questa tale magnanimità e di pensare e di scrivere, dico questa tale, e che non sia nè feroce, nè satirica, o mista dell'uno e dell'altro, non si troverà facilmente in iscrittori o uomini non nati nobili o di buon grado; se egli si guarderà bene.
Vi si troverà sempre una differenza.
Simili considerazioni si potrebbero fare intorno alla ricchezza, che suol dare allo stile un certo splendore, abbondanza, e forse scialacquo.
Simili intorno alla potenza, dignità, fortuna.
Simili intorno ai contrarii.
Vedi Alfieri Vita sua, capo 1.
principio.
Messala nitidus et candidus, et quodammodo prae se ferens in dicendo nobilitatem suam.
Quintiliano 10.1.
(6.
1827.
Epifania.).
Forse Galileo non riusciva, come fece, il primo riformatore della filosofia e dello spirito umano, o almeno non così libero, se la fortuna non lo facea nascere di famiglia nobile.
V.
p.4419.
Dispetto e despetto, cioè disprezzato, per dispregevole.
Egli è pur certo che l'ordine antico delle stagioni par che vada pervertendosi.
Qui in Italia è voce e querela comune che i mezzi tempi non vi son più, e in questo smarrimento di confini, non vi è dubbio che il freddo acquista terreno.
Io ho udito dire a mio padre che in sua gioventù a Roma, la mattina di pasqua di resurrezione ognuno si rivestiva da state.
Adesso chi non ha bisogno d'impegnar la camiciuola, vi so dire che si guarda molto bene di non alleggerirsi della minima [4242]cosa di quelle ch'ei portava nel cuor dell'inverno.
Magalotti, Lettere familiari, parte I.
lett.28.
Belmonte 9.
Febbraio 1683.
(cento e quarantaquattr'anni fa!!).
(7.
1827.
Recanati.).
Se i sostenitori del raffreddamento progressivo ed ancor durante del globo, se il bravo Dott.
Paoli (nelle sue belle e dottissime Ricerche sul moto molecolare dei solidi) non avessero avuto o avessero da assegnare altre prove di questa loro opinione, che la testimonianza dei nostri vecchi, i quali affermano la stessissima cosa che quello del Magalotti, allegando la stessa pretesa usanza, e fissandola allo stesso tempo dell'anno; si può veder da questo passo, che non farebbero grand'effetto con questo argomento.
Il vecchio, laudator temporis acti se puero, non contento delle cose umane, vuol che anche le naturali fossero migliori nella sua fanciullezza e gioventù, che dipoi.
La ragione è chiara, cioè che tali gli parevano allora; che il freddo lo noiava e gli si faceva sentire infinitamente meno, ec.
ec.
Del resto non ha molt'anni che le nostre gazzette, sulla fede dei nostri vecchi, proposero come nuova nuova ai fisici la questione del perchè le stagioni a' nostri tempi sieno mutate d'ordine ec.
e cresciuto il freddo; e ciò da alcuni fu attribuito al taglio de' boschi del Sempione ec.
ec.
Quello che tutti noi sappiamo, e che io mi ricordo bene è, che nella mia fanciullezza il mezzogiorno d'Italia non aveva anno senza grosse nevi, e che ora non ha quasi anno con nevi che durino più di poche ore.
Così dei ghiacci, e insomma del rigore dell'invernata.
E non però che io non senta il freddo adesso assai più che da piccolo.
L'amor della vita e il timor della morte non sono innati per se: altrimenti niuno s'ammazzerebbe.
Innato è l'amor di se, e quindi del proprio bene, e l'odio del proprio male: e però niun può non amarsi, nè amare il suo creduto male ec.
È però naturale che ogni vivente giudichi la vita il suo maggior bene e la morte il maggior male.
E infatti così egli giudica infallibilmente, se non è molto allontanato dallo stato di natura.
Ecco dunque che la natura ha veramente provveduto alla conservazione, rendendo immancabile questo error di giudizio; benchè non abbia ingenerato [4243]un amor della vita.
Esso è un ragionamento, non un sentimento: però non può essere innato.
Sentimento è l'amor proprio, di cui l'amor della vita è una naturale, benchè falsa conclusione.
Ma di esso altresì è conclusione (bensì non naturale) quella di chi risolve uccidersi da se stesso.
(8.
1827.)
Senza più oltre o più avanti o innanzi pensare, e simili, vagliono spesse volte semplicemente senza punto pensare.
Così senza pensar più là.
Così senza più, o solo, o accompagnato con verbi (senza più pensare) o con nomi, equivale spesso a senza nulla o niuno, appunto come in ispagn.
mas per niuno, del che altrove.
Senza pensar più oltre.
V.
Firenzuola Ragionam.
ed.
Classici ital.
p.229.
cioè penult.
Bembo Asolani p.10.
col.1.
fin., nelle sue opp.
Della diffusione della lingua italiana presso gli stranieri nel 500.
v.
anche Speroni Oraz.
in lode del Bembo.
Tasso opp.
ed.
del Mauro, t.9.
p.148.
lett.238.
Lettere di Principi o a Principi Ven.
1573.
carta 226.
versa.
Disprezzo e ignoranza dei greci per la letteratura latina.
V.
Speroni Diall.
ed.
Ven.
1596.
p.420.
- Si potrebbero in ciò i greci assomigliare ai francesi.
Trovasi anco in inglese lo scambio della s coll'aspirazione.
Salle franc.
- hall ingl.
Altro per niuno o niente.
Firenzuola Ragionamenti, ed.
dei Classici ital.
p.89.
lin.2.
p.230.
cioè ult.
Tu profferisti chiunque con due sillabe; la qual parola non mi voglio ricordare che si truovi se non con tre.
Firenzuola loc.
cit.
qui sopra, p.84.
Vuol dire non mi vuol venire alla mente, non mi posso ricordare.
Grecismo.
Simile alla p.162.
Lucrezia, chè così mi voglio ricordar che fusse il nome della vedova.
Cioè così mi vuol dire, così mi dice, la memoria; così mi pare, mi vien fatto, di ricordarmi.
(Domenica 14.
1827.)
Mia, tua, sua plurali fiorentini, e antichi.
Alla p.4156.
A noi non pare che così fatti sfoghi, questo gridare, questo pianger forte, strapparsi i capelli, gittarsi in terra, voltolarsi, dar del capo nelle pareti, cose usate nelle sventure dagli antichi, usate dai selvaggi, usate tra noi oggidì dalle genti del volgo, possano essere di niun conforto al dolore; e [4244]veramente a noi non sarebbero, perchè non ci siamo più inclinati e portati dalla natura in niun modo; e quando anche le facessimo, le faremmo forzatamente, sarebbe studio e non natura, e però cosa inutile: tanto è mutata, vinta, cancellata in noi la natura dall'assuefazione.
Ma egli è però certo che questi atti, insegnati dalla natura medesima (il che non si può volgere in dubbio), sono a chi li pratica naturalmente, un conforto grandissimo ed un compenso molto opportuno nelle calamità.
Quella resistenza che l'animo fa naturalmente alla sciagura e al dolore, è il più penoso che abbiano le disavventure, è il maggior dolore che prova l'uomo.
Quando l'animo è domato, ogni calamità, per grave che sia, è tollerabile.
Questo domar l'animo, questo ridurlo a cedere alla necessità e conformarsi allo andamento e alla condizion delle cose, lo fa in noi il tempo, il quale però il Voltaire chiama consolatore.
Ma lo fa con lunghezza; e quella prima resistenza, oltre al durar di più, ha questo ancora di più doloroso, che ella si rivolge e si esercita contro di noi stessi; ella è dell'animo all'animo.
Laddove nei selvaggi e nelle persone volgari, ella si esercita contro le cose esterne, per così dire; e siccome le sue operazioni sono più vive, così ella langue e manca più presto.
Ella abbatte il corpo, e però travaglia assai meno l'animo; bensì perchè col corpo anco l'animo è abbattuto, perciò quelle tali persone, dopo quegli atti, si trovano aversi domato l'animo e ridotto, per dir così, alla dedizione, da loro stessi, senza aspettare il tempo; onde quando si risvegliano da quei furori, da quelle smanie, hanno già l'animo accomodato a sopportar la sventura, a poterla guardar fermamente in viso, senza esser però coraggiosi.
Ed è già notato e notasi giornalmente che nei plebei il dolore delle grandi sventure dura assai meno che nelle persone colte.
Sicchè quegli sfoghi sono veramente una medicina quasi un narcotico preparata dalla [4245]natura medesima, perchè l'uomo potesse sopportare i suoi mali più leggermente.
E noi siamo ridotti a non saper nè pure intendere come essi giovino a quelli che naturalmente gli vediamo esercitare.
Ed è questo un altro beneficio della filosofia e della civiltà, che pretendendo insegnarci a sopportare le calamità meglio che non fa a noi la natura, e predicandoci il disprezzo del dolore, e facendoci vergognar di mostrarlo, come di cosa indegna di uomini, e da vigliacchi e indotti; ci ha privati di quel soccorso che la natura ci aveva apprestato, molto più efficace di qualsivoglia dei loro.
V.
p.4283.
(Recanati 15.
1827.
S.
Paolo, primo eremita.)
Alla p.4184.
Molte cose si trovano presso gli antichi, come sarebbe questa opinione sopraddetta, che appartengono e fanno fede ad una squisita umanità, molto superiore ad ogn'idea moderna.
Di tal genere era l'uso di quegli?(????? tanto famosi presso i greci, e tanto usitati, fino a nascerne, come di ogni buona e umana istituzione o usanza, abusi che oggi paiono stranissimi.
Veggansi nel Casaubono, ad Atenae.
libro 7.
capo 5.
fin.
(v.
p.4469.) E veggansi pure nel medesimo, libro 6.
capo 19.
princip.
l'umanità con cui erano trattati i servi, cioè schiavi, dagli Ateniesi, e gli strani diritti che erano loro dati per le leggi di quella repubblica.
V.
la p.4280, capoverso 3.
(15.
1827.).
V.
p.4286.
Melato, mellitus, per melleus o dulcis.
Spedito, espedito, expeditus ec.
Spigliato.
Sforzato, sforzatamente (esforzado).
Crusca.
Strascicare.
Attero, attritum-attritare, contritare.
Crusca.
V.
Forcell.
Gloss.
ec.
Taranta.
Speroni Dial.
ed.
Ven.
1596.
p.135.
- Tarantola.
Tarantella.
Salvini.
V.
Diz.
dell'Alberti.
Tarande-tarantule.
Tarantolato.
V.
gli spagn.
ec.
?(???????(?.
v.
i Lessici e Casaub.
ad Athenae.
Nome di pesce.
??(???????????(?.
v.
Casaub.
ib.
lib.7.
c.10.
init.
c.20.
fin.
(???????(??(???? ib.
c.12.
med.
In proposito del Sassetti, primo notificatore della lingua sascrita, come ho detto altrove, osservo che anche qui si verifica quella osservazione, che agl'italiani par destinato il trovare, e il lasciar poi agli altri l'usare e il perfezionare, e il raccoglier la gloria e l'opinione ancora della scoperta.
(19.
1827.)
(?-gli antichi ?(?, ?(????? ec.
V.
Ateneo, e i Lessici, coi composti e derivati ec.
[4246]Superstiziosa imitazione e venerazione del Petrarca nel 16.
secolo del che altrove ec.
V.
nelle opp.
del Tasso le Opposizioni al Sonetto Spirto, leggiadre rime ec.
e la Risposta del Tasso.
(ed.
del Mauro, t.6.).
V.
ancora il Guidiccioni nelle Lett.
di div.
eccellentiss.
uom.
Ven.
Giolito.
1554.
p.43-48.
Sevum, sevo-sego.
Rovo-rogo.
Trasognato per trasognante.
Straboccato, traboccato per traboccante, o che suol traboccare.
????(?????(??(????(????(????? (cioè ?(????, debet ec.) ????(??(?(???????(??(?????? (vuole, tende per sua natura a fare) Plutar.????(????????(??? de amicorum multitudine, p.95.
A.
V.
Casaubon.
ad Athenae.
l.7.
C.16.
Volere assolutamente per dovere, vedilo nelle Giunte Veronesi.
(Recanati.
25.
1827.)
Preciado spagn.
per prezioso, come noi pregiato.
Continuato o continovato per continuo, e così continué ec.
Vittuaglia, vittuaria-vittovaglia, vettovaglia, vettuvaglia.
Vettuaglia, Ricordano cap.125.
133.
M.
Vill.
ap.
Crus.
in Casale.
Capua, Padua, Mantua, coi derivati Capova, Padova, Mantova ec.
ec.
Balduino e Baldovino.
Menovare, cioè menuare.
v.
Crus.
Auto, riceuto ec.
negli antichi, come Ricordano ec.
omesso il v, per avuto ec.
Monte Guarchi, in Ricordano spesso, per Montevarchi.
Da mutolo per muto, ammutolare, ammutolire per ammutare, ammutire disusati.
Nutrire per avere (io nutro speranza ec.).
V.
Crus.
franc.
spagn.
ec.
-???(?? appunto per?(??.
Casaub.
ad Athenae.
l.7.
c.18.
fin.
Disguizzolare.
Parlottare.
Borbottare.
Digiuna plur.
per quattro tempora.
Dino Comp.
lib.3.
princip.
La Crus.
ha Digiune.
Ragionato per ragionevole, ragionatamente ec.
v.
Crusca.
Minutus, minuto ec.
da minuo, per piccolo.
Svagato, divagato, distratto, distrait ec.
per che suole essere svagato ec.
Dissipito cioè non saputo per dissipiente, che non sa, non ha sapore.
Dissapito.
Dissaporito.
Sfondare-sfondolare, sfondolato.
Aratro arato voce antica - aratolo.
Alla p.4144.
Io credo certo ch'Epitteto (il quale viveva in Roma) alluda in questo luogo al costume romano di chiamar le donne dominae, costume che certo ci dovette essere, e passare in consuetudine grandissima poichè nel nostro volgare domina (donna) è restato sinonimo, anzi vicario, di mulier.
V.
il Ducange in Domina, [4247]§ .6.
e il Forcell.
che dice così chiamate le madri di famiglia e le mogli, e queste, cioè le maritate, sono propriamente in ital.
le donne.
Questa è però, secondo me, la vera interpretazione del luogo di Epitteto, cioè che le femmine, appena maritate, divengono di nome donne, che val padrone.
Del resto noi diciamo similmente le non maritate, donzelle, cioè padroncine.
V.
Ducange in Domicellus, ed anche vedilo in Domnus.
I mariti ancora si chiamavano particolarmente domini.
Forcell.
(Recanati.
2.
Feb.
Festa della Purificazione di Maria Vergine Santissima.
1827.)
Magistrato274 da bene.
Magistrato malvagio.
Qual è il segno da riconoscerlo? Di tutte le altre cose non ne troverete una, dove stabilito ancora e confessato il fatto, non sieno vari e opposti giudizi, o interpretazioni qual buona qual sinistra.
Rigoroso, severo: se tu lo lodi per questo capo, altri per questo medesimo lo chiamerà vendicativo, crudele, ministro della tirannide, esecutore di vendette e risentimenti privati sotto specie di pubblici, nemico dei cittadini, fanatico, persecutore, odiatore dei lumi, della libertà, del progresso della civilizzazione.
Clemente: sarà freddo, debole, protettore dei vizi e dei malvagi, complice dei perturbatori della società, fautore delle male opere.
Se vi sono partiti, ed egli ne favorisce uno, l'altro o gli altri lo condannano; se nessuno, egli è un insensato, un vile, almeno un furbo.
Così dell'ambizione; ec.
ec.
Ma quanto all'astinenza o all'appetenza dell'altrui o del pubblico, voi non troverete due persone che concordato il fatto, discordino nel lodarlo o nel biasimarlo, o anche nell'interpretarlo.
E questo è quasi il solo capo dal quale in verità suol dipendere il nome che uno acquista nei magistrati di uomo da bene, o di tristo.
Da bene è sinonimo di disinteressato, malvagio di cupido; integrità di disinteresse ec.
Da ciò parrebbe che gli uomini non fossero d'accordo se non nel concetto della roba, e che l'ufficiale pubblico potesse a suo modo dispor della vita, dell'onore, della libertà, di tutti gli altri beni dei cittadini, purchè rispettasse i danari e le possessioni.
(4.
Feb.
Domenica.
1827.)
Cano is, con-cino is ec.
- Vati-cinor aris, ec.
buccinare ec.
V.
Forc.
[4248]( ?(???? per ?(??????.
V.
Casaub.
ad Athenae.
l.8.
c.10.
sulla fine.
Plat.
ed Astii t.4.
p.104.
lin.23.
p.200.
lin.9.
???????? ha diverso accento quando si scrive per infelice e quando per malvagio; ?(?????? o ??????(?; come ho notato altrove di ???????.
Puoi vedere Casaub.
ad Athenae.
l.8.
c.10.
titul.
et init.
Del digamma eolico v.
Casaub.
ad Athenae.
l.8.
c.11.
due volte.
Al detto altrove di curtus, cortar, scortare, scorciare, accorciare ec.
aggiungi accortare.
Metior iris-metor aris.
Ed anche metio (Lattanz.
ha metiebantur passiv.) e meto.
Capperi.
Origine greca di questa esclamazione.
V.
Menag.
ad Laert.
l.7.
segm.32.
'P???(?-racaille.
V.
Casaub.
ad Athenae.
l.9.
c.5.
Sottosopra, sossopra, sozzopra ec.
- (????(??.
Assegnato per parco ec.
V.
Crusca, e Caro.
Lett.175.
vol.1.
Certo molte cose nella natura vanno bene, cioè vanno in modo che esse cose si possono conservare e durare, che altrimenti non potrebbero.
Ma infinite (e forse in più numero che quelle) vanno male, e sono combinate male, sì morali sì fisiche, con estremo incomodo delle creature; le quali cose di leggieri si sarebbono potute combinar bene.
Pure perch'elle non distruggono l'ordine presente delle cose, vanno naturalmente e regolarmente male, e sono mali naturali e regolari.
Ma noi da queste non argomentiamo già che la fabbrica dell'universo sia opera di causa non intelligente; benchè da quelle cose che vanno bene crediamo poter con certezza argomentare che l'universo sia fattura di una intelligenza.
Noi diciamo che questi mali sono misteri; che paiono mali a noi, ma non sono;, benchè non ci cade in mente di dubitare che anche quei beni sieno misteri, e che ci paiano beni e non siano.
Queste considerazioni confermano il sistema di Stratone da Lampsaco, spiegato da me in un'operetta a posta.
(18.
Febbraio.
Domenica di Sessagesima.
1827.)
(????? ridondante.
V.
Casaub.
ad Athenae.
l.9.
c.10.
dopo il mezzo, dove il Casaub.
non pare avere atteso a questa proprietà del grecismo, nè compresala bene.
Alla p.4184.
Del resto io posso per la mia inclinazione alla monofagia, esser paragonato all'uccello che i greci chiamavano porfirione, se è vero quel che ne raccontano Ateneo ed Eliano, che quando esso mangia, abbia a male i testimoni.
V.
Casaub.
ad Athenae.
9.
c.10.
sotto il principio.
V.
p.4422.
[4249]GIUOCO DI MANO, GIUOCO DI VILLANO, is a very true saying, among the few true sayings of the Italians.
Chesterfield Letters to his son, lett.259.
Il conte di Chesterfield era veramente molto pratico e della lingua, ed anche dei particolari e minuti detti usuali nel nostro parlar familiare.
Nè io disapproverei molti de' suoi giudizi circa la letteratura e le cose nostre, come p.e.
quello circa il Petrarca (lett.217.), simile al parer del Sismondi: PETRARCA is, in my mind, a sing-song love-sick Poet; much admired, however, by the Italians: but an Italian, who should think no better of him than I do, would certainly say, that he deserved his LAURA better than his LAURO (alludendo alla coronazione del Poeta in Roma); and that wretched quibble would be reckoned an excellent piece of Italian wit.
Io, con licenza di Milord, non credo che sia vera quest'ultima cosa, nè che fosse vera al tempo suo, ma ben sono della sua opinione in quanto al Petrarca.
V.
p.4263.
Il qual giudizio troverà pochi approvatori in Italia fuori di me.
Ma quello dei nostri detti e proverbi, è certamente falso ec.
(Può servire per un articolo sopra i proverbi).
(Recanati 27.
Feb.
ult.
di Carnovale.
1827.)
Ultimatamente per ultimamente, Crusca.
L'usa anco il Bembo nelle Lettere.
Il Bembo fu un Cesari del 500, il Cesari è un Bembo dell'800.
Simili negli effetti che hanno operati, e nelle circostanze dei tempi quanto alla lingua, e nei mezzi usati e nelle opinioni, cioè nella divozione al 300.
ec.
Ma similissimi anco nell'esser loro naturale (lasciando l'esser vicini di patria, e d'una provincia stessa).
Molta lettura e studio: nessuno ingegno da natura; nessuna sembianza di esso, acquistata per l'arte.
Mai niun barlume, niuna scintilla di genio, di felice vena, ne' loro scritti.
Aridità, sterilità, nudità e deserto universalmente.
Pochi o niuno de' nostri autori e libri che hanno avuto fama e che si stampano ancora, furono mai così poveri per questa parte, come il Bembo e gli scritti suoi.
(27.
Feb.
1827.)
Pel Manuale di filosofia pratica.
Desiderio naturale, necessario, e perpetuo [4250]nell'uomo, di un futuro miglior del presente, per buono che il presente possa essere.
Importanza quindi dell'avere una prospettiva e una speranza, per esser felice.
Importanza del sapersi fare, comporre e propor da se stesso tal prospettiva.
Non sempre le circostanze, l'età ec.
permettono una prospettiva di miglioramento e di avanzamento nello stato ec.
Oltracciò gli avanzamenti e miglioramenti grandi sono di difficile conseguimento, e non conseguendosi, e ingannata la speranza, restiamo turbati.
Utilità somma del sapersi proporre di giorno in giorno un futuro facile, o anche certo, ad ottenere; dei beni che avvengono d'ora in ora; godimenti giornalieri, di cui non v'ha condizione che non sia fornita o capace: il tutto sta sapersene pascere, e formarne la propria espettativa, prospettiva e speranza, ora per ora: questo è ufficio di filosofo, ed è pratica incomparabilmente utile al viver felice.
(Recanati.
1° dì di Quaresima.
28.
Feb.
1827.)
Ho detto altrove che nella primavera l'uomo suole sentirsi più scontento del suo stato, che negli altri tempi.
Così ancora nella state più che nel verno.
La cagione è che allora l'uomo patisce meno.
Però desidera più il godimento e il piacere diretto.
Nella primavera poi tanto più sensibile è questo desiderio, quanto è più sensibile la privazione del patimento e dell'incomodità che reca il freddo, la qual cessa allora appunto.
La infermità, il timore, il patimento di qualunque sorta volgono l'amor del piacere nell'amor del non patire, o del fuggire il pericolo.
l'animo in quello stato, è meno esigente.
Il non patire è più possibile ad ottenersi che il godere.
Però nell'inverno si sente meno la scontentezza del proprio essere, che nella buona stagione.
Nella quale l'animo ripiglia la sua avidità del piacere; e, come è naturale, nol ritrova mai.
(Recanati 2.
Marzo.
1827.
I.
Venerdì di Marzo.)
A vóto per frustra.
- ?(?????(?? V.
Casaubon.
ad Athenae.
l.11.
c.6.
sul mezzo.
Parrebbe che tutta quella infinita cura che pose Isocrate circa la collocazione delle parole e la struttura della dizione, non ad altro l'avesse egli posta, [4251]fuorchè a proccurare la più perfetta, la più squisita, la maggior possibile, la più singolare chiarezza.
Questa dote non si osserva negli altri autori che l'hanno, se non in quanto nel leggerli non si patisce, vale a dir non si sentono impedimenti e difficoltà.
In Isocrate ella si osserva, perchè non solo non si patisce leggendolo, ma per essa si prova un certo piacere.
Negli altri ella è qualità negativa, in questo è positiva; ha un certo senso, un sapore proprio.
Quel piacere che dà in molti autori una temperata difficoltà che si prova leggendoli, e superando facilmente quella difficoltà ad ogni passo, quel medesimo dà nel leggere Isocrate la somma e straordinaria facilità.
Par di sentirvi quel gusto che si prova quando in buona disposizione di corpo, e volontà di far moto, si cammina speditamente per una strada, non pur piana, ma lastricata.
Io non credo che si trovi autor così chiaro e facile in alcuna altra lingua, come è Isocrate (e certo senza compagni) nella greca.
Esso è facilissimo anche ai principianti in quella lingua, che è pur la più difficile (se non prevale in ciò la tedesca) di tutte le lingue del mondo.
Tanto più mirabile in questo, quanto che si sa bene con quanto studio Isocrate cercasse gli altri pregi della dicitura, e soprattutto fuggisse il concorso delle vocali; (il che egli ha fatto effettivamente e conseguito quasi da per tutto ed interamente) difficoltà certo grandissima, ed inceppamento; come ognun vedrebbe provandovisi; il quale però non ha punto impedito quella maravigliosa facilità.
(7.
Marzo.
Mercordì di quattro tempora.
1827.)
Grispignolo.
Lappa-lappula.
lat., lappola.
ital.
Parrebbe che secondo ogni ragione, secondo l'andamento naturale dell'intelletto e del discorso, noi avessimo dovuto dire e tenere per indubitato, la materia può pensare, la materia pensa e sente.
Se io non conoscessi alcun corpo elastico, forse io direi: la materia non può, in dispetto della sua gravità, muoversi in tale o tal [4252]direzione ec.
Così se io non conoscessi la elettricità, la proprietà dell'aria di essere instrumento del suono; io direi la materia non è capace di tali e tali azioni e fenomeni, l'aria non può fare i tali effetti.
Ma perchè io conosco dei corpi elastici, elettrici ec.
io dico, e nessuno me lo contrasta; la materia può far questo e questo, è capace di tali e tali fenomeni.
Io veggo dei corpi che pensano e che sentono.
Dico dei corpi; cioè uomini ed animali; che io non veggo, non sento, non so nè posso sapere che sieno altro che corpi.
Dunque dirò: la materia può pensare e sentire; pensa e sente.
- Signor no; anzi voi direte: la materia non può, in nessun modo mai, nè pensare nè sentire.
- Oh perchè? - Perchè noi non intendiamo come lo faccia.
- Bellissima: intendiamo noi come attiri i corpi, come faccia quei mirabili effetti dell'elettricità, come l'aria faccia il suono? anzi intendiamo forse punto che cosa sia la forza di attrazione, di gravità, di elasticità; che cosa sia elettricità; che cosa sia forza della materia? E se non l'intendiamo, nè potremo intenderlo mai, neghiamo noi per questo che la materia non sia capace di queste cose, quando noi vediamo che lo è? - Provatemi che la materia possa pensare e sentire.
- Che ho io da provarlo? Il fatto lo prova.
Noi veggiamo dei corpi che pensano e sentono; e voi, che siete un corpo, pensate e sentite.
Non ho bisogno di altre prove.
- Quei corpi non sono essi che pensano.
- E che cos'è? - È un'altra sostanza ch'è in loro.
- Chi ve lo dice? - Nessuno: ma è necessario supporla, perchè la materia non può pensare.
- Provatemi voi prima questo, che la materia non può pensare.
- Oh la cosa è evidente, non ha bisogno di prove, è un assioma, si dimostra di se: la cosa si suppone, e si piglia per conceduta senza più.
In fatti noi non possiamo giustificare altrimenti le nostre tante chimeriche opinioni, sistemi, ragionamenti, fabbriche in aria, sopra lo spirito e l'anima, se non riducendoci a questo: che la impossibilità di pensare e sentire nella materia, sia un assioma, un principio innato di ragione, che non ha bisogno di prove.
[4253]Noi siamo effettivamente partiti dalla supposizione assoluta e gratuita di questa impossibilità per provare l'esistenza dello spirito.
Sarebbe infinito il rilevare tutte le assurdità e i ragionamenti le contraddizioni al nostro medesimo usato metodo e andamento di discorrere che si sono dovuti fare per ragionare sopra questa supposta sostanza, e per arrivare alla conclusione della sua esistenza.
Qui davvero che il povero intelletto umano si è portato da fanciullo quanto mai in alcuna cosa.
E pur la verità gli era innanzi agli occhi.
Il fatto gli diceva: la materia pensa e sente; perchè tu vedi al mondo cose che pensano e sentono, e tu non conosci cose che non sieno materia; non conosci al mondo, anzi per qualunque sforzo non puoi concepire, altro che materia.
Ma non conoscendo il come la materia pensasse e sentisse, ha negato alla materia questo potere, e ha spiegato poi chiarissimamente e compreso benissimo il fenomeno, attribuendolo allo spirito: il che è una parola, senza idea possibile; o vogliam dire un'idea meramente negativa e privativa, e però non idea; come non è idea il niente, o un corpo che non sia largo nè profondo nè lungo,275 e simili immaginazioni della lingua piuttosto che del pensiero.
Che se noi abbiamo conchiuso non poter la materia pensare e sentire, perchè le altre cose materiali, fuori dell'uomo e delle bestie, non pensano nè sentono (o almeno così crediamo noi); per simil ragione avremmo dovuto dire che gli effetti della elasticità non possono esser della materia, perchè solo i corpi elastici sono atti a farli, e gli altri no; e così discorretela.
(9.
Marzo.
1827.
2° Venerdì di Marzo.)
Il bambino, quasi appena nato, farà dei moti, per li quali si potrebbe intender benissimo che egli conosce l'esistenza della forza di gravità dei corpi, in conseguenza della qual cognizione egli agisce.
Così di moltissime altre cognizioni fisiche che tutti gli uomini hanno, e che il bambino manifesta quasi [4254]subito.
Forse che queste cognizioni e idee sono in lui innate? Non già: ma egli sente in se ben tosto, e nelle cose che lo circondano, che i corpi son gravi.
Questa esperienza, in un batter d'occhio, gli dà l'idea della gravità, e gliene forma in testa un principio: del quale di là a pochi momenti gli parrebbe assurdo il dubitare, e il quale ei non si ricorda poi punto come gli sia nato nella testa.
Il simile accade appunto nei principii e morali e intellettuali.
Ma le idee fisiche ognun concede e afferma non essere innate: le morali, signor sì, sono.
Buona pasqua alle signorie vostre.
(9.
Marzo.
1827.
Recanati.)
Pregiudicato, spregiudicato.
Volgare ital.
Gratito, as, avi, atum.
Mutito.
Mutuito.
V.
Forcell.
Ho notato che i continuativi dai verbi della prima coniugazione si fanno in ito, e possono perciò essere insieme o parimente frequentativi, come mussito ec.
Similmente i continuativi formati da' verbi che hanno i supini in itum (usitati o antichi), come domito, agito ec.
Ma non so s'io abbia notato che dai verbi della quarta, supini in itum, si fanno i continuativi in ito (non ito), i quali perciò non si possono confondere coi frequentativi, malgrado la desinenza in ito.
Come p.e.
dormito as.
I know, by my own experience, that the more one works, the more willing one is to work.
We are all, more or less, des animaux d'habitude.
I remember very well, that when I was in business, I wrote four or five hours together every day, more willingly than I should now half an hour.
Chesterfield, Letters to his son, lett.318.
I have so little to do, that I am surprised how I can find time to write to you so often.
Do not stare at the seeming paradox; for it is an undoubted truth, that the less one has to do, the less time one finds to do it in.
One yawns, one procrastinates; one can do it when one will, and therefore one seldom does it at all; whereas those who have a great deal of business, must (to use a vulgar expression) buckle to it; and then they always [4255]find time enough to do it in.
Lett.320.
It is not without some difficulty that I snatch this moment of leisure from my extreme idleness, to inform you of the present lamentable and astonishing state of affairs here.
Lett.321.
(12.
Marzo.
1827.).
V.
p.4281.
Uomo ordinato e assegnato in ogni cosa.
Guicciard.
ed.
Friburgo, t.4.
p.67.
Brevetti d'invenzione non ignoti alle antiche repubbliche.
V.
Casaub.
ad Athenae.
l.12.
cap.4.
'?????(???(??????????(????????(?????(?.
Casaub.
ad Athenae.
l.12.
c.7.
Androcoto e Sandrocoto (nome proprio) appresso i greci.
V.
Casaub.
ibid.
(??(????, ??????(????, ?(???????(????? ec.
per (e(, t( (?????(? ec.
- urgentissimo per necessarissimo, Guicciard.
ed.
Friburgo, p.238.
t.2.
V.
Crus.
in urgenza, urgente ec.
che noi usiamo realmente per necessità necessario ec.
V.
anche Forcell.
in urgeo ec.
se ha nulla, e i franc.
e spagn.
V.
Toupio ad Longin.
sect.43.
fin.
Dei nostri sommi poeti, due sono stati sfortunatissimi, Dante e il Tasso.
Di ambedue abbiamo e visitiamo i sepolcri: fuori delle patrie loro ambedue.
Ma io, che ho pianto sopra quello del Tasso, non ho sentito alcun moto di tenerezza a quello di Dante: e così credo che avvenga generalmente.
E nondimeno non mancava in me, nè manca negli altri, un'altissima stima, anzi ammirazione, verso Dante; maggiore forse (e ragionevolmente) che verso l'altro.
Di più, le sventure di quello furono senza dubbio reali e grandi; di questo appena siamo certi che non fossero, almeno in gran parte, immaginarie: tanta è la scarsezza e l'oscurità delle notizie che abbiamo in questo particolare: tanto confuso, e pieno continuamente di contraddizioni, il modo di scriverne del medesimo Tasso.
Ma noi veggiamo in Dante un uomo d'animo forte, d'animo bastante a reggere e sostenere la mala fortuna; oltracciò un uomo che contrasta e combatte con essa, colla necessità col fato.
Tanto più ammirabile certo, ma tanto meno amabile e commiserabile.
Nel Tasso veggiamo uno che è vinto dalla sua miseria, soccombente, atterrato, che ha ceduto all'avversità, che soffre continuamente e patisce oltre modo.
Sieno ancora immaginarie [4256]e vane del tutto le sue calamità; la infelicità sua certamente è reale.
Anzi senza fallo, se ben sia meno sfortunato di Dante, egli è molto più infelice.
(Recanati.
14.
Marzo.
1827.).
(Si può applicare all'epopea, drammatica ec.).
È molto notabile nella considerazione comparativa delle antiche e delle moderne nazioni civili, che quelle furono tutte quante di situazione meridionali.
Dell'Italia non era ben civile che la parte meridionale.
Del resto dell'Europa, la Grecia sola.
Dell'Asia, solo il mezzodì, sì quello civilizzato dai greci, e sì l'India, la Persia ec.
Dell'Affrica non parlo, la quale è meridionale tutta.
Or questo doveva necessariamente produrre, e produsse, una grandissima differenza, sì nei costumi, nei modi del vivere, negli esercizi, nelle instituzioni pubbliche e private, sì nei caratteri dei popoli civili e della civiltà antica, dai costumi, dai caratteri, dalla civiltà moderna.
Perchè, secondo quella verissima osservazione già fatta da altri, che la civiltà è andata sempre, e va tuttavia progredendo dal sud al nord, ritirandosi da quello; i popoli civili moderni sono tutti settentrionali, o più settentrionali che gli antichi; o certo risedendo, come è manifesto, la maggior civiltà moderna nel settentrione (ciò si vede anche in America), il resto dei popoli più o manco civili, pigliano dai settentrionali il carattere della lor civiltà.
E in somma la civiltà antica fu una civiltà meridionale, la nostra è una civiltà settentrionale.
Proposizione che siccome a prima vista si riconosce per verissima moralmente, così nè più nè meno è vera letteralmente presa, e geograficamente.
Differenza del resto grandissima e sostanzialissima, se non principale, e includente in se tutte le altre.
L'antichità medesima e la maggior naturalezza degli antichi, è una specie di meridionalità nel tempo.
(14.
Marzo.
1827.
Recanati.)
Alla p.4253.
Appunto, se noi diciamo un corpo che non sia nè largo nè lungo nè profondo, noi non ci pensiamo punto di avere perciò una menoma idea, nè chiara nè oscura, di tal cosa.
Cambiamo la parola; diciamo uno spirito; a noi par di avere un'idea.
E pur che altro abbiamo che una parola?
[4257]Formica-formicola.
Crusca.
Segneri, Incred.
senza scusa, par.1.
c.5.
§.5.
V.
Forcell.
Caprea-capreolus ec.
Caprio cavrio (Segneri, ib.
c.13.
§.1.) cavriuolo, capriuolo, capriatto ec.
Inviolato per inviolabile.
V.
Forcell.
Efferatus, efferato, per fiero.
Undatus - undulatus.
Ondato - ondeggiato, ondare - ondeggiare, coi derivati ec.
ondazione (Segneri ib.
c.16.
§.2.) ondulazione, undulazione (Alberti).
Ondoyer, ondoyé.
Ondulation.
Osservate in qualunque letteratura, antica o moderna, quali sieno le opere più insigni e più grandi, e troverete sempre che sono quelle che furono fatte in tempo che la nazione non aveva ancora una letteratura; quelle che furono dagli autori immaginate e composte con tutt'altra mira, con tutt'altro spirito (almen principale) che il desiderio di fama letteraria (non ancora in uso, nè desiderata), o pur di altre ricompense letterarie; il desiderio di fare una bella opera di letteratura, di arte di scrivere.
(Recanati.
17.
Marzo.
1827.)
Sugo is - sugare.
Crus.
V.
Forcell.
Uomo o cosa aggiustata, aggiustatamente, aggiustatezza ec.
Falco-faucon, falcone ec.
V.
spagn.
Forcell.
ec.
Mugir meugler, meuglement; o beugler, beuglement.
Flocon.
Violette.
Uscia, plurale.
Noi diciamo rondinella (o rondinetta) per vezzo, e in verso e in prosa: così i nostri antichi scrittori: e val quanto rondine nè più nè meno.
Non è ancor positivato, cioè non ha perduto il suo sentimento vezzeggiativo: ma può esser esempio di come l'hanno perduto gli altri diminutivi di animali e di piante, a forza di usarsi così semplicemente in cambio del positivo, andato a poco a poco, bene spesso, in disuso.
(19.
Marzo.
Festa di S.
Giuseppe.
1827.).
Così pecorella ec.
ec.
i francesi dicono già hirondelle positivo, anticamente aronde.
Lodasi senza fine il gran magisterio della natura, l'ordine incomparabile dell'universo.
Non si hanno parole sufficienti a commendarlo.
Or che ha egli, perch'ei possa dirsi lodevole? Almen tanti mali, quanti beni; almen tanto di cattivo, quanto di buono; tante cose che vanno male, quante che camminan bene.
Dico [4258]così per non offender le orecchie, e non urtar troppo le opinioni: per altro, io son persuaso, e si potrebbe mostrare, che il male v'è di gran lunga più che il bene.
Ora un tal magisterio, sarà poi tanto grande? un tal ordine tanto commendevole? Ma il male par male a noi, non è veramente.
E il bene, chi ci ha detto che sia bene veramente, e non paia solo a noi? Se noi non possiamo giudicare dei fini, nè aver dati sufficienti per conoscere se le cose dell'universo sien veramente buone o cattive, se quel che ci par bene sia bene, se quel che male sia male; perchè vorremo noi dire che l'universo sia buono, in grazia di quello che ci par buono; e non piuttosto, che sia malo, in vista di quanto ci par malo, ch'è almeno altrettanto? Astenghiamoci dunque dal giudicare, e diciamo che questo è uno universo, che questo è un ordine: ma se buono o cattivo, non lo diciamo.
Certo è che per noi, e relativamente a noi, nella più parte è cattivo; e ciascuno di noi per questo conto l'avria saputo far meglio, avendo la materia, l'onnipotenza in mano.
Cattivo è ancora per tutte le altre creature, e generi e specie di creature, che noi conosciamo: perchè tutte si distruggono scambievolmente, tutte periscono; e, quel ch'è peggio, tutte deperiscono, tutte patiscono a lor modo.
Se di questi mali particolari di tutti, nasca un bene universale, non si sa di chi (o se dal mal essere di tutte le parti, risulti il ben essere del tutto; il qual tutto non esiste altrimenti nè altrove che nelle parti; poichè la sua esistenza, altrimenti presa, è una pura idea o parola); se vi sia qualche creatura, o ente, o specie di enti, a cui quest'ordine sia perfettamente buono; se esso sia buono assolutamente e per se; e che cosa sia, e si trovi, bontà assoluta e per se; queste sono cose che noi non sappiamo, non possiamo sapere; che niuna di quelle che noi sappiamo, ci rende nè pur verisimili, non che ci autorizzi a crederle.
Ammiriamo dunque quest'ordine, questo universo: io lo ammiro più degli altri: lo ammiro per la sua pravità e deformità, che a me paiono estreme.
Ma per lodarlo, aspettiamo di sapere almeno, con certezza, che egli non sia il pessimo dei possibili.
- Quel che ho detto di bontà e di cattività, dicasi eziandio di bellezza e bruttezza di questo ordine ec.
(21.
Marzo.
1827.)
A [4259]veder se sia più il bene o il male nell'universo, guardi ciascuno la propria vita; se più il bello o il brutto, guardi il genere umano, guardi una moltitudine di gente adunata.
Ognun sa e dice che i belli son rari, e che raro è il bello.
Graziato, aggraziato, disgraziato ec.
per grazioso, mal grazioso ec.
Purgato, épuré ec.
per puro.
Scappare-scapolare.
Saltabellare.
Scartabellare.
????????(?????????(??????????????(????.
V.
Casaubon.
ad Athenae.
l.14.
c.20.
init.
Entro a pochi dì, per fra pochi dì.
Bartoli, Missione al gran Mogol, ed.
Roma 1714.
p.72.
Così diciamo dentro il termine di tanti giorni, e simili.
Pel manuale di filosofia pratica.
A voler vivere tranquillo, bisogna essere occupato esteriormente.
Error mio nel voler fare una vita, tutta e solamente interna, a fine e con isperanza di esser quieto.
Quanto più io era libero da fatiche e da occupazioni estrinseche, da ogni cura di fuori, fino dalla necessità di parlare per chiedere il mio bisognevole (tanto che io passava i giorni senza profferire una sillaba) tanto meno io era quieto nell'animo.
Ogni menomo accidente che turbasse il mio modo e metodo ordinario (e n'accadevano ogni giorno, perchè tali minuzie sono inevitabili) mi toglieva la quiete.
Continui timori e sollecitudini, per queste ed altre simili baie.
Continuo poi il travaglio della immaginazione, le previdenze spiacevoli, le fantasticherie disgustose, i mali immaginarii, i timori panici.
Gran differenza è dalla fatica e dalla occupazione, e dalle cure e sollecitudini stesse, alla inquietudine.
Gran differenza dalla tranquillità all'ozio.
Le persone massimamente di una certa immaginazione, le quali essendo per essa molto travagliati negli affari, nella vita attiva o semplicemente sociale, e molto irresoluti (come nota la Staël nella Corinna a proposito Lord Nelvil); e le quali perciò appunto tendono all'amor del metodo, e alla fuga dell'azione e della società, e alla solitudine; [4260]s'ingannano in ciò grandemente.
Esse hanno più che gli altri, per viver quiete, necessità di fuggir se stesse, e quindi bisogno sommo di distrazione e di occupazione esterna.
Sia pur con noia.
Si annoieranno per esser tranquille.
Sia ancora con afflizioni e con angustie.
Maggiori sarebbero quelle che senza alcun fondamento reale, fabbricherebbe loro inevitabilmente la propria immaginazione nella vita solitaria, interiore, metodica.
Chi tende per natura all'amor del metodo, della solitudine, della quiete, fugga queste cose più che gli altri, o attenda più a temperarle co' lor contrarii; se vuol potere veramente esser quieto.
Al che lo aiuterà poi il giudicare e pensar filosoficamente delle cose e dei casi umani.
Ma certo un uom d'affari (senz'ombra di filosofia) ha l'animo più tranquillo nella continua folla e nell'affanno delle cure e delle faccende; e un uom di mondo nel vortice e nel mar tempestoso della società; di quello che l'abbia un filosofo nella solitudine, nella vita uniforme, e nell'ozio estrinseco.
(Recanati.
24.
Marzo.
1827.)
Quanto più, in questo tal modo, si fuggono le sollecitudini e i dispiaceri, tanto più vi s'incorre: perchè mancandone le cause reali (o vogliamo dir di momento) e che sopravvengono di fuori, noi ce ne fingiamo e facciamo da noi medesimi e, per così dire, del nostro capitale proprio, assai più, ed infinite.
E queste sollecitudini e questi dispiaceri così prodotti, non solo sono per noi di ugual momento che sarebbero i reali; ma si sentono, e travagliano molto più, per la mancanza di distrazioni e la monotonia della vita, di quel che fanno i grandissimi e sommi, nella vita agitata e attiva.
Che è quanto dir che sono maggiori assai.
E si sentono tutti, dove che nella vita attiva, moltissimi non si sentono, e però non sono nè pur dispiaceri.
(Recanati 25.
Marzo.
Domenica.
Festa dell'Annunziazione di Maria.
1827.)
Quanto, in quanto, per poichè, perocchè ec.
- ???'?(???, ovvero (??? ec.
V.
un [4261]esempio di (??? in questo senso, usato da Ateneo, ap.
Casaubon.
ad Athenae.
l.15.
c.2.
verso il fine, e dallo scoliaste di Pindaro, ap.
eumd.
ib.
c.19.
fin.
Dimonia.
Demonia.
Mulina.
plurali.
Tutti siamo naturalmente inclinati a stimar noi medesimi uguali a chi ci è superiore, superiori agli uguali, maggiori di ogni comparazione cogl'inferiori; in somma ad innalzare il merito proprio sopra quel degli altri fuor di modo e ragione.
Questo è natura universale, e vien da una sorgente comune a tutti.
Ma un'altra sorgente d'orgoglio e di disistima altrui, sconosciuta affatto a noi; divenuta, per l'assuefazione incominciata sin dall'infanzia, naturale e propria; è ai Francesi e agl'Inglesi la stima della propria nazione.
Tant'è: il più umano e ben educato e spregiudicato francese o inglese, non può mai far che trovandosi con forestieri, non si creda cordialmente e sinceramente di trovarsi con un inferiore a se (qualunque si sieno le altre circostanze); che non disprezzi più o meno le altre nazioni prese in grosso; e che in qualche modo, più o meno, non dimostri esteriormente questa sua opinione di superiorità.
Questa è una molla, una fonte ben distinta di orgoglio, e di stima di se, in pregiudizio o abbassamento d'altrui della quale niun altro fra i popoli civili, se non gli uomini delle dette nazioni, possono avere o formarsi una giusta idea.
I Tedeschi che potrebbero con altrettanto diritto aver lo stesso sentimento, ne sono impediti dalla lor divisione, dal non esserci nazion tedesca.
I Russi sentono di esser mezzo barbari; gli Svedesi, i Danesi, gli Olandesi, di essere troppo piccoli, e di poter poco.
Gli Spagnuoli del tempo di Carlo quinto e di Filippo secondo, ebbero certamente questo sentimento, come veggiamo dalle storie, niente meno che i francesi e gl'inglesi di oggidì, e con diritto uguale; forse, senza diritto alcuno, l'hanno anche oggi; e così i Portoghesi: ma chi pone oggi in conto gli Spagnuoli e i Portoghesi, parlando di popoli civili? Gl'italiani forse l'ebbero (e par veramente di sì) nei secoli 15° e 16° e parte del precedente e del susseguente; per conto della lor civiltà, che essi ben conoscevano, e gli altri riconoscevano, esser superiore a quella di tutto il resto d'Europa.
Degl'italiani d'oggi non parlo; non so ben se ve n'abbia.
[4262]Questo sentimento della inferiorità dei forestieri, questo riguardarli e trattarli come d'alto in basso, è ai francesi e agl'inglesi, per l'abitudine, così naturalizzato e immedesimato, come è ad un uomo nato nobile e ricco, il parlare e trattare co' poveri e co' plebei, come con gente naturalmente inferiore: che anche l'uomo del più buon cuore del mondo, e il più filosofo, essendo nella detta condizione, li tratterà così, se non attenderà e non si sforzerà di proposito per fare altrimenti: perchè quell'opinione di sua superiorità sopra questi tali, è in lui non dipendente dal raziocinio, nè dalla volontà.
Molto utile può essere ed è senza fallo questa opinione che hanno i francesi e gl'inglesi di se.
Sarebbe utile anche a chi l'avesse senza ragione.
La stima grande di se stesso è il primo fondamento sì della moralità, sì delle mire ed azioni nobili e onorate.
Pure, perchè il conoscere in altri un'opinione della inferiorità propria, e un certo disprezzo di se in qualunque cosa, è sempre dispiacevole; non è dubbio che il veder questo tale orgoglio nazionale nei francesi e inglesi, non riesca assai dispiacevole e odioso ai forestieri.
E perchè la civiltà e la creanza comandano, e sopra tutto, che si nasconda il sentimento della superiorità propria, e il disprezzo di quelli con cui trattiamo, per ragionevole e fondato che ei sia; pare che i francesi e gl'inglesi dovrebbero nascondere quel lor sentimento tra forestieri.
Gl'inglesi non si piccano di buona creanza; piuttosto di non averla, piuttosto di mala creanza: però di loro non ci maraviglieremo.
I francesi non solo se ne piccano, ma vogliono essere, credono essere, e certo sono, la meglio educata gente del mondo.
Anzi in questo fondano per gran parte quella loro opinione di superiorità.
Perciò pare strano che al più ben creato francese non riesca o non cada in mente di tenersi, parlando o scrivendo a forestieri, dal dar loro ad intendere in qualche modo (ma chiaro), che esso li tiene senza controversia per da meno di se.
Molto meno poi negli scritti che pubblicano.
Anco pare strana questa cosa, considerata la gran sensibilità e paura che hanno i francesi del ridicolo.
Perchè se quella lor pretensione riesce ridicola a chi la stima giusta, e d'altronde utile e lodevole, come sono io; quanto non dovrà parere a quei che non pensano più che tanto, o che la stimano assolutamente vana, esagerata ec.? Il che dee [4263]naturalmente accadere con molti, ma con gl'inglesi accade di necessità.
E già ogni pretension che si dimostra, ancorchè giusta, è soggetta a ridicolo, perchè il mostrar pretensione è ridicolo.
E manco strano sarebbe che eglino non si guardassero co' forestieri da questo ridicolo in casa propria; dove essi sono i più forti, perchè l'opinion comune è per loro, la lor superiorità è ricevuta come assioma, e l'uditorio è tutto dalla lor parte.
Ma che non se ne guardino (come non se ne guardano punto) in casa dei medesimi forestieri, viaggiando tra loro, co' loro medesimi ospiti? Questo veramente è strano assai ne' francesi; ma molto più strano, che alla fin de' fatti, essi viaggiano tra noi trionfalmente, dimostrandoci il lor disprezzo, mettendoci in ridicolo in faccia nostra propria e parlando a noi (non che tornati che sono a casa); e che da noi non ricevono il menomo colpo, il più piccolo spruzzo, di ridicolo nè in parole, quando noi trattiamo qui con loro, nè in lettere, nè in istampa.
Da che vien questo? da bontà degl'Italiani, o da dabbenaggine, o da paura, o da che altro?
(25.
Marzo.
1827.)
Pennelleggiare.
Tratteggiare.
Alla p.4249.
fin.
Il medesimo Chesterfield nota più volte come pregi distintivi e dei principali della letteratura nostra, e come di quelli che principalmente la possono far degna della curiosità degli stranieri, l'aver degli eccellenti storici, e delle eccellenti traduzioni dal latino e dal greco, mostrando poi di aver l'occhio particolarmente a quelle della Collana.
Va bene il primo capo.
Il secondo non può servire ad altro che a mostrar l'ignoranza grande dei forestieri circa le cose nostre.
Perchè se la nostra letteratura è povera in alcuno articolo, lo è certamente in quel delle buone traduzioni dal latino e dal greco.
Di quelle specialmente della Collana non ve n'è appena una che si possa leggere, quanto alla lingua e allo stile, e per se; e che non dica poi, almeno per la metà, il rovescio di quel che volle dire e disse l'autor greco e latino.
Tutte le letterature (eccetto forse la tedesca da poco in qua) sono povere di traduzioni veramente buone: ma l'italiana in questo, se non si distingue dall'altre come più povera, non si distingue in modo alcuno.
Solamente è vero che noi cominciammo ad aver traduzioni dal latino e dal greco classico (non buone, ma traduzioni semplicemente), molto [4264]prima di tutte le altre nazioni.
Il che è naturale perchè anche risorse prima in Italia che altrove, la letteratura classica, e lo studio del vero latino, e del greco.
E n'avemmo anche in gran copia.
E queste furono forse le cagioni che produssero tra gli stranieri superficialmente acquainted with le cose nostre quella opinione, che ebbe tra gli altri il Chesterfield.
Nondimeno in quel medesimo tempo, anzi alquanto innanzi, avveniva al Maffei in Baviera, dov'ei si trovava, quel ch'egli scrive nella prefazione276 de' suoi Traduttori italiani ossia notizia de' Volgarizzamenti d'antichi scrittori latini e greci, che sono in luce indirizzata a una colta Signora, da lui frequentata colà.
Vostro costume era d'antepor la (lingua) francese alle altre, per l'avvantaggio di goder per essa gli antichi autori latini e greci, della lettura de' quali sommamente vi compiacete, avendogli traslatati i francesi.
Qui io avea bel dire, che questo piacere potea conseguirsi ugualmente con l'italiana, e che già fin dal felice secolo del 1500 la maggior parte de' più ricercati antichi scrittori era stata in ottima volgar lingua presso di noi recata, che suscitandomisi contra tutti gli astanti, e gl'italiani prima degli altri, restava fermato, che solamente in francese queste traduzioni si avessero.
Ed ecco dagli stranieri negato agl'italiani formalmente, e trasferito alla letteratura francese quel medesimo pregio (e circa il medesimo tempo) che altri stranieri come il Chesterfield attribuivano alla italiana.
Nella qual prefazione il Maffei afferma aver gl'italiani tradotto prima, più, e meglio delle altre nazioni.
Per provar la qual proposizione, assunse di comporre, e compose quel suo catalogo dei nostri volgarizzatori.
E quanto a me concedo e credo vere le due prime parti di essa proposizione, almen relativamente al tempo in cui il Maffei la scriveva.
Concederò anche la terza, relativamente allo stesso tempo, purchè quel meglio delle altre, non escluda il male e il pessimamente assoluto.
(Recanati.
27.
Marzo.
1827.).
V.
p.4304.
fine.
Alla p.4234.
V.
ancora la lettera del Manfredi, nelle Considerazioni sopra la Maniera di ben pensare ec.
dell'Orsi, Modena 1735.
tom.1.
p.686.
fin.
e l'Orazione di Girolamo Gigli in lode della toscana favella, che sta colle sue Lezioni di lingua toscana, Ven.
1744.
3a ediz.
Alla p.4194.
A questo genere appartiene, cred'io, quell'aneddoto della femmina [4265]spagnuola di Buenos-Ayres in America, per nome Maldonata (avrà voluto dir Maldonada) alimentata lungo tempo, e poi casualmente salvata da una leonessa, da lei già beneficata, nel secolo decimosesto.
Benchè questa istorietta sia riferita seriamente e con belle riflessioni filosofiche dal Raynal (Leçons de littérature et de morale, cioè Antologia francese, par MM.
Noël et Delaplace, 4me édit.
Paris 1810.
tome 1.
p.16-18.) Ma essa, mutatis mutandis, è la stessissima che quella (ben più antichetta) dello schiavo fuggitivo per nome Androdo, alimentato in Numidia, e poi salvato da morte in Roma, da un leone, da lui beneficato.
(Gell.
N.
Att.
l.5.
c.14.
Aelian.
hist.
animal.
l.7.
c.48.) Nè ardisco già dire che questa sia stata il primo e original tipo di questa favola.
(Anzi ella mi ha sembianza di esser d'origine greca.
Vedi altre simili storielle, appunto greche, in Plinio, l.8.
c.16.
che sono come primi abbozzi di questa.) Dico poi favola, sì per il sospetto, troppo fondato, d'imitazione; e sì perchè si sa molto bene che in America non sono e non furono mai leoni: e però, s'io non erro, nè anche leonesse; (Recanati.
29.
Marzo.
1827.) dico di quelle nate quivi da se, e viventi nelle foreste e nelle caverne, come era quella; non trasportate d'altronde, e mantenute in gabbie e in serragli.
Noi italiani siamo derisi per le nostre cerimonie e i nostri titoli (che noi abbiamo avuti dagli spagnuoli) specialmente dai francesi, che hanno fama d'essere in ciò i più disinvolti.
Frattanto noi non abbiamo il costume che hanno i francesi, che il Monsieur sia, per così dire, inseparabile da tutti i nomi di persone; che gli autori lo aggiungano al lor nome proprio nei frontespizi delle loro opere; che esso vi si conservi perpetuamente, o vi sia posto, anche quando gli autori son morti; e simili.
(Recanati.
29.
Marzo.
1827.)
????(??????(?, ???(? o ???(?????(?.
V.
Casaub.
ad Athenae.
l.15.
c.18.
?????(????(????.
(?????(?????.
(?(??????(??.
V.
ibid.
Se era intenzione della natura, facendo l'uomo così debole e disarmato, che egli provvedendo alla vita ed al ben essere suo coll'ingegno, arrivasse allo stato di civiltà; perchè tante centinaia di nazioni selvagge e barbare dell'America, dell'Africa, dell'Asia dell'Oceanica, non vi sono arrivate ancora, non hanno fatto alcun [4266]passo per arrivarvi, e certo non vi arriveranno mai, nè saranno mai civili in niun modo (o non sarebbero mai state), se noi non ve li ridurremo (o non ve gli avessimo ridotti)? Le quali nazioni sono pure una buona metà, e più, del genere umano in natura.
Perchè dato ancora che le popolazioni civili, nella somma loro, vincano di numero d'uomini la somma delle non civili nè state mai civilizzate, questa moltitudine di quelle è posteriore alla civilizzazione, ed effetto di essa: la quale favorisce la moltiplicazion della specie e l'aumento della popolazione.
È stata dunque la natura così sciocca, e così mal provvidente, che ella abbia missed il suo intento per più della metà?
(Recanati 30.
Mar.
ult.
Venerdì.
1827.)
In qualunque cosa tu non cerchi altro che piacere, tu non lo trovi mai: tu non provi altro che noia, e spesso disgusto.
Bisogna, per provar piacere in qualunque azione ovvero occupazione, cercarvi qualche altro fine che il piacere stesso.
(Può servire al Manuale di filosofia pratica).
(30.
Marzo.
1827.).
Così accade (fra mille esempi che se ne potrebbero dare) nella lettura.
Chi legge un libro (sia il più piacevole e il più bello del mondo) non con altro fine che il diletto, vi si annoia, anzi se ne disgusta, alla seconda pagina.
Ma un matematico trova diletto grande a leggere una dimostrazione di geometria, la qual certamente egli non legge per dilettarsi.
V.
p.4273.
E forse per questa ragione gli spettacoli e i divertimenti pubblici per se stessi, senza altre circostanze, sono le più terribilmente noiose e fastidiose cose del mondo; perchè non hanno altro fine che il piacere; questo solo vi si vuole, questo vi si aspetta; e una cosa da cui si aspetta e si esige piacere (come un debito) non ne dà quasi mai: dà anzi il contrario.
Il piacere (si può dir con perfettissima verità) non vien mai se non inaspettato; e colà dove noi non lo cercavamo, non che lo sperassimo.
Per questo nel bollore della gioventù, quando l'uomo si precipita col desiderio e colla speranza dietro al piacere, ei non prova che spaventevole e tormentoso disgusto e noia nelle più dilettevoli cose della vita.
E non si comincia a provar qualche piacere nel mondo, se non sedato quell'impeto, e cominciata [4267]la freddezza, e ridotto l'uomo a curarsi poco e a disperare omai del piacere.
(30.
Marzo.
1827.).
Simile è in ciò il piacere alla quiete, la quale quanto più si cerca e si desidera per se e da se sola, tanto si trova e si gode meno, come ho esposto in altro pensiero poco addietro.
Il desiderio stesso di lei, è necessariamente esclusivo di essa, ed incompatibile seco lei.
Alla p.4240.
La sopraddetta utilità della pazienza, non si ristringe al solo dolore, ma si stende anche ad altre mille occasioni; come se tu hai da aspettare, da fare un'operazione lunga, monotona e fastidiosa; da soffrire una compagnia noiosa, mentre hai altro da fare; ascoltare un discorso lungo di cosa che nulla t'importa, un poeta o scrittore che ti reciti una sua composizione; e così discorrendo: dove l'impazienza, la fretta, l'ansietà di finire, l'inquietudine ti raddoppiano la molestia.
In somma si stende a tutte le occasioni e stati dove può aver luogo quello che noi chiamiamo pazienza e impazienza; a tutti i dispiaceri; o sieno dolori o noie.
(Recanati.
31.
Marzo.
1827.)
Quegli tra gli stranieri che più onorano l'Italia della loro stima, che sono quei che la riguardano come terra classica, non considerano l'Italia presente, cioè noi italiani moderni e viventi, se non come tanti custodi di un museo, di un gabinetto e simili; e ci hanno quella stima che si suole avere a questo genere di persone; quella che noi abbiamo in Roma agli usufruttuarii per così dire, delle diverse antichità, luoghi, ruine, musei ec.
(31.
Marzo.
1827.)
The ancients (to say the least of them) had as much genius as we; they constantly applied themselves not only to that art, but to that single branch of an art, to which their talent was most powerfully bent; and it was the business of their lives to correct and finish their works for posterity.
If we can pretend to have used the same industry, let us expect the same immortality: Though, if we took the same care, we should still lie under a farther misfortune: They writ in languages that became universal and everlasting, while ours are extremely limited both in extent and in duration.
A mighty foundation for our pride! when the utmost we can hope, is but to be read in one island, and to be thrown aside at the end of an age.
Pope Prefazione generale [4268]alla Collezione delle sue Opere giovanili (Collezione pubblicata nel 1717.) data Nov.
10.
1716.
Pope era nato del 1688.
The muses are amicae omnium horarum; and, like our gay acquaintance, the best company in the world, as long as one expects no real service from them.
Ibid.
We spend our youth in pursuit of riches or fame, in hopes to enjoy them when we are old; and when we are old, we find it is too late to enjoy any thing.
Ibid.
(31.
Marzo.
1827.)
??(????(??.
Vespa - guêpe, antic.
gUespe.
Serpyllum, serpillo, serpollo-sermollino, serpolet.
Tubo, tube-tuyau.
Benda, bande-bandeau.
È notabile ancora e caratteristico delle antiche nazioni il modo come essi nominavano l'opposto dell'uomo di garbo, cioè il malvagio.
????(? timido, codardo, vale anche malvagio presso gli antichissimi (Casaub.
ad Athenae.
l.15.
c.15.
poco dopo il mezzo).
Viceversa ???(? malvagio è usato continuamente e con proprietà di lingua, per codardo, o da nulla; ignavus.
Così (???(? ed (???(? e simili, per valoroso, utile, prode, strenuus.
Similmente bonus e malus presso i latini.
(?(??? da nulla, da poco, spesso è il medesimo che tristo, cattivo (come vaurien in franc.), tanto di uomo, quanto di cosa.
?????(? è utile e buono (similmente ?????(???); (??????? inutile e cattivo.
È osservazione antica che quanto decrescono nelle repubbliche e negli stati le virtù vere, tanto crescono le vantate, e le adulazioni; e similmente, che a misura che decadono le lettere e i buoni studi, si aumentano di magnificenza i titoli di lode che si danno agli scienziati e a' letterati, o a quelli che in sì fatti tempi sono tenuti per tali.
Il somigliante par che avvenga circa il modo della pubblicazione dei libri.
Quanto lo stile peggiora, e divien più vile, più incolto, più ?(???(?, di meno spesa; tanto cresce l'eleganza, la nitidezza, lo splendore, la magnificenza, il costo e vero pregio e valore delle edizioni.
Guardate le stampe francesi d'oggidì, anche quelle delle semplici brochures e fogli volanti ed efimeri.
Direste che non si può dar cosa più perfetta [4269]in tal genere, se le stampe d'Inghilterra, quelle eziandio de' più passeggeri pamphlets, non vi mostrassero una perfezione molto maggiore.
Guardate poi lo stile di tali opere, così stampate; il quale a prima giunta vi parrebbe che dovesse esser cosa di gran valore, di grande squisitezza, condotta con grand'arte e studio.
Disgraziatamente l'arte e lo studio son cose oramai ignote e sbandite dalla professione di scriver libri.
Lo stile non è più oggetto di pensiero alcuno.
Paragonate ora e le stampe dei secoli passati, e gli stili di quei libri così modestamente, così umilmente, e spesso (vilmente, abbiettamente) poveramente impressi; colle stampe e gli stili moderni.
Il risultato di questa comparazione sarà che gli stili antichi e le stampe moderne paion fatte per la posterità e per l'eternità; gli stili moderni e le stampe antiche, per il momento, e quasi per il bisogno.
(Anche le stampe italiane d'oggi, benchè non possano sostenere il paragone delle francesi e inglesi, non temono pero quello di tutte l'altre, anzi sono sicure di uscirne vittoriose; e molte stampe italiane che oggi non paiono più che ordinarie, sarebbono parute splendide nel secolo passato, magnifiche e principesche nei precedenti.)
Noi però abbiamo buonissima ragione di non porre più che tanto studio intorno allo stile dei libri, atteso la brevità della vita che essi in ogni modo (non ostante la bontà della stampa) sono per avere.
Se mai fu chimerica la speranza dell'immortalità, essa lo è oggi per gli scrittori.
Troppa è la copia dei libri o buoni o cattivi o mediocri che escono ogni giorno, e che per necessità fanno dimenticare quelli del giorno innanzi; sian pure eccellenti.
Tutti i posti dell'immortalità in questo genere, sono già occupati.
Gli antichi classici, voglio dire, conserveranno quella che hanno acquistata, o almeno è credibile che non morranno così tosto.
Ma acquistarla ora, accrescere il numero degl'immortali; oh questo io non credo che sia più possibile.
[4270]La sorte dei libri oggi, è come quella degl'insetti chiamati efimeri (éphémères): alcune specie vivono poche ore, alcune una notte, altre 3 o 4 giorni; ma sempre si tratta di giorni.
Noi siamo veramente oggidì passeggeri e pellegrini sulla terra: veramente caduchi: esseri di un giorno: la mattina in fiore, la sera appassiti, o secchi: soggetti anche a sopravvivere alla propria fama, e più longevi che la memoria di noi.
Oggi si può dire con verità maggiore che mai: ?(???????(?????????(, ???(?????(?(???(? (Iliad.
6.
v.146.) Perchè non ai soli letterati, ma ormai a tutte le professioni è fatta impossibile l'immortalità, in tanta infinita moltitudine di fatti e di vicende umane, dapoi che la civiltà, la vita dell'uomo civile, e la ricordanza della storia ha abbracciato tutta la terra.
Io non dubito punto che di qua a dugent'anni non sia per esser più noto il nome di Achille, vincitor di Troia, che quello di Napoleone, vincitore e signore del mondo civile.
Questo sarà uno dei molti, si perderà tra la folla; quello sovrasterà, per esser montato in alto assai prima; conserverà il piedestallo, il rialto, che ha già occupato da tanti secoli.
Del resto, come la impossibilità di divenire immortali, giustifica la odierna negligenza dello stile nei libri; così questa negligenza dal canto suo, inabilita, e fa impossibile ai libri, il conseguimento della immortalità.
Notabili e vere parole di Buffon (Discours de réception à l'Académie française): Les ouvrages bien écrits seront les seuls qui passeront à la postérité; la quantité des connaissances, la singularité des faits, la nouveauté même des découvertes ne sont pas de sûrs garants de l'immortalité.
Si les ouvrages qui les contiennent ne roulent que sur de petits objets, s'ils sont écrits sans goût, sans noblesse et sans génie, ils périront, parceque les connaissances, les faits et les découvertes s'enlèvent aisément, se transportent, et gagnent même à être mis en oeuvre par des mains plus habiles.
Ces choses sont hors de l'homme, le style est l'homme même.
Le style ne peut donc ni s'enlever, ni [4271]se transporter, ni s'altérer.
S'il est élevé, noble, sublime, l'auteur sera également admiré dans tous les temps.
Al che aggiungo io, che quando anche le mani qui enlèvent i pensieri, non sieno più habiles in materia di stile, (come certo oggi e in futuro è difficile che sieno), nondimeno il libro perira egualmente; perchè in esso non si troverà nulla di più che nelle sue copie; probabilmente assai meno (dico per il fondo, non per lo stile); e così i libri nuovi faranno dimenticare e sparire il vecchio: appunto, se non altro, perchè essi nuovi, e vecchio quello: del che abbiamo l'esperienza quotidiana per testimonio.
(Anche intorno a libri bene scritti; quando si tratta di verità e di scienze; come sono quelli di Galileo, che da quale scienziato sono letti oggidì?).
E con questa osservazione di Buffon chiudo questo discorso non troppo lieto, e piuttosto malinconico che altrimenti.
(Recanati 2.
Aprile.
1827.)
(Similmente poi, per altra parte, la negligenza universale intorno allo stile, rende inutile la diligenza individuale, se alcuno sapesse e volesse usarne, intorno al medesimo.
Perchè, in sì fatti generi, le cose quanto sono più rare, tanto meno si apprezzano.
Il pubblico, appunto perchè in ciò negligente, ed assuefatto a trascurar tale studio, non ha nè gusto nè capacità nè per sentire nè per giudicare le bellezze degli stili, nè per esserne dilettato.
Perchè certi diletti, e non sono pochi, hanno bisogno di un sensorio formatovi espressamente, e non innato; di una capacità di sentirli acquisita.
A chi non l'ha, non sono diletti in niun modo.
L'arte più sopraffina non sarebbe conosciuta: l'ottimo stile non sarebbe distinto dal pessimo.
Così l'eccellenza medesima dello stile non sarebbe più una via all'immortalità, che senza essa, tuttavia, non si può dai libri conseguire.).
(Recanati.
2.
Aprile.
1827.)
(Molti libri oggi, anche dei beni accolti, durano meno del tempo che è bisognato a raccorne i materiali, a disporli e comporli, a scriverli.
Se poi si volesse aver cura della perfezion dello stile, allora certamente la durata della vita loro non avrebbe neppur proporzione alcuna con quella della lor produzione; allora sarebbero più che mai simili [4272]agli efimeri, che vivono nello stato di larve e di ninfe per ispazio di un anno, alcuni di due anni, altri di tre, sempre affaticandosi per arrivare a quello d'insetti alati, nel quale non durano più di due, di tre, o di quattro giorni, secondo le specie; e alcune non più di una sola notte, tanto che mai non veggono il sole; altre non più di una, di due o di tre ore).
(Encyclopéd.
art.
éphémères).
(2.
Apr.
1827.)
Pavot non sembra essere che un diminutivo positivato di papaver; contratte, per corrotta e precipitata pronunzia, le due prime sillabe pa, in una sola.
Un uomo disarmato, alle prese con una bestia di corporatura e di forze uguale a lui, p.e.
con un grosso cane, difficilmente resterà superiore, verisimilmente sarà vinto.
Per vincere, gli bisogna qualche arma, che diagli una forza non naturale, e una decisa superiorità.
La ragione è perchè il cane vi adopra e vi mette tutto se stesso, fa ancor più del suo potere; dove che l'uomo riserva sempre una gran parte di se medesimo fuor di fazione, e fa sempre meno di quello che può.
Il cane non guarda a pericolo, non considera, non usa prudenza.
L'uomo al contrario, se non è disperato affatto, stato al quale egli arriva difficilmente, eziandio che abbia piena ragione di disperarsi.
Egli si risparmia sempre, perchè sempre spera; e così risparmiandosi, non ottiene quello che la speranza gli promette, o non fugge quello che egli sperasi di fuggire; quello che, se non lo sperasse, otterrebbe o fuggirebbe.
E che questa sia veramente la cagion di ciò, vedetelo in un fanciullo: il quale assai più facilmente che un uomo riuscirà pari o superiore in una zuffa con un animale di forze uguali alle sue; zuffa che egli medesimo talvolta attaccherà volontariamente.
Il fanciullo, e più il bambino, adopra tutto se stesso, come una bestia, o poco meno.
E per questo lato io non trovo niente d'inverisimile nella favola di Ercole bambino, strozzatore dei due serpenti.
E la crederò vera più facilmente che quella del medesimo Ercole adulto, sbranatore del leone nemeo, senza altre armi che le sue braccia, come nell'altra battaglia, cioè in quella de' serpenti.
(3.
Aprile.
1827.)
Fouiller probabilmente è da fodere, e quindi fratello di fodicare.
[4273]Metrodoro epicureo ap.
Ateneo l.12.
p.546.
f.?(????(??(???????(?????(??? che CAMMINA, PROCEDE, secondo natura.
Il qual luogo è spiegato dal Casaubono negli Addenda Animadversionibus, al capo 12.
Nella version latina di quel passaggio del Riccio rapito di Pope (Canto 1.) che contiene la descrizione della toilette, fatta dal D.
Parnell (versione assai bizzarra, e che parrebbe piuttosto fatta nell'ottavo secolo che nel decimottavo, poichè consiste di versi dei quali ogni mezzo verso rima coll'altro mezzo, p.e.
Et nunc dilectum speculum, pro more retectum, Emicat in mensa, quae splendet pyxide densa, che sono i primi), trovo questi due versi, di séguito: Induit arma ergo Veneris pulcherrima virgo: Pulchrior in praesens tempus de tempore crescens, dove, come si vede, ergo fa rima con virgo, e praesens con crescens.
Che dicono gl'italiani di questa pronunzia?
(Recanati.
5.
Aprile.
1827.).
V.
p.4497.
Tricae-tracasserie, tracasser, tracassier ec.
Aerugo, o rubigo o robigo, ruggine-rouille, coi derivati.
Alla p.4266.
Io stesso, che pur non ho maggior piacere che il leggere, anzi non ne ho altri, ed in cui il piacer della lettura è tanto più grande, quanto che dalla primissima fanciullezza sono sempre vissuto in questa abitudine (e l'abitudine è quella che fa i piaceri) quando talvolta per ozio, mi son posto a leggere qualche libro per semplice passatempo, ed a fine solo ed espresso di trovar piacere e dilettarmi; non senza maraviglia e rammarico, ho trovato sempre che non solo io non provava diletto alcuno, ma sentiva noia e disgusto fin dalle prime pagine.
E però io andava cangiando subito libri, senza però niun frutto; finchè disperato, lasciava la lettura, con timore che ella mi fosse divenuta insipida e dispiacevole per sempre, e di non aver più a trovarci diletto: il quale mi tornava però subito che io la ripigliava per occupazione, e per modo di studio, e con fin d'imparare qualche cosa, o di avanzarmi generalmente nelle cognizioni, senza alcuna mira particolare al diletto.
Onde i libri che mi hanno dilettato meno, e che perciò da qualche tempo io non soglio più leggere, sono stati sempre quelli che si chiamano [4274]come per proprio nome, dilettevoli e di passatempo.
(6.
Aprile.
1827.)
Radiatus per radians ec.
V.
Forcellini.
Pel manuale di filosofia pratica.
A me è avvenuto di conservare per lo più ogni amicizia contratta una volta, eziandio con persone difficilissime, di cui tutti a poco andare si disgustavano, o che si disgustavano con tutti.
E la cagion, per quello che io posso trovare, è che io non mi disgusto mai di un amico per sue negligenze, e per nessuna sua azione che mi sia o nocevole o dispiacevole; se non quando io veggo chiaramente, o posso con piena ragione giudicare in lui un animo e una volontà determinata di farmi dispiacere e offesa.
Cosa che in verità è rarissima.
Ma a vedere il procedere degli altri comunemente nelle amicizie, si direbbe che gli uomini non le contraggono se non per avere il piacere di romperle; e che questo è il principal fine a cui mirano nell'amicizia: tanto studiosamente cercano e tanto cupidamente abbracciano le occasioni di rompersi coll'amico, eziandio frivolissime, ed eziandio tali che essi medesimi nel fondo del loro cuore non possono a meno di non discolpar l'amico, e di non conoscere che quella offesa o dispiacere, almen secondo ogni probabilità, non venne da volontà determinata di offenderli.
(7.
Apr.
1827.)
Perchè l'esistenza dell'universo fosse prova di quella di un essere infinito, creatore di esso, bisognerebbe provare che l'universo fosse infinito, dal che risultasse che solo una potenza infinita l'avesse potuto creare.
La quale infinità dell'universo, nessuna cosa ce la può nè provare, nè darcela a congetturare probabilmente.
E quando poi l'universo fosse infinito, la infinità sarebbe già nell'universo, non sarebbe più propria esclusivamente del creatore, di quell'essere unico e perfettissimo; allora bisognerebbe provare che l'universo non fosse quello che lo credono i panteisti e gli spinosisti, cioè dio esso medesimo; ovvero, che l'universo essendo infinito di estensione, non potesse anco essere infinito di tempo, cioè eterno, stato sempre, e sempre futuro.
Nel qual caso non avremmo più bisogno di un altro ente infinito.
Il quale sarebbe sempre ignoto e nascosto: dove che l'universo è palese [4275]e sensibile.
(7.
Apr.
Sabato di Passione.
1827.
Recanati.).
Chi vi ha poi detto che esser infinito sia una perfezione?
Alla p.4245.
Un'altra cagione per la quale io amo la ????????? è per non avere (come necessariamente avrei se mangiassi in compagnia) dintorno alla mia tavola, assistenti al mio pasto, d'importuns laquais, épiant nos discours, critiquant tout bas nos maintiens, comptant nos morceaux d'un oeil avide, s'amusant à nous faire attendre à boire, et murmurant d'un trop long dîner.
(Rousseau, Émile.) Disgraziatamente non mi è mai riuscito di assuefarmi a provar piacere in presenza di persone che, di mia certa scienza, lo condannino, lo deridano, se ne annoino; non ho mai potuto comprendere come gli altri sopportino anzi si compiacciano, di siffatti testimonii, l'occupazione e i pensieri dei quali in quel tempo, tutti sanno essere appunto quelli detti di sopra.
Anche gli antichi a tavola si facevano servire, ma da schiavi, cioè da genti che essi stimavano meno che uomini, o certo, meno uomini che essi.
Però aveano forse ragione di non curarsi, e di non temere le loro railleries e disapprovazioni.
Ma i nostri servitori sono nostri uguali.
Ed è bene strano che noi, tanto sensibili sopra ogni menomo ridicolo, ogni menoma parola o pensiero che noi possiamo sapere o sospettare in altrui a nostro disfavore; non ci diamo cura alcuna di quelli dei servitori in quel tempo, i quali, non sospettiamo, ma sappiamo ben certo quali sieno intorno di noi: e che mentre non potremmo senza molestia starcene fermi e oziosi a sedere in un luogo dove fosse presente uno che noi sapessimo che attualmente si trattenesse in dir male di noi ed in ischernirci; possiamo poi, avendo molti dintorno di questa sorte, gustare tranquillamente, e pienamente senza disturbo alcuno, i piaceri della tavola.
L'opinione che gli antichi avevano dei loro schiavi, li giustifica anche per un altro verso, cioè del loro non curarsi dell'incomodo, della noia, della rabbia che i loro servi dovevano necessariamente provare nel tempo, e per cagione, di quei loro piaceri; e che ciascun di noi proverebbe se si trovasse nel [4276]luogo dei nostri servi quando assistono alle nostre tavole.
In vero l'umanità e la cordialità nostra possono essere un poco accusate, quando elle ci permettono abitualmente di godere in presenza di persone che il nostro godimento fa patire, e il cui patimento ci sta sotto gli occhi; e nondimeno godere senza il menomo disturbo.
Non è molto umano il divertirsi in una conversazione mentre il vostro cocchiere sta esposto alla pioggia: ma in fine voi non lo vedete.
Non è molto umano lo stornar gli occhi dai patimenti degli altri per non esserne afflitto o turbato, perchè quel pensiero non vi guasti i vostri diletti.
Ma il dilettarsi tranquillamente e a tutto suo agio, finchè n'è capace il corpo e lo spirito, avendo, non lontane, ma presenti, non nel pensiero, ma negli occhi, persone uguali a noi, che manifestamente (e con tutta ragione) soffrono, e non per altra causa, ma pel nostro stesso godere, quanto sarà umano? Io confesso che non mi è riuscito mai di provar piacere in cosa che io, non dico vedessi, non sapessi, ma che pur sospettassi che fosse di molestia o di noia ad alcuno: perchè non mi è mai riuscito di potermi in quel tempo cacciar quel pensiero dalla mente.
E ciò, quando anche non fosse ragionevole in quella tal persona il darsene quella molestia.
Perciò non voglio mangiare in compagnia, per non aver servitori intorno: perchè appunto io voglio alla tavola provar piacere: e mangiando solo, non voglio averne che mi assistano.
Tanto più che io per bisogno, e con molta ragione, voglio mangiare a grand'agio, e con lunghezza di tempo (non parendomi anche che il tempo sia male impiegato in questo, come par che stimino molti, che si affrettano d'ingoiare ogni cosa, e di levarsi su, quasi che questo momento fosse il più bello del desinare); la qual lunghezza, con altrettanta ragione, da chi mi servisse, sarebbe trovata estremamente fastidiosa e intollerabile.
(7.
Apr.
1827.)
To pant inglese - panteler francese.
[4277]Allegano in favore della immortalità dell'animo il consenso degli uomini.
A me par di potere allegare questo medesimo consenso in contrario, e con tanto più di ragione, quanto che il sentimento ch'io sono per dire, è un effetto della sola natura, e non di opinioni e di raziocinii o di tradizioni; o vogliamo dire, è un puro sentimento e non è un'opinione.
Se l'uomo è immortale, perchè i morti si piangono? Tutti sono spinti dalla natura a piangere la morte dei loro cari, e nel piangerli non hanno riguardo a se stessi, ma al morto; in nessun pianto ha men luogo l'egoismo che in questo.
Coloro medesimi che dalla morte di alcuno ricevono qualche grandissimo danno, se non hanno altra cagione che questa di dolersi di quella morte, non piangono; se piangono, non pensano, non si ricordano punto di questo danno, mentre dura il lor pianto.
Noi c'inteneriamo veramente sopra gli estinti.
Noi naturalmente, e senza ragionare; avanti il ragionamento, e mal grado della ragione; gli stimiamo infelici, gli abbiamo per compassionevoli, tenghiamo per misero il loro caso, e la morte per una sciagura.
Così gli antichi; presso i quali si teneva al tutto inumano il dir male dei morti, e l'offendere la memoria loro; e prescrivevano i saggi che i morti e gl'infelici non s'ingiuriassero, congiungendo i miseri e i morti come somiglianti: così i moderni; così tutti gli uomini: così sempre fu e sempre sarà.
Ma perchè aver compassione ai morti, perchè stimarli infelici, se gli animi sono immortali? Chi piange un morto non è mosso già dal pensiero che questi si trovi in luogo e in istato di punizione: in tal caso non potrebbe piangerlo: l'odierebbe, perchè lo stimerebbe reo.
Almeno quel dolore sarebbe misto di orrore e di avversione: e ciascun sa per esperienza che il dolor che si prova per morti, non è nè misto di orrore o avversione, nè proveniente da tal causa, nè di tal genere in modo alcuno.
Da che vien dunque la compassione che abbiamo agli estinti se non dal credere, seguendo un sentimento intimo, e senza ragionare, che essi abbiano perduto la vita [4278]e l'essere; le quali cose, pur senza ragionare, e in dispetto della ragione, da noi si tengono naturalmente per un bene; e la qual perdita, per un male? Dunque noi non crediamo naturalmente all'immortalità dell'animo; anzi crediamo che i morti sieno morti veramente e non vivi; e che colui ch'è morto, non sia più.
Ma se crediamo questo, perchè lo piangiamo? che compassione può cadere sopra uno che non è più? - Noi piangiamo i morti, non come morti, ma come stati vivi; piangiamo quella persona che fu viva, che vivendo ci fu cara, e la piangiamo perchè ha cessato di vivere, perchè ora non vive e non è.
Ci duole, non che egli soffra ora cosa alcuna, ma che egli abbia sofferta quest'ultima e irreparabile disgrazia (secondo noi) di esser privato della vita e dell'essere.
Questa disgrazia accadutagli è la causa e il soggetto della nostra compassione e del nostro pianto; Quanto è al presente, noi piangiamo la sua memoria, non lui.
In verità se noi vorremo accuratamente esaminare quello che noi proviamo, quel che passa nell'animo nostro, in occasion della morte di qualche nostro caro; troveremo che il pensiero che principalmente ci commuove, è questo: egli è stato, egli non è più, io non lo vedrò più.
E qui ricorriamo colla mente le cose, le azioni, le abitudini, che sono passate tra il morto e noi; e il dir tra noi stessi: queste cose sono passate; non saranno mai più; ci fa piangere.
Nel qual pianto e nei quali pensieri, ha luogo ancora e parte non piccola, un ritorno sopra noi medesimi, e un sentimento della nostra caducità (non però egoistico), che ci attrista dolcemente e c'intenerisce.
Dal qual sentimento proviene quel ch'io ho notato altrove; che il cuor ci si stringe ogni volta che, anche di cose o persone indifferentissime per noi, noi pensiamo: questa è l'ultima volta: ciò non avrà luogo mai più: io non lo vedrò più mai: o vero: questo è passato per sempre.
V.
p.4282.
Di modo che nel dolore che si prova per morti, il pensiero dominante e principale è, insieme colla rimembranza e su di essa fondato, il pensiero della caducità umana.
Pensiero veramente non troppo simile nè analogo nè concorde a quello della nostra immortalità.
[4279]Alla quale noi siamo così alieni dal pensar punto in cotali occasioni, che se noi dicessimo allora a noi stessi: io rivedrò però questo tale dopo la mia morte: io non sono sicuro che tutto sia finito tra noi, e di non rivederlo mai più: e se noi non potessimo nel nostro pianto, usare e tener fermo quel mai più; noi non piangeremmo mai per morti.
Ma venga pure innanzi chi che si voglia e mi dica sinceramente se gli è mai, pur una sola volta, accaduto di sentirsi consolare da siffatto pensiero e dall'aspettativa di rivedere una volta il suo caro defonto: che pur ragionevolmente, poste le opinioni che abbiamo della immortalità dell'uomo, e dello stato suo dopo morte, sarebbe il primo pensiero che in tali casi ci si dovrebbe offrire alla mente.
Ma in fatti, come dal fin qui detto apparisce, quali si sieno le nostre opinioni, la natura e il sentimento in simili occasioni ci portano senza nostro consenso o sconsenso a giudicare e tenere per dato, che il morto sia spento e passato del tutto e per sempre.
Concludo che per quanto permette la infinita diversità ed assurdità dei giudizi, dei pregiudizi, delle opinioni, delle congetture, dei dogmi, dei sogni degli uomini intorno alla morte; noi possiamo trovare, massime se interroghiamo la pura e semplice natura, che essi in sostanza, e nel fondo del loro cuore, piuttosto consentono in credere la estinzione totale dell'uomo, che la immortalità dell'animo: senza che, nella detta diversità ed assurdità, io pretenda che tal consentimento sia di gran peso.
(Recanati.
9.
Apr.
Lunedì Santo.
1827.)
Embrasé per ardente.
Ses regards embrasés.
Barthélemy, Voyage d'Anacharsis, dove parla di Omero.
Raffiné spesso per fin semplicemente.
(?????(?(????, abbaco.
V.
Forcell.
ec.
Congetture sopra una futura civilizzazione dei bruti, e massime di qualche specie, come delle scimmie, da operarsi dagli uomini a lungo andare, come si vede che gli uomini civili hanno incivilito molte nazioni o barbare o selvagge, certo non meno feroci, e forse meno ingegnose delle scimmie, specialmente di alcune specie di esse; e che insomma la civilizzazione tende naturalmente a propagarsi, [4280]e a far sempre nuove conquiste, e non può star ferma, nè contenersi dentro alcun termine, massime in quanto all'estensione, e finchè vi sieno creature civilizzabili, e associabili al gran corpo della civilizzazione, alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura, e contro alle cose non intelligenti.
Può servire per la Lettera a un giovane del 20° secolo.
Il vedersi nello specchio, ed immaginare che v'abbia un'altra creatura simile a se, eccita negli animali un furore, una smania, un dolore estremo.
Vedilo di una scimmia nel Racconto di Pougens, intitolato Joco, Nuovo Ricoglitore di Milano, Marzo 1827.
p.215-6.
Ciò accade anche nei nostri bambini.
V.
Roberti Lettera di un bambino di 16 mesi.
Amor grande datoci dalla natura verso i nostri simili!!
(Recanati.
13.
Apr.
Venerdì Santo.
1827.).
V.
p.4419.
Badare-badigliare, sbadigliare ec.; badaluccare, badalucco ec.
V.
N.
Ricoglitore, loc.
cit.
qui sopra, p.162-3.
Rosecchiare, rosicchiare.
Presso gli Spagnuoli, i quali si dicono essere quelli che nelle colonie meglio trattano gli schiavi, i Neri nell'isola di Cuba hanno diritto di forzar per giudizio i loro padroni a venderli ad altri, in caso di mali trattamenti.
V.
il N.
Ricoglitore, loc.
cit.
qui sopra, p.175.
Così appunto gli schiavi aveano il diritto ??(???(?????(??(? presso gli Ateniesi, dov'erano meglio trattati che in alcun'altra parte di Grecia.
V.
Casaubon.
ad Athenae.
l.6.
c.19.
init.
(Recanati.
15.
Apr.
dì di Pasqua.
1827.)
Dico altrove che la moderna pronunzia francese distrugge ed annulla bene spesso l'imitativo che aveva il suono della parola in latino, e in cui spesso consisteva tutta la ragione di essa parola.
Il simile si dee dire di altre voci che la lingua francese ha da altre lingue che la latina, ovvero sue proprie ed originali.
Miauler, miaulement parole espressive della voce del gatto, nella lor forma scritta (e però primitiva) hanno una perfettissima imitazione, nella pronunziata che ne rimane? Ognuno che abbia udito una sola volta il verso del gatto, sa che esso è mià e non miò; e dirà imitativo l'italiano miagolare (o sia questo originato dal francese, o viceversa, o l'uno [4281]e l'altro nati indipendentemente dalla natura), e corrotto affatto il franc.
miauler, miaulement (noi diciamo miao o gnao, come anche gnaulare, e non già gnolare).
Gli spagnuoli maullar o mahullar, maullido, maullamiento, mau.
(16.
Aprile.
Lunedì di Pasqua.
1827.)
Miauler franc.
maullar o mahullar spagn.
- mia-g-olare.
Upupa lat.
e italiano - bubbola.
Hamus-hameau.
Alla p.4255.
principio.
Vir gente et fama nobilis, dice il Reimar, Praefat.
ad Dion.
§.6, di Giovanni Leunclavio, famoso erudito tedesco del secolo 16°, quem merito admiratur Marquardus Freherus in epistola dedicatoria ad Leunclavii Jus Graeco-Romanum quod inter varias peregrinationes, in multis principum aulis, legationibus et negotiis occupatus, tot ac tanta opera summa accuratione ediderit, quot et quanta quis otiosus et huic uni rei operatus vix proferret in lucem.
Le soprascritte osservazioni del Chesterfield spiegano questo fenomeno, ripetuto del resto assai spesso; e notato colla stessa ammirazione da molti, in molti e molti altri; e certamente non raro.
Esse spiegano il simile e maggior fenomeno di Cicerone tra gli antichi, di Federico di Prussia tra i moderni, e di tanti altri tali.
A segno che sarà forse più difficile il trovare un letterato, altronde ozioso e disoccupato, che abbia molto scritto e con accuratezza grande, di quello che un letterato che, occupato d'altronde, abbia prodotto molte e studiate opere.
Certo di questi non è difficile a trovarne, e ciò conferma le osservazioni del Chesterfield; secondo le quali, le stesse occupazioni di siffatti uomini, debbono servire a render ragione della moltitudine e dell'accuratezza dei loro lavori, e a scemarne la meraviglia, mostrandole occasionate da un abito di attività prodotto o sostenuto da esse occupazioni; attività tanto maggiore e più viva ed acuta, quanto la copia e la folla e l'assiduità di esse occupazioni era più grande.
(Recanati.
17.
Aprile.
Martedì di Pasqua.
1827.).
Esempio mio, [4282]per lo più ozioso, ed inclinato all'inerzia, o per natura o per abito; pure in mezzo a questa inazione profonda, un giorno che io abbia occasione di adoperarmi, e molte cose da fare, non solo trovo tempo da sbrigar tutto, ma me ne avanza, e in quell'avanzo, io provo (e m'è avvenuto più volte) un vero bisogno, una smania, di far qualche cosa, un orrore del non far nulla, che mi pare incomportabile, come se io non fossi avvezzo a passar le ore, e per così dire i mesi, nella mia stanza colle braccia in croce.
(Recanati.
17.
Apr.
Martedì di Pasqua.
1827.)
Uomo, viso, contegno, stile (ec.) sostenuto.
Volg.
ital.
Onde è sostenutezza, usato dal Salvini, e registrato dalla Crusca.
Consummatus per summus.
V.
Forcellini.
Anche i francesi nel dir familiare usano autre per aucun, o ridondante.
Così sans autre examen senz'altro esame, per sans aucun examen, in certi versi del modernissimo Andrieux, appresso MM.
Noël e Delaplace, Leçons de littérature et de morale, 4me édit.
Paris 1810.
tome 2.
p.58.
Così ancora autrement per guère, o ridondante, pure nello stil familiare.
V.
Alberti, e Richelet, Dizz.
(Recanati.
18.
Apr.
1827.)
Homme, esprit, dissipé.
Disapplicato.
??????(?( (cioè in questa, in questo, in questo mezzo).
Dione Cass.
ed.
Reimar, p.65.
lin.98.
p.192.
lin.5.
(Recanati.
20.
Apr.
1827.)
Nae-v-us - Ne-o.
V.
franc.
spagn.
ec.
Amouracher, s'amouracher.
Flamboyer.
Culter, cultrum-cultellus, coltello, couteau ec.
ec.
V.
Forcell., gli Spagnuoli ec.
Alla p.4278.
Il qual dolore si prova anche lasciando uno stato penoso, e il fine del quale sia stato da noi desideratissimo, e ci sia attualmente oltremodo caro.
Il carcerato posto in libertà, piangerà nell'uscir della sua prigione, non per altro che pensando alla fine del suo stato passato: Filottete, partendo per l'assedio di Troia, dà un addio doloroso all'isola disabitata e all'antro de' suoi patimenti.
L'estate, oltrechè liberandoci dai patimenti, produce in noi il desiderio de' piaceri, [4283]ci dà anche una confidenza di noi stessi, e un coraggio, che nascono dalla facilità e libertà di agire che noi proviamo allora per la benignità dell'aria.
Dalla qual sicurezza d'animo, e fiducia di se, nasce, come sempre, della magnanimità, della inclinazione a compatire, a soccorrere, a beneficare; siccome dalla diffidenza che produce il freddo, nasce l'egoismo, l'indifferenza per gli altri ec.
Alla p.4245.
Aggiungi a queste cose la voluttà (ben conosciuta e notata dagli antichi) del piangere, del gemere, dello stridere, dell'ululare nelle disgrazie; della quale noi siamo privati.
(Recanati.
Domenica in Albis.
22.
Aprile.
1827.)
Il primo fondamento del sacrificarsi o adoperarsi per gli altri, è la stima di se medesimo e l'aversi in pregio; siccome il primo fondamento dell'interessarsi per altrui, è l'aver buona speranza per se medesimo.
(Firenze.
1.
Luglio.
1827.)
Anticipare, posticipare, participare ec.
da capere.
Summittere o submittere per sursum mittere o de subtus mittere.
Subiectare, simile.
Bucherare.
Spicciolato.
Fra giorno, cioè di giorno, nel giorno, dentro giorno, dentro il corso del giorno.
Innumerato per innumerabile.
Palmieri (scrittore del sec.15.), Della vita civile.
V.
Crus.
Forcell.
ec.
Che la vita nostra, per sentimento di ciascuno, sia composta di più assai dolore che piacere, male che bene, si dimostra per questa esperienza.
Io ho dimandato a parecchi se sarebbero stati contenti di tornare a rifare la vita passata, con patto di rifarla nè più nè meno quale la prima volta.
L'ho dimandato anco sovente a me stesso.
[4284]Quanto al tornare indietro a vivere, ed io e tutti gli altri sarebbero stati contentissimi; ma con questo patto, nessuno; e piuttosto che accettarlo, tutti (e così, io a me stesso) mi hanno risposto che avrebbero rinunziato a quel ritorno alla prima età, che per se medesimo, sarebbe pur tanto gradito a tutti gli uomini.
Per tornare alla fanciullezza, avrebbero voluto rimettersi ciecamente alla fortuna circa la lor vita da rifarsi, e ignorarne il modo, come s'ignora quel della vita che ci resta da fare.
Che vuol dir questo? Vuol dire che nella vita che abbiamo sperimentata e che conosciamo con certezza, tutti abbiam provato più male che bene; e che se noi ci contentiamo, ed anche desideriamo di vivere ancora, ciò non è che per l'ignoranza del futuro, e per una illusione della speranza, senza la quale illusione e ignoranza non vorremmo più vivere, come noi non vorremmo rivivere nel modo che siamo vissuti.
(Firenze.
1.
Luglio.
1827.)
È ben trista quella età nella quale l'uomo sente di non ispirar più nulla.
Il gran desiderio dell'uomo, il gran mobile de' suoi atti, delle sue parole, de' suoi sguardi, de' suoi contegni fino alla vecchiezza, è il desiderio d'inspirare, di communicar qualche cosa di se agli spettatori o uditori.
(Firenze.
1.
Luglio.
1827.)
Una delle cause della imperfezione e confusione delle ortografie moderne, si è che esse si sono quasi interamente ristrette all'alfabeto latino, avendo esse molto più suoni, massime vocali, che non ha quell'alfabeto.
Ciò si vede specialmente nell'inglese, dove per conseguenza uno stesso segno vocale deve esprimere ora uno ora un altro suono, senza regola fissa, e servire a più suoni.
I caratteri dell'alfabeto latino non bastano a molte lingue moderne.
E generalmente si vede che le ortografie sono tanto più imperfette, quanto le lingue sono più [4285]distanti per origine e per proprietà dal latino, sulla ortografia del quale tutte, malgrado di ogni repugnanza, furono architettate.
Le contrazioni greche (sì quelle in uso ne' vari dialetti, e sì quelle attiche, e passate nel greco comune) non sono che modi di pronunziare certi dittonghi o trittonghi ec.: come appunto in francese au, ai ec.
che si pronunziano o, e ec.; in inglese ea, ee ec.
che si pronunziano i, e ec.
ec.
Così in greco ?? si contrae, cioè si pronunzia ?; ?? si pronunzia ????????????????????????? ec.
ec.
Ma non per questo i greci pronunziando (cioè contraendo)??? scrivevano ?? ec., benchè questa seconda fosse la pronunzia e la scrittura regolare; ma scrivevano ? come pronunziavano.
E non solo il greco comune, ma ciascun dialetto con tutte le irregolarità e idiotismi di pronunzia, si scriveva come si pronunziava.
Perchè in francese, in inglese ec.
(i quali anticamente e regolarmente pronunziarono certo au, ai, ea, ee ec.
come ora scrivono) non si scrivono i dittonghi ec.
come si pronunziano?
(Firenze.
1.
luglio.
1827.)
Successus particip.
da succedo.
V.
Cic.
Ep.
ad.
fam.
l.16.
ep.21.
Avvengachè tra gli scrittori che io ho visti, non si trovi in maniera alcuna chi altrimenti (ridondante) costui si fosse.
Giambullari, Istoria dell'Europa, lib.7.
principio, Pisa, Capurro.
1822.
t.2.
p.173.
Sull'orlo d'un laghetto, ch'era vicino a certe balze sopra le coste di Agnano, stavano una testuggine, e due altri uccelli pur d'acqua.
Firenzuola, Discorsi degli animali.
(Firenze.
1.
Luglio.
1827.)
L'amore e la stima che un letterato porta alla letteratura, o uno scienziato alla sua scienza, sono il più delle volte in ragione inversa dell'amore e della stima che il letterato o lo scienziato porta a se stesso.
(Firenze.
5.
Luglio.
1827.)
[4286]Alla p.4245.
Di tal genere è ancora quella tanta ospitalità esercitata dagli antichi con tanto scrupolo, e protetta da tanto severe leggi, opinioni religiose ec.
quei diritti d'ospizio ec.
affinità d'ospizio ec.
Ben diversi in ciò dai moderni.
(5.
Luglio.
1827.)
Cuna, cunula, culla.
Favonius-Faunus.
V.
The Monthly Repertory of english literature, Paris, N.51.
June 1811.
vol.13.
p.331.
Vino.
Il piacer del vino è misto di corporale e di spirituale.
Non è corporale semplicemente.
Anzi consiste principalmente nello spirito ec.
ec.
(Firenze.
17.
Luglio.
1827.)
Uno che costretto dai debiti, aveva venduto per cinquantamila scudi il suo patrimonio, non volendo dire di aver venduto, diceva (e certo con altrettanta verità) di aver comperato cinquantamila scudi.
(Firenze.
19.
Luglio.
1827.)
Memorie della mia vita.
Cangiando spesse volte il luogo della mia dimora, e fermandomi dove più dove meno o mesi o anni, m'avvidi che io non mi trovava mai contento, mai nel mio centro, mai naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantochè io non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove io dimorava, alle vie, alle case che io frequentava; le quali rimembranze non consistevano in altro che in poter dire: qui fui tanto tempo fa; qui, tanti mesi sono, feci, vidi, udii la tal cosa; cosa che del resto non sarà stata di alcun momento; ma la ricordanza, il potermene ricordare, me la rendeva importante e dolce.
Ed è manifesto che questa facoltà e copia di ricordanze annesse ai luoghi abitati da me, io non poteva averla se non con successo di tempo, e col tempo non mi poteva mancare.
Però io era sempre tristo in qualunque luogo nei primi mesi, e coll'andar del tempo mi trovava [4287]sempre divenuto contento ed affezionato a qualunque luogo.
(Firenze.
23.
Luglio.
1827.).
Colla rimembranza, egli mi diveniva quasi il luogo natio.
Veramente e perfettamente compassionevoli, non si possono trovare fra gli uomini.
I giovani vi sarebbero più atti che gli altri, quando sono nel fior dell'età, quando ride loro ogni cosa, quando non soffrono nulla, perchè se anche hanno materia di sofferire, non la sentono.
Ma i giovani non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente delle infelicità umane, le considerano quasi come illusioni, o certo come accidenti d'un altro mondo, perchè essi non hanno negli occhi che felicità.
Chi patisce non è atto a compatire.
Perfettamente atto non vi potrebbe essere altri che chi avesse patito, non patisse nulla, e fosse pienamente fornito del vigor corporale, e delle facoltà estrinseche.
Ma non v'ha che il giovane (il quale non ha patito) che sia così pieno di facoltà, e che non patisca nulla.
Se altro non fosse, lo stesso declinar della gioventù, è una sventura per ciascun uomo, la quale tanto più si sente, quanto uno è d'altronde meno sventurato.
Passati i venticinque anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della decadenza del suo corpo, dell'appassimento del fiore de' giorni suoi, della fuga e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù.
(Firenze.
23.
Lugl.
1827.)
Vagheggiare, bellissimo verbo.
Naufragato, naufragé ec.
per che ha naufragato.
V.
Forcell.
ec.
Scappato si dice volgarmente, anche in Toscana, di un giovane licenzioso ec.
Osé.
Rempli per plein.
Foncé per profond.
Béqueter.
Nutrire, nodrire-nutricare nodricare.
V.
Forc.
Frigere-fricasser.
Fra, infra, tra, intra tanto; entre tanto, per in tanto, en tanto.
Embraser co' derivati.
Aggiungasi al detto altrove, che le lettere br sogliono entrare nella composizione di voci dinotanti arsione ec.
[4288]Come ignotus, o notus per conoscente, così viceversa conoscente spesso per conosciuto; come: il dolor della morte degli amici e de' conoscenti ec.
ec.
(Firenze.
17.
Sett.
1827.)
La materia pensante si considera come un paradosso.
Si parte dalla persuasione della sua impossibilità, e per questo molti grandi spiriti, come Bayle, nella considerazione di questo problema, non hanno saputo determinar la loro mente a quello che si chiama, e che per lo innanzi era lor sempre paruto, un'assurdità enorme.
Diversamente andrebbe la cosa, se il filosofo considerasse come un paradosso, che la materia non pensi; se partisse dal principio, che il negare alla materia la facoltà di pensare, è una sottigliezza della filosofia.
Or così appunto dovrebbe esser disposto l'animo degli uomini verso questo problema.
Che la materia pensi, è un fatto.
Un fatto, perchè noi pensiamo; e noi non sappiamo, non conosciamo di essere, non possiamo conoscere, concepire, altro che materia.
Un fatto perchè noi veggiamo che le modificazioni del pensiero dipendono totalmente dalle sensazioni, dallo stato del nostro fisico; che l'animo nostro corrisponde in tutto alle varietà ed alle variazioni del nostro corpo.
Un fatto, perchè noi sentiamo corporalmente il pensiero: ciascun di noi sente che il pensiero non è nel suo braccio, nella sua gamba; sente che egli pensa con una parte materiale di se, cioè col suo cervello, come egli sente di vedere co' suoi occhi, di toccare colle sue mani.
Se la questione dunque si riguardasse, come si dovrebbe, da questo lato; cioè che chi nega il pensiero alla materia nega un fatto, contrasta all'evidenza, sostiene per lo meno uno stravagante paradosso; che chi crede la materia pensante, non solo non avanza nulla di strano, di ricercato, di recondito, ma avanza una cosa ovvia, avanza quello che è dettato dalla natura, la proposizione più naturale e più ovvia che possa esservi in questa materia; forse le conclusioni degli uomini su tal punto sarebbero diverse da quel che sono, e i profondi filosofi [4289]spiritualisti di questo e de' passati tempi, avrebbero ritrovato e ritroverebbero assai minor difficoltà ed assurdità nel materialismo.
(Firenze.
18.
Sett.
1827.)
Ci resta ancora molto a ricuperare della civiltà antica, dico di quella de' greci e de' romani.
Vedesi appunto da quel tanto d'instituzioni e di usi antichi che recentissimamente si son rinnovati: le scuole e l'uso della ginnastica, l'uso dei bagni e simili.
Nella educazione fisica della gioventù e puerizia, nella dieta corporale della virilità e d'ogni età dell'uomo, in ogni parte dell'igiene pratica, in tutto il fisico della civiltà, v.
p.4291.
gli antichi ci sono ancora d'assai superiori: parte, se io non m'inganno, non piccola e non di poco momento.
La tendenza di questi ultimi anni, più decisa che mai, al miglioramento sociale, ha cagionato e cagiona il rinnovamento di moltissime cose antiche, sì fisiche, sì politiche e morali, abbandonate e dimenticate per la barbarie, da cui non siamo ancora del tutto risorti.
Il presente progresso della civiltà, è ancora un risorgimento; consiste ancora, in gran parte, in ricuperare il perduto.
(18.
Sett.
1827.)
Addolcendosi i costumi, diffondendosi le cognizioni e la coltura delle maniere nelle classi inferiori, avanzandosi la civiltà, veggiamo che i grandi delitti o spariscono, o si fanno più rari.
Se mancati i grandi delitti e i grandi vizi, potranno aver luogo le grandi virtù, le grandi azioni, questo è un problema, che l'effetto e l'esperienza della civilizzazion presente deciderà per la prima volta.
- Parlando con un famoso ed eloquente avvocato napoletano, il Baron Poerio, che ha avuto a trattare un gran numero di cause criminali nella capitale e nelle provincie del Regno di Napoli, ho dovuto ammirare in quel popolo semibarbaro o semicivile piuttosto, una quantità di delitti atroci che vincono l'immaginazione, una quantità di azioni eroiche di virtù (spesso occasionate da quei medesimi delitti), che esaltano l'anima la più fredda (come è la mia).
Certo niente o ben poco di simile nelle parti men barbare dell'Italia, e [4290]nel resto d'Europa, nè per l'una nè per l'altra parte.
(Firenze.
18.
Sett.
1827.)
C'est en conséquence de ces cruelles opinions, que l'on a vu enseigner publiquement, à la honte du Christianisme, que l'on ne devoit pas garder la foi aux hérétiques; sentiment que Clément VIII, qui d'ailleurs étoit assez honnête homme pour un Pape, approuvoit, ainsi que s'en plaint amèrement le Cardinal d'Ossat.
L'inhumaine décision du concile de Constance, sur le mépris des saufs-conduits, est aussi le fruit de cette pernicieuse doctrine.
(Hist.
du concile de Constance, préface de Lenfant.
P.47.) Examen critique des Apologistes de la religion chrétienne, par M.
Fréret, chap.10.
édit.
de 1766.
p.188-9.
(Firenze, 19.
Sett.
1827.)
Io non credo vero quel che dicono i critici che gli antichi, p.e.
Ebrei, Greci, Latini Orientali ec.
non avessero nelle loro lingue il suono del v consonante, ma solo l'u vocale.
Credo che il vau dell'alfabeto ebraico non sia veramente altro che un uau o u, credo che gli antichi latini non avessero segno nel loro alfabeto per esprimere il v consonante, e che il V non fosse in origine che un u; ma con ciò non si prova altro se non che gli antichi non ebbero il v nel loro alfabeto, il che non prova che non l'avessero nella lingua.
Considerato come un'aspirazione (non altrimenti che l'f, il quale ancor manca negli antichi alfabeti, giacchè il fe ebraico fu anticamente pe, e il ? greco è una lettera aggiunta all'alfabeto antico, e considerata come doppia o composta, cioè di ? e di ?, ossia come un ? aspirato), esso v, per l'imperfezione degli antichi alfabeti, mancò di segno proprio, giacchè non si ebbe bastante sottigliezza per separarlo dalle lettere su cui esso cadeva, per avvedersi che esso era un suono per se, un elemento della favella.
Perciò da [4291]principio esso non fu scritto in niun modo, come nel lat.
amai per amavi; poi scritto come aspirazione, digamma ec.
p.e.
amai ec.; finalmente, sempre privo di segno proprio, esso fu scritto con quel medesimo segno che serviva all'u, ond'è avvenuto che nel latino maiuscolo il V sia ora vocale ora consonante, e così l'u nel latino minuscolo, la qual confusione dura ancora, non ostante che i moderni abbiano fatto di quest'u due caratteri, u e v; giacchè si vede, ciò non ostante, nei dizionari l'u e il v considerarsi come un solo elemento diversamente modificato, ed abbiamo e impariamo fin da fanciulli la irragionevole distinzione tra u vocale e u consonante, distinzione che non ha ragione alcuna naturale, ma solo storica ec.
ec.
Il simile dirò dell'f ec.
ec.
(20.
Sett.
1827.
Firenze.)
Alla p.4289 - nella civiltà insomma del corpo, per dir così, o vogliamo dire, che spetta al perfezionamento o alla perfezione del corpo, -
Dice la Staël che la lingua tedesca è una scienza, e lo stesso si può, e con più ragione ancora, dir della greca.
Quindi è accaduto che siccome le scienze si perfezionano, e i moderni sono in esse superiori agli antichi, per le più numerose e accurate osservazioni, così e per lo stesso mezzo la notizia del greco, dal rinascimento degli studi, si è accresciuta e si accresce tuttavia, e che i moderni sono in essa d'assai superiori a quelli del 5 o del 4 cento, e forse in alcune parti (come in quella delle etimologie, parte così favolosamente trattata da Platone), agli stessi greci antichi; anzi, che gli scolari di greco oggidì, ne sappiano più de' maestri de' passati tempi.
E come le scienze non hanno limiti conosciuti nè forse arrivabili, e nessuno si può vantare di possederle intere; così appunto accade della lingua greca, la cognizione della quale sempre si estende, nè si può conoscere se e quando arriverà al non plus ultra, nè [4292]basta l'avere spesa tutta la vita in questo studio, per potersi vantare di essere un grecista perfetto.
(Firenze.
20.
Sett.
1827.)
Il credere l'universo infinito, è un'illusione ottica: almeno tale è il mio parere.
Non dico che possa dimostrarsi rigorosamente in metafisica, o che si abbiano prove di fatto, che egli non sia infinito; ma prescindendo dagli argomenti metafisici, io credo che l'analogia materialmente faccia molto verisimile che la infinità dell'universo non sia che illusione naturale della fantasia.
Quando io guardo il cielo, mi diceva uno, e penso che al di là di que' corpi ch'io veggo, ve ne sono altri ed altri, il mio pensiero non trova limiti, e la probabilità mi conduce a credere che sempre vi sieno altri corpi più al di là, ed altri più al di là.
Lo stesso, dico io, accade al fanciullo, o all'ignorante, che guarda intorno da un'alta torre o montagna, o che si trova in alto mare.
Vede un orizzonte, ma sa che al di là v'è ancor terra o acqua, ed altra più al di là, e poi altra; e conchiude, o conchiuderebbe volentieri, che la terra o il mare fosse infinito.
Ma come poi si è trovato per esperienza che il globo terracqueo, il qual pare infinito, e certamente per lungo tempo fu tenuto tale, ha pure i suoi limiti, così, secondo ogni analogia, si dee credere che la mole intera dell'universo, l'assemblage di tutti i globi, il qual ci pare infinito per la stessa causa, cioè perchè non ne vediamo i confini e perchè siam lontanissimi dal vederli; ma la cui vastità del resto non è assoluta ma relativa; abbia in effetto i suoi termini.
- Il fanciullo e il selvaggio giurerebbero, i primitivi avriano giurato, che la terra, che il mare non hanno confini; e si sarebbono ingannati: essi credevano ancora, e credono, che le stelle che noi veggiamo non si potessero contare, cioè fossero infinite di numero.
(20.
Sett.
1827.)
[4293]L'estrema imperfezione dell'ortografia francese è confessata in modo très-éclatant dagli stessi francesi con que' loro dizionari che contengono la prononciation figurée, cioè rappresentata in modo più conforme all'alfabeto ed alla ragion naturale.
Che si dee pensare della scrittura di una nazione, la quale scrittura ha bisogno di essere scritta in un altro modo, di essere rappresentata con un'altra scrittura, e ciò alla stessa nazione, acciò che questa intenda ciò che quella significa? giacchè l'intendere come essa vada pronunziata, non è altro che intendere il suo valore.
(Firenze.
21.
Sett.
1827.)
Se fosse possibile che io m'innamorassi, ciò potrebbe accadere piuttosto con una straniera che con un'italiana.
Quel tanto o di nuovo o d'ignoto che v'ha ne' costumi, nel modo di pensare, nelle inclinazioni, nei gusti, nelle maniere esteriori, nella lingua di una straniera, è molto a proposito per far nascere o per mantenere in un amante quella immaginazion di mistero, quella opinione di vedere e di conoscere nella persona amata assai meno di quello che essa nasconde in se stessa, di quel ch'ella è, quella idea di profondità, di animo recondito e segreto, ch'è il primo e necessario fondamento dell'amor più che sensuale.
Oltre alla grazia che accompagna naturalmente ciò ch'è straniero, come straordinario.
(Firenze, 21.
Sett.
1827.)
Doucereux.
Una voce o un suono lontano, o decrescente e allontanantesi appoco appoco, o eccheggiante con un'apparenza di vastità ec.
ec.
è piacevole per il vago dell'idea ec.
Però è piacevole il tuono, un colpo di cannone, e simili, udito in piena campagna, in una gran valle ec.
il canto degli agricoltori, degli uccelli, il muggito de' buoi ec.
nelle medesime circostanze.
(21.
Sett.
1827.)
[4294]La differenza tra le voci di origine volgare, e quelle di origine puramente letteraria nelle lingue figlie della latina, si può vedere anche in questo, che spesso una stessissima voce latina, pronunziata e scritta in un modo nelle nostre lingue, significa una cosa; in un altro modo, un'altra, tutta differente, e si considera come un altra voce da tutti, salvo solo i pochissimi che s'intendono delle origini della lingua.
P.e.
causa lat., corrotta di forma e di significato dall'uso volgare, significa res (cosa: v.
la pag.4089.); usata incorrottamente nella letteratura e scrittura, significa, come nel buon latino, cagione.
Ed è certo che causa ital.
è voce, benchè ora volgarmente intesa, (non però usata dal volgo), di origine letteraria; poichè nel 300 non si trova, o è così rara, che i fanatici puristi de' passati secoli dicevano ch'ella non è buona voce toscana, ma che dee dirsi cagione, voce pure storpiata di forma e di senso dalla lat.
occasio, che pur si usa poi nella sua vera forma e senso, come una tutt'altra (occasione), benchè in origine sia la stessa.
Franc.
chose - cause, Spagn.
cosa - causa ec.
(Firenze.
21.
Sett.
1827.).
Leale, loyal, leal (spagn.) legale, légal, legal.
Diluvium - déluge.
Alla p.4238.
Ebbero i Greci ancora, come i moderni, degl'Itinerari, delle Descrizioni di città e di provincie, anche con dettagli appartenenti a storia, arti, monumenti, costumi, prodotti, statistica insomma (come quella di Pausania, e la Descriz.
della Grecia di Dicearco, contemporaneo di Teofrasto, della quale son da vedere i frammenti nei Meletemata del Creuzer); delle Relazioni di Viaggi per mare e per terra (come i Peripli, il Viaggio di Nearco, di Arriano nell'Indica, quello di Megastene all'India, ed altri simili sotto titolo di '?????(???(??????(????????( ec.): e in fine non v'è quasi ricchezza letteraria fra' moderni, di cui non si trovi fornita anche la Bibliografia greca.
(Firenze.
Domenica 14.
Ottob.
1827.)
Persone la cui compagnia e conversazione ci piaccia durevolmente, e si usi volentieri con [4295]frequenza e lunghezza, non sono in sostanza, e non possono essere altre che quelle dalle quali giudichiamo che vaglia la pena di sforzarci e adoperarci d'essere stimate, e stimate ogni giorno più.
Perciò la compagnia e conversazione delle donne non può esser durevolmente piacevole, se esse non sono o non si rendono tali da rendere durevolmente pregiabile e desiderabile la loro stima.
(Firenze.
Domenica 14.
Ottobre.
1827.)
Peut-être que, si l'on examinait avec impartialité les moeurs de toutes les nations de la terre, on trouverait qu'il n'y a point de peuple si grossier qui n'ait quelques règles de politesse, et point de peuple si poli qui ne conserve quelque reste de barbarie.
Franklin.
Traduit de l'anglais.
(Mélanges de Morale, d'Économie et de Politique, extraits des ouvrages de Benjamin Franklin.
2e édition.
Paris, chez Jules Renouard.
1826.
tom.2.
p.1-2.
Observations sur les Sauvages de l'Amérique du Nord.
1784.).
(Firenze.
1827.
25.
Ottobre.)
Bisogna guardarsi dal giudicare dell'ingegno, dello spirito, e soprattutto delle cognizioni di un forestiere, da' discorsi che si udranno da lui ne' primi abboccamenti.
Ogni uomo, per comune e mediocre che sia il suo spirito e il suo intendimento, ha qualche cosa di proprio suo, e per conseguenza di originale, ne' suoi pensieri, nelle sue maniere, nel modo di discorrere e di trattare.
Massime poi uno straniere, voglio dire uno d'altra nazione, [4296]ne' cui pensieri, nelle parole, nei modi, è impossibile che non si trovi tanta novità che basti per fermar l'attenzione di chi conversa seco le prime volte.
Ogni uomo poi di qualche coltura, ha un sufficiente numero di cognizioni per somministrar lauta materia ad uno o due entretiens; ha i suoi discorsi, le sue materie favorite, nelle quali, se non altro per la lunga assuefazione ed esercizio, è atto a figurare, ed anche brillare; ha qualche suo motto, qualche tratto di spirito, qualche osservazione piccante o notabile ec.
familiari e consueti.
Per poca di abilità che egli abbia nel conversare, per poca di perizia di società, di arte della parola, facilissimamente egli tira e fa cadere il discorso, ne' suoi primi abboccamenti, sopra quelle materie dove consiste il suo forte, dov'egli ha qualche bella o buona o passabile cosa da dire; e facilissimamente trova modo di metter fuori e di déployer tutta la ricchezza della sua erudizione e della sua dottrina, di qualunque genere ella sia.
Ad un letterato di professione massimamente, è difficile che manchi l'arte necessaria per questo effetto.
Quindi è che chi lo sente parlare per la prima volta, resta sorpreso dell'abbondanza delle sue cognizioni, de' suoi motti, delle sue osservazioni; lo piglia per un'arca di scienza e di erudizione, un mostro di spirito, un ingegno vivacissimo, un pensatore consumato, un intelletto, uno spirito originale.
Ciò è ben naturale, perchè si crede che quel che egli mette fuori, sia solamente una mostra, un saggio di se e del suo sapere; non sia già il tutto.
Così è avvenuto a me più volte: trovandomi con persone nuove, specialmente con letterati, sono rimasto spaventato del gran numero degli aneddoti, delle novelle, delle cognizioni d'ogni sorta, delle osservazioni, dei tratti, ch'esse mettevano fuori.
Paragonandomi a loro, io m'avviliva nel mio animo, mi pareva impossibile di arrivarvi, mi credeva un nulla appetto a loro.
Ciò avveniva non già perchè la somma del mio sapere e del mio spirito non mi [4297]paresse bastante ad uguagliar quella che tali persone mettevano fuori e spendevano attualmente meco: se io avessi creduto che la loro ricchezza non si stendesse più là, essa mi sarebbe paruta ben piccola cosa, anche a lato alla mia; ma io credeva che quello non fosse che un saggio del capitale, un argent de poche, corrispondente ad una ricchezza proporzionata.
Ne' miei pochi viaggi, spesso ho avuto di tali mortificazioni, specialmente con letterati stranieri.
Ma poi qualche volta ha voluto il caso che io m'abbattessi a sentire qualche colloquio di alcuna di tali persone con altre a cui esse erano parimente nuove.
Ed ho notato che esse ripetevano puntualmente, o appresso a poco, gli stessi pensieri, motti, aneddoti, novelle, che avevano dette ed usate meco.
ec.
L'effetto in quegli uditori era lo stesso che era stato in me.
Ammirazione, interesse, entusiasmo.
Che vastità di sapere, che notizia d'uomini e d'affari, che profondità, che erudizione immensa, che fecondità e vivacità di spirito!
Da queste osservazioni si possono cavar parecchie riflessioni utili, ma fra l'altre, due ben diverse, ed utili a due ben diversi generi di persone.
La prima: che i viaggiatori, per quanto sieno intendenti e di buona fede, debbono restar facilmente ingannati nel giudicar dello spirito, ingegno, erudizione e dottrina delle persone che vedono.
Questa sarà utile per chi legge le Relazioni di Viaggi fatti in Europa, che ora sono tanto alla moda.
L'altra: che un viaggiatore, per poco capitale ch'egli abbia di spirito e di sapere, dev'essere ben povero d'arte conversativa, se dovunque egli passa, non si fa passare per un grand'uomo.
E questa sarà utile a chi viaggia.
Come anche sarà utile per un altro lato a chi viaggia, l'esempio dell'accaduto a me, come ho detto di sopra ec.
(Pisa.
13.
Novembre.
1827.)
[4298]Cratero (nome di medico, e vuol dire in generale al medico) magnos promittere montes.
Persio, Sat.3.
vers.65.
- Prometter mari e monti.
Alla p.4115.
Persio Sat.1.
v.112-14.
Hic, inquis, veto quisquam faxit oletum.
Pinge duos angues: pueri, sacer est locus, extra Mejite.
Discedo.
Traduz.
di Monti.
Niun qui, dici, a sgravar l'alvo si butti: E tu due serpi vi dipingi, e al piede: Pisciate altrove, è sacro il loco, o putti.
Me la batto.
Nota del medesimo.
Angues.
L'antica superstizione aveva consecrato i serpenti come immagine del genio tutelare, e simbolo dell'eternità.
Solevano quindi dipingerli al muro ne' luoghi pubblici che volevansi mondi d'ogni bruttura, onde gli adulti per riverenza, i fanciulli per paura non vi si accostassero a far puzza.
- Vedi gli altri commentatori.
Paragonisi questa usanza colla nostra di far dipingere, ed anche scolpire in pietra, delle croci ne' luoghi che si vogliono salvare dalle brutture, e che d'altronde vi sarebbero assai esposti e comodi.
Usanza che dà più che mai nell'occhio a Firenze, dove non solo ne' luoghi tali, ma non v'è canto di edifizio e di strada sì pubblica e frequentata, dove non si veggano, non dico croci, ma lunghe file di croci dipinte nel muro a basso, in modo di siepi.
Il che è ben ragionevole in quella sporchissima e fetidissima città, per li cui amabili cittadini ogni luogo, nascosto o patente, è comodo e opportuno per li loro bisogni, e soprattutto ogni cominciamento o entrata di viottolo o di via (due cose poco diverse in Firenze): onde nessun luogo è sicuro da tali profanazioni senza tali ripari ed antemurali, e conviene moltiplicarli senza fine.
Non entrerei però garante della validità di siffatti ripari per l'effetto desiderato, nè in Firenze nè altrove.
(Pisa.
22.
Novembre.
1827.).
V.
la p.
seg.
e p.4300.
e p.4305.
Cader dalla padella nella brace ec.
V.
Crusca.
- Platone nel fine del libro 8.
??????(?? (ed.
Astii, t.4.
p.
ult.) parlando della democrazia cangiata in tirannide, e della eccessiva libertà cangiata in servitù, dice: ka(, ?(????(?????, (??(??? ??(????(??????(???????(???(????(??? (cioè ricusando l'obbedienza de' magistrati [4299]liberi), ?(???(????(??? ???????(?? (della dominazione dei servi, cioè de' satelliti del tiranno ec.) (??(???????(???(?.
(Pisa.
2.
Dic.
1827.)
Alla p.
qui dietro.
Del resto, questo scompisciamento generale di Firenze procede da quell'eccessiva libertà individuale che vi regna, per la quale Firenze potrebbe molto bene paragonarsi ad Atene del tempo il più democratico, ed applicarsi a lei quello che, alludendo ad Atene, dice di una città eccessivamente democratica Platone nell'ottavo della Repubblica, opp.
ed.
Astii, tom.4.
p.478.
(Pisa.
5.
Dic.
1827.)
Alla p.4164.
capoverso 3.
Epicuro Epist.
ad Herodot., ap.
Laert.
X.
segm.37.
(????(???(??????(?????(?????(?????( (????(?????(???????(??(?(?(???????(????(????.
Quest'uso dell'infinito, è proprio, del resto, anche della lingua franc.
spagn.
ec.
D'Alembert nel Discours préliminaire de l'Encyclopédie, avendo parlato delle cure, delle fatiche prese, e delle grandissime difficoltà incontrate dagli enciclopedisti, e particolarmente da Diderot per acquistare intorno alle arti, mestieri e manifatture i lumi e le notizie necessarie a trattarne nella enciclopedia, soggiunge: C'est ainsi que nous nous sommes convaincus de l'ignorance dans laquelle on est sur la plûpart des objets de la vie, et de la difficulté de sortir de cette ignorance.
C'est ainsi que nous nous sommes mis en êtat de démontrer que l'homme de Lettres qui sait le plus sa Langue, ne connoît pas la vingtieme partie des mots; que quoique chaque Art ait la sienne, cette langue est encore bien imparfaite; que c'est par l'extrême habitude de converser les uns avec les autres, que les ouvriers s'entendent, et beaucoup plus par le retour des conjonctures que par l'usage des termes.
Dans un attelier, c'est le moment qui parle, et non l'Artiste.
(Pisa.
17.
Dic.
1827.)
[4300]S'andrà schernendo il giovinetto altero Senz'altra (alcuna) pena l'amoroso foco, Chi sarà poi che 'l tuo schernito impero, Voto d'ogni timor non prenda in gioco? Alamanni, Favola di Narcisso, stanza 17.
(30.
Dic.
1827.
Domenica.).
Altronde per altrove.
Angelo di Costanzo, Sonetto 44.
Mancheran prima ec.
Avale-aguale.
Tallo-??????.
Frugare - Frugolare.
Malm.
racq.
10mo cantare, stanza 44.
Spruzzo - Spruzzolo.
Menzini, Satira 9.
verso 48.
Cosa curiosa, e notabile per chi vuol conoscere la storia, e dalla storia inferire il valore, delle opinioni degli uomini intorno ai diritti e ai doveri, si è che ne' secoli passati, i Negri erano creduti d'una origine e quindi d'una famiglia stessa co' bianchi, e pur quei medesimi che li tenevano per tali, sostenevano la ineguaglianza naturale di diritti tra i bianchi e loro, la inferiorità dei Negri, e la giustizia della loro servitù, anzi schiavitù ed oppressione: oggi i Negri sono conosciuti di origine, e però di famiglia, onninamente diversa dai bianchi, e quelli che gli hanno per tali, sostengono la loro uguaglianza sociale rispetto a noi, e la parità de' loro diritti, e la totale ingiustizia del farli schiavi, o maltrattarli, o dominarli, e l'assurdità dell'opinione antica in tal proposito.
(Pisa 14.
Gen.
1828.).
Alla p.4298.
Oh gente santa, Che non piscia lì dove vede impresso Segno di croce! Menzini, Sat.
9.
vers.56-8.
Al detto altrove di non pareil per senza pari, grecismo; e di pareil, parejo, apparecchiare ec.
diminutivi positivati ec.
aggiungi.
Chiabrera Canzonette, canzonetta 8va al Sig.
Luciano Borzone pittore (principio: Se di bella, che in Pindo alberga, musa) stanza 6 ed ult.
versi 50-54 ed ultimi.
Ah sciocchezza infinita Di qualunque sia core, E follia NON PARECCHIA! (senza pari) Pianger perchè si more, E non perchè s'invecchia.
(Pisa.
15.
Gennaio.
1828.).
Altronde per altrove.
Giusto de' Conti, Bella Mano, Canz.
2.
st.5.
Capit.4.
v.8.
[4301] Infamato per infame.
Id.
ib.
Capit.3.
v.88.
Dannata (per dannevole) vista, e di mirarsi indegna.
Chiabr.
Canz.
Cosmo, sì lungo stuol, lieto in sembianza.
v.25.
stanz.4.
v.1.
Patito.
Viso patito.
Uomo, cavallo, panno patito ec.
Si dice anche in Toscana.
Memorie della mia vita.
La privazione di ogni speranza, succeduta al mio primo ingresso nel mondo, appoco appoco fu causa di spegnere in me quasi ogni desiderio.
Ora, per le circostanze mutate, risorta la speranza, io mi trovo nella strana situazione di aver molta più speranza che desiderio, e più speranze che desiderii ec.
(Pisa.
19.
1828.)
V'è di quelli ostinati, Che per un blittri (della qual voce, derivata dal greco, dico altrove: vuol dire per un nulla) categorematico Lascerian stare la broda e 'l companatico.
Magalotti, Sonetto colla coda; che incomincia: Acciò conosca ognun quanto diverso.
vers.27-29.
Parla de' fanatici scolastici e peripatetici del suo tempo.
(Pisa.
22.
1828.)
Raperonzo - raperonzolo.
Cotogno - cotognolo.
V.
Crus.
??(???? - trebbiare, forse da tribulare, che forse è un frequentativo di un inusitato tribere da ??(????.
(Pisa.
28.
1828.)
E disse fra suo core: l'ho mal fatto.
Pulci Morg.
maggiore, XII.
28.
Disse Rinaldo: A te, sanza altre scorte, (nessuna scorta) Venuti siam per l'oscura foresta.
Ib.
canto 17.
st.35.
E disse fra suo cor: costui fia quello.
Ib.
c.22.
st.228.
Sottosopra fu buon sempre l'ardire: Ha la fortuna in odio un uom da poco, Ed è nimica de gli sbigottiti (soliti a sbigottirsi ec.).
Berni, Orl.
inn.
c.35.
st.3.
Oramai si può dire con verità, massime in Italia, che sono più di numero gli scrittori che i lettori (giacchè gran parte degli scrittori non legge, o legge men che non iscrive).
Quindi ancora si vegga che gloria si possa oggi sperare in letteratura.
In Italia si può dir che chi legge, non legge che per iscrivere; quindi non pensa che a se, ec.
(Pisa.
5.
Feb.
1828.)
[4302]Uno de' maggiori frutti che io mi propongo e spero da' miei versi, è che essi riscaldino la mia vecchiezza col calore della mia gioventù; è di assaporarli in quella età, e provar qualche reliquia de' miei sentimenti passati, messa quivi entro, per conservarla e darle durata, quasi in deposito; è di commuover me stesso in rileggerli, come spesso mi accade, e meglio che in leggere poesie d'altri: (Pisa.
15.
Apr.
1828.) oltre la rimembranza, il riflettere sopra quello ch'io fui, e paragonarmi meco medesimo; e in fine il piacere che si prova in gustare e apprezzare i propri lavori, e contemplare da se compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella al mondo; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui.
(Pisa.
15.
Feb.
ult.
Venerdì di Carnevale.
1828.)
Pelo matto, pasta matta ec.
-??(?????(?????.
Ciascuna stella negli occhi mi piove Della sua luce e della sua vertute.
Dante Rime, lib.2.
Ballata 3.
Io mi son pargoletta bella e nova.
(Pisa.
19.
Marzo Festa di S.
Giuseppe.
1828.)
?????(? - bombire.
A.
di Costanzo, Stor.
del R.
di Napoli, lib.6.
nella traduzione della lettera del Petrarca sopra il terremoto di Napoli.
(Pisa.
12.
Apr.
Sabato in Albis.
1828.).
V.
Crusca.
Prolato as.
M.
Newton avoit donné la solution de ce problême...; e M.
Fatio de Duillier venoit d'en publier une solution très embarassée...
M.
Bernoulli, effrayé des calculs de M.
Fatio, se mit à cercher par une autre voie le solide de la moindre résistance, et ne fut pas long-tems à le trouver.
Les grands Géometres connoissent certe éspece de paresse qui préfere la peine de découvrir une vérité à la contrainte peu agréable de la suivre dans l'ouvrage d'autrui; en général ils se lisent peu les uns les autres, (Nota.
Nous ne disons [4303]point qu'ils ne se lisent pas, mais qu'ils se lisent peu: en ce genre un coup d'oeil jetté sur un ouvrage suffit aux maîtres pour le juger.
Il n'en est pas de même en Littérature.) et peut-être perdroient-ils à lire beaucoup: une tête pleine d'idées empruntées n'a plus de place pour les siennes propres, et trop de lecture peut étouffer le génie au lieu de l'aider.
Si elle est plus nécessaire dans l'étude des Belles-Lettres que dans celle de la Géométrie, la différence de leurs objets er des qualités qu'elles exigent, en est sans doute la cause.
La Géométrie ne veut que découvrir des vérités, souvent difficiles à atteindre, mais faciles à reconnoître dès qu'on les a saisies; et elle ne demande pour cela qu'une justesse et une sagacité qui ne s'acquierent point.
Si elle n'arrive pas précisément à son but, elle le manque entièrement; mais tout moyen lui est bon pour y arriver; et chaque esprit a le sien, qu'il est en droit de croire le meilleur: au contraire, le mérite principal de l'éloquence et de la Poësie, consiste à exprimer et à peindre; et les talens naturels absolument nécessaires pour y réussir, ont encore besoin d'être éclairés par l'étude réfléchie des excellens modeles, et, pour ainsi dire, guidés par l'expérience de tous les siècles.
Quand on a lu une fois un problême de Newton, on a vu tout, ou l'on n'a rien vu, parce que la vérité s'y montre nue et sans réserve; mais quand on a lu et relu une page de Virgile ou de Bossuet, il y reste encore cent choses à voir.
Un bel esprit qui ne lit point, n'a pas moins à craindre de passer pour un écrivain ridicule, qu'un Géometre qui lit trop, de n'être jamais que médiocre.
D'Alembert, Éloge de M.
Jean Bernoulli.
[4304]Non si potrebbe dire della metafisica appresso a poco il medesimo che della Geometria, e così scusare chi in metafisica amasse più di pensare che di leggere; chi pretendesse di essere metafisico senz'aver letto o inteso Kant; chi si contentasse talvolta di conoscere i risultati e le conclusioni delle speculazioni e ragionamenti de' metafisici celebri, per poi trovarne da se stesso la dimostrazione, o convincersi della loro insussistenza? La metafisica ha colle matematiche non poche altre somiglianze: anche in metafisica una proposizione dipende spesso da una serie di proposizioni per modo ch'è impossibile vederne colla mente la dimostrazione tutta in un punto; e spesso chi è salito per questa serie fino a quell'ultima verità, ne acquista la convinzione, e ne vede allora perfettamente le ragioni, che d'indi a poco non saprebbe più rendere nemmeno a se stesso, benchè la convinzione gli duri.
Anche in metafisica, come in affari di calcolo, moltissime proposizioni e verità si credono sulla sola fede di chi ha fatto il lavoro necessario per iscoprirle e renderle certe; lavoro troppo lungo e difficile per essere rinnovato e rifatto, o seguito a passo a passo da altri, anche uomini della professione.
(Pisa.
17.
Aprile.
1828.)
- (Il cui genio (di Laplace) è per me come quei Veri che pochi veggono, ma che son creduti da tutti, perchè uno spirito superiore li vede e li mostra.
Daru, Risposta al discours de réception di Royer-Collard all'Accad.
Franc.
nell'Antologia di Firenze, n.86.
p.138.).
Alla p.4264.
De toutes les langues cultivées par les gens de lettres, l'italienne est la plus variée, la plus flexible, la plus susceptible des [4305]formes différentes qu'on veut lui donner.
Aussi n'est-elle pas moins riche en bonnes traductions, qu'en excellente musique vocale, qui n'est elle-même qu'une éspece de traduction.
D'Alembert, Observations sur l'art de traduire, premesse al suo Essai de traduction de quelques morceaux de Tacite.
Les taches qu'on peut faire disparoître en les effaçant, ne méritent presque pas ce nom; ce ne sont pas les fautes, c'est le froid qui tue les ouvrages; ils sont presque toujours plus défectueux par les choses qui n'y sont pas, que par celles que l'auteur y a mises.
Id.
ib.
(Pisa.
8.
Maggio.
1828.)
Alla p.4298.
fine.
In Pisa, su un canto della piazza dello Stellino, oltre la croce dipinta, v'è la leggenda: Rispetto alla Croce.
V.
p.4307.
Nous n'acquérons guere de connoissances nouvelles que pour nous désabuser de quelque illusion agréable, et nos lumieres sont presque toujours aux dépens de nos plaisirs.
D'Alembert, Réflexions sur l'usage et sur l'abus de la philosophie dans les matieres de goût, lues à l'Académie Françoise le 14 mars 1757.
E molte forti a Pluto alme d'eroi Spinse anzi tempo, abbandonando i corpi Preda a sbranarsi a' cani ed agli augelli.
Foscolo.
Molte anzi tempo all'Orco Generose travolse alme d'eroi, E di cani e d'augelli orrido pasto Lor salme abbandonò.
Monti.
E così gli altri.
Ma Omero dice le anime (???(?) ed essi (?(??(?), cioè gli eroi, non i loro corpi.
Differenza non piccola, e secondo me, non senza grande importanza a chi vuol conoscere veramente Omero, e i suoi tempi, e il loro modo di pensare.
Questa infedeltà, non di stile e di voci solo, ma di sostanza [4306]e di senso, nata dall'applicare alle parole d'Omero le opinioni contemporanee a' traduttori; questa infedeltà, dico, commessa nel primo principio del poema, anche da' traduttori più fedeli, dotti ed accurati, e in un caso in cui le parole son chiare e note, mostra quanto sia ancora imperfetta l'esegesi omerica (e in generale degli antichi), e quanto spesso si debba trovare ingannato, quanto spesso insufficientemente informato, chi per conoscere Omero, e gli antichi, e i loro tempi, costumi, opinioni ec.
si vale delle traduzioni sole, e fonda su di esse i suoi discorsi ec.
come per lo più i più eruditi francesi d'oggidì ec.
ec.
(Pisa.
10.
Maggio.
1828.
Sabato.)
Il est sans doute des lecteurs qui ne sont difficiles ni sur le fond ni sur le style de l'histoire; ce sont ceux dont l'ame froide et sans ressort, plus sujette au désoeuvrement qu'à l'ennui, n'a besoin ni d'être remuée, ni d'être instruite, mais seulement d'être assez occupée pour jouir en paix de son existence, ou plutôt, si on peut parler ainsi, pour la dépenser sans s'en appercevoir.
D'Alembert, Réflexions sur l'histoire.
I più degli oziosi sono piuttosto disoccupati che annoiati.
Si dice male che la noia è un mal comune.
La noia non è sentita che da quelli in cui lo spirito è qualche cosa.
Agli altri ogni insipida occupazione basta a tenerli contenti; e quando non hanno occupazione alcuna, non sentono la pena della noia.
Anche gli uomini sono, la più parte, come le bestie, che a non far nulla non si annoiano; come i cani, i quali ho ammirati e invidiati più volte, vedendoli passar le ore sdraiati, con un occhio sereno e tranquillo, che annunzia l'assenza della noia non meno che dei desiderii.
Quindi è, che se voi parlate della noia inevitabile [4307]della vita ec.
ec.
non siete inteso ec.
ec.
(Pisa.
15.
Maggio.
Ascensione.
1828.)
On peut dire en un sens de la Métaphysique que tout le monde la sait ou personne, ou pour parler plus exactement, que tout le monde ignore celle que tout le monde ne peut savoir.
Il en est des ouvrages de ce genre comme des pieces de théatre; l'impression est manquée quand elle n'est pas générale.
Le vrai en Métaphysique ressemble au vrai en matiere de goût; c'est un vrai dont tous les esprits ont le germe en eux-mêmes, auquel la plûpart ne font point d'attention, mais qu'ils réconnoissent dès qu'on le leur montre.
Il semble que tout ce qu'on apprend dans un bon livre de Métaphysique, ne soit qu'une éspece de réminiscence de ce que notre ame a déjà su; l'obscurité, quand il y en a, vient toujours de la faute de l'auteur, parce que la science qu'il se propose d'enseigner n'a point d'autre langue que la langue commune.
Aussi peut-on appliquer aux bons auteurs de Métaphysique ce qu'on a dit des bons écrivains, qu'il n'y a personne qui en les lisant, ne croie pouvoir en dire autant qu'eux.
D'Alembert, Essai sur les élémens de philosophie, article 6.
È facile il vedere che tutti questi periodi sono traduzioni l'uno dell'altro; ma la proposizione ch'essi contengono, è molto vera e notabile.
(Pisa.
19.
Maggio.
1828.)
Alla p.4305.
Pietro Aretino dice in una delle sue commedie: un cavalier senz'entrata è un muro senza croci, scompisciato da ognuno.
[4308]Ginguené, t.6.
p.229.
not.
(Pisa.
19.
Maggio.
1828.)
Corpusculum per corpus.
M.
Aurelio in Frontone (ad Marcum Caesarem et invicem, lib.5.
ep.47.
55.
ed.
Rom.
1823.
p.135-37.).
Notisi che M.
Aurelio era stoico.
Expergitus per experrectus.
Fronto Princip.
histor.
ed.
Rom.
p.319.
v.9.
Arcus intenditus per intentus.
Ib.
De Feriis alsiensibus, ep.3.
p.208.
v.15.
Il codice frontoniano ha dilibutus, e 3 volte dilectus per delibutus e delectus.
Così noi dilicato, e di preposiz.
per de.
Al che spettano que' verbi latini digredior, diverto, diminuo, distillo, distringo, divello (e simili): tutti i quali nel detto codice si trovano scritti per de.
M.
Aurelio nelle lett.
a Frontone chiama costantemente Faustina sua moglie, domina mea (la mia donna).
V.
il luogo di Epitteto di cui altrove.
Leggendo la curiosa lettera di Vero a Frontone (ad Ver.
imp.
ep.3.
ed.
Rom.) in cui lo prega di scrivere la storia delle gesta di esso Vero nella guerra partica, mi par proprio di leggere una lettera di qualche moderno scrittore a un giornalista sopra qualche sua opera.
Lo stesso amor proprio, esagerazione, noncuranza del vero ec.
E in verità quella lettera (v.
anche quella di Cic.
a Lucceio) ci mostra quanto dobbiamo fidarci di storie, anche contemporanee.
Ma che differenza tra gli antichi e i moderni ancor qui! Questi raccomandano 1.
delle operucce, 2.
a un giornalista, 3.
per un articolo; quelli 1.
de' fatti militari o civili, 2.
a uomini famosi, 3.
per una storia ec.
ec.
La lett.
di Vero è senza niuna diversità nell'ediz.
milanese e meriterebbe di esser citata tradotta.
(Firenze.
21.
Giugno, anniversario del mio primo arrivo a Firenze.
1828.)
[4309]Tanto è vero che tra gli antichi la prima lode era quella della felicità, che noi vediamo nelle Orazioni funebri, e in simili casi, gli Oratori dovendo lodare, p.e.
de' soldati morti per la patria, cominciar dal mostrare che essi non sono stati infelici, che la loro morte non è stata una sventura.
Oggi al contrario: si cercherebbe d'intenerir gli uditori sopra il loro caso: il muover la compassione in tali circostanze era cosa al tutto ignota, era un vero controsenso presso gli antichi.
Le loro Oraz.
fun.
sono tutte consolatorie.
Dionigi D'Alic.
nei giudizi sopra gli scrittori antichi biasima Tucidide per aver preso un argomento di storia che conteneva le sventure della sua patria (Atene), e loda al paragone Erodoto per aver preso a tema le vittorie de' greci sui barbari.
Anche nelle storie questi rispetti, e a' tempi di Dionigi.
(Firenze 29.
Giugno, dì di S.
Pietro, e mio natalizio.
1828.)
Solone appo Erodoto 1.
c.32.
parlando a Creso della costui prosperità chiama la divinità invidiosa ?????(????(??((? (cioè (????????(?).
(29.
Giu.
1828.)
Paul-Louis Courier, Lettre à M.
Renouard, libraire, sur une tache faite à un manuscrit de Florence, parlando del Longo di Amyot, da lui corretto nei luoghi dove la traduzione non rispondeva al testo, e supplito colla traduzione nuova del frammento fiorentino: Mais ce n'est pas seulement le grec et le français qui m'ont servi à terminer cette belle copie (la traduzione d'Amyot), après avoir si heureusement [4310]rétabli l'original (cioè completato il testo colla scoperta del supplemento fiorentino); ce sont encore plus les bons auteurs italiens, d'où j'ai tiré (per questo lavoro) plus que des nôtres, et qui sont la vraie source des beautés d'Amyot; car il fallait, pour retoucher et finir le travail d'Amyot, la réunion assez rare des trois langues qu'il possédait et qui ont formé son style.
(Fir.
30.
Giug.
1828.)
Una donna di 20, 25 o 30 anni ha forse più d'attraits, più d'illecebre, ed è più atta a ispirare, e maggiormente a mantenere, una passione.
Così almeno è paruto a me sempre, anche nella primissima gioventù: così anche ad altri che se ne intendono (M.
Merle).
Ma veramente una giovane dai 16 ai 18 anni ha nel suo viso, ne' suoi moti, nelle sue voci, salti ec.
un non so che di divino, che niente può agguagliare.
Qualunque sia il suo carattere, il suo gusto; allegra o malinconica, capricciosa o grave, vivace o modesta; quel fiore purissimo, intatto, freschissimo di gioventù, quella speranza vergine, incolume che gli si legge nel viso e negli atti, o che voi nel guardarla concepite in lei e per lei; quell'aria d'innocenza, d'ignoranza completa del male, delle sventure, de' patimenti; quel fiore insomma, quel primissimo fior della vita; tutte queste cose, anche senza innamorarvi, anche senza interessarvi, fanno in voi un'impressione così viva, così profonda, così ineffabile, che voi non vi saziate di guardar quel viso, ed io non conosco cosa che più di questa sia capace di elevarci l'anima, di trasportarci in un altro mondo, di darci un'idea d'angeli, di paradiso, di divinità, di felicità.
Tutto [4311]questo, ripeto, senza innamorarci, cioè senza muoverci desiderio di posseder quell'oggetto.
La stessa divinità che noi vi scorgiamo, ce ne rende in certo modo alieni, ce lo fa riguardar come di una sfera diversa e superiore alla nostra, a cui non possiamo aspirare.
Laddove in quelle altre donne troviamo più umanità, più somiglianza con noi; quindi più inclinazione in noi verso loro, e più ardire di desiderare una corrispondenza seco.
Del resto se a quel che ho detto, nel vedere e contemplare una giovane di 16 o 18 anni, si aggiunga il pensiero dei patimenti che l'aspettano, delle sventure che vanno ad oscurare e a spegner ben tosto quella pura gioia, della vanità di quelle care speranze, della indicibile fugacità di quel fiore, di quello stato, di quelle bellezze; si aggiunga il ritorno sopra noi medesimi; e quindi un sentimento di compassione per quell'angelo di felicità, per noi medesimi, per la sorte umana, per la vita, (tutte cose che non possono mancar di venire alla mente), ne segue un affetto il più vago e il più sublime che possa immaginarsi.
(Fir.
30.
Giu.
1828.)
DANSKE FOLKEEVENTYR.
Contes populaires des Danois; recueillis per M.
Winther.
1re part.; Copenhague; 1823.
Récemment M.
Thiele a publié 2 volumes de traditions et croyances populaires des Danois.
Le recueil de M.
Winther est à peu près du même genre.
L'auteur a recueilli les contes qui amusent le paysan pendant les longues soirées d'hiver; il est assez remarquable que les Danois se soient appropriés de bonne heure les contes et [4312]fables des anciens, en transportant la scène sur leur territoire; c'est ainsi que le héros du conte d'Apulée, l'Âne d'or, est devenu un bondekard, ou jeune paysan danois, sous le nom de Hans: le principal personnage de la fable d'Amour et Psyché s'est transformé en prince Hvidbjaern (ae) dans lequel les Grecs auraient de la peine à reconnaître leur Amour.
Les contes des Fées qui, dans l'ouvrage de Perrault, ont presque tous un caractère français, deviennent également danois sur les bords de la Baltique: Cendrillon est transformée en Kokketoes (oe), etc.
D-G.
(Depping).
Bulletin Universel des sciences et de l'industrie, publié sous la direction de M.
le B.on de Férussac.
7me Section.
Bulletin des sciences historiques, antiquités, philologie.
1re année; 1824; Avril.
tome 1r article 241.
p.209-10.
(Firenze.
23.
Luglio.
1828.)
M.
Bredsdorff (Om Rune skriften oprindelse.
i.e.
Sur l'origine des caractères runiques; par Jacq.
Hornemann Bredsdorff.
In-4.
19 pag.
Copenhague 1822.) pense que l'alphabet runique est dérivé de l'alphabet moesogothique (oe), dont on attribue l'invention à l'evêque Ulphilas, qui s'en servit pour écrire sa traduction du Nouveau-Testament, au 4e siècle.
Bulletin de Férussac, lieu cité ci-dessus, art.243.
244.
p.211.
(23.
Luglio.
1828.).
V.
p.4362.
De invidia, diis ab Herodoto et aequalibus attributa, pauca commentatus est P.
M"ller.
31.
p.
In-4.
Copenhague.
Bulletin de Férussac, l.c.
art.279.
p.240.
(24.
Luglio.
1828.)
Da applicarsi alle mie riflessioni sopra Omero e l'epopea.
[4313]Avant de passer aux ouvrages d'Homère, l'auteur (Ideen über Homer, etc.
Idées sur Homère et sur son époque; par C.
E.
Schubarth.
In-8° de 364 pag.; Breslau; 1821.) dépeint (p.108-134.) le caractère et les moeurs des deux nations qui combattent devant Troie.
Il résulte de ce parallèle que les Grecs ont tous les vices des peuples sauvages; ils cédent a toutes les impulsions; la violence, l'indiscipline, les terreurs superstitieuses règnent dans leur camp.
Ce n'est pas parmi eux, c'est chez les Troyens, que l'on trouve l'ordre, l'union, l'amour de la patrie, et ces sentimens généreux, qui font croire à une civilisation naissante, ou même déjà avancée.
C'est sous ce point de vue, qui est conforme à ce que nous lisons dans Homère, que M.
Schubarth envisage l'Odyssée et l'Iliade.
Dans l'Iliade, Homère a chanté une guerre qui doit se terminer par la destruction de Troie, mais dont l'auteur laisse à peine entrevoir l'issue funeste placée avec art dans une perspective vague et lointaine.
L'Odyssée retrace les suites malheureuses de cetre lutte.
Les Troyens sont pour le lecteur l'objet d'une tendre pitié et de ce sentiment d'admiration, que font naître les actions nobles et généreuses, le patriotisme et le dévouement; toutefois ils doivent succomber après dix ans d'une défense héroïque, car ils sont inférieurs en nombre, et le Destin leur est contraire.
Par opposition à certe peinture, Homère nous montre les Grecs animés d'un esprit de vengeance, vains, présomptueux, en proie à la discorde, toujours prêts à abuser de leur force.
Le sort veut la ruine de Troie, et les Troyens supportent avec résignation ce malheur, [4314]qu'ils n'ont pas mérité, mais que les dieux leur envoient; tandis que les Grecs ne doivent qu'à eux-mêmes, à leur propres fautes, aux vices grossiers auxquels ils s'abandonnent, les justes punitions que ces mêmes dieux leur infligent.
C'est par des inductions semblable que M.
Schubarth (p.139-238.), s'ecartant de l'opinion reçue, essaie de démontrer que l'auteur des deux épopées grecques est né sur le sol de Troie (cioè dov'era stata Troia).
Il faut convenir, en effet, que le poëte (car M.
Schubarth n'admet pas avec Wolf que l'Iliade et l'Odyssée soient des productions dues à plusieurs rhapsodes), s'il eût été Ionien, aurait choisi pour la première de ses épopées un sujet bien étrange, bien peu propre à flatter les Grecs, auxquels il n'accorde d'autres avantages que ceux qui naissent de la supériorité des forces physiques.
Tant que dure la guerre, la discorde les divise, et ils ne déploient d'autre vertu que leur courage; mais ce courage est sauvage et vindicatif.
Sortis enfin victorieux de la lutte, c'est par de nouveaux désordres et de sanglantes querelles qu'ils signalent ce retour à la paix.
Il est très-remarquable que le poëte ait interrompu son chant au moment même où il n'aurait pu éviter de parler de la prise de la ville, et de tracer le tableau de sa destruction.
Est-il vraisemblable qu'il se fût arrêté si brusquement, et eût négligé de célébrer un événement favorable aux Grecs, s'il s'avait eu à coeur de faire [4315]oublier aux Troyens, ses compatriotes, l'instant malheureux de leur chute?277 On voit partout, dans l'Odyssée comme dans l'Iliade, que le poëte porte de l'affection aux Troyens.
Énée, roi futur de Troie, ce héros favorisé des dieux, est sauvé par Neptune, le plus puissant dieu des Grecs.
Leur plus dangereux ennemi, Hector, est peint sous des couleurs toujours favorables.
Hector a le sentiment de la justice de sa cause; il n'est pas même soutenu par l'espoir du succès; mais il est pénétré de ses devoirs envers la patrie; il s'arrache aux affections les plus tendres, et s'immole sans hésiter.
Sa mort est une expiation volontaire d'un seul instant d'oubli, d'une faute qui n'est pas la sienne.
Mais les dieux, qui l'ont mal récompensé pendant sa vie, viennent eux-mêmes assister à ses funérailles, tandis qu'Achille vainqueur est tourmenté du pressentiment et des angoisses d'une mort prochaine.
Les bornes de ce journal ne nous permettent pas de donner plus d'étendue à cette analyse.
Nous ne pouvons qu'engager nos lecteurs à lire dans l'ouvrage même ce que dit M.
Schubarth pour appuyer une hypothèse qui nous paraît admissible, et qu'il développe avec un talent remarquable.
(Cavato e tradotto dall'Jena.
allg.
Lit.
Zeit.
Gazzetta letteraria di Iena, Settemb.
1823.).
Bulletin de Férussac, ec.
loc.
sup.
cit.
Juillet.
tome 2.
art.54.
p.45-47.
Dalle mie riflessioni sopra Omero ec.
si vede quanto male dai costumi [4316]fieri e selvaggi, dallo spirito di vendetta, dai vantaggi puramente fisici attribuiti da Omero ai Greci, e dalla compassione attaccata alla sorte dei Troiani, si arguisca che l'Iliade e l'Odissea furono composti in ispirito troiano e non greco, e quindi apparentemente per li Troiani, o nati sul suolo troiano, e non per li Greci di Jonia.
Anzi si vede che appunto da queste cose medesime si dee concludere il contrario.
(24 6.
Lug.
1828.).
V.
p.4447.
Da applicarsi pure alle mie riflessioni sopra Omero e l'epopea.
Homerische Vorschule, etc.
Introduction à l'étude de l'Iliade et de l'Odyssée; par W.
Müller.
192.
p.
in 8.
Leipzig; 1824.
Élève du philologue Wolf, M.
Müller annonce dans la préface qu'il est intimement persuadé de la vérité et de la solidité des opinions développées par son maître dans ses fameux Prolégomènes de l'Iliade, et qu'ayant médité sur ce sujet après avoir suivi les cours de Wolf, il croit devoir présenter une suite de considérations que cette matière lui a suggérées.
Il avertit, en passant, le public de se mettre en garde contre les hypothèses trop hasardées que quelques savans cherchent à faire accréditer; il rappelle notamment les opinions de Payne Knight, savant anglais, mort récemment, et de Bernard Thiersch, qui n'est pas l'auteur de la Grammaire grecque publiée par M.
Thiersch à Munich.
M.
Müller s'étonne que la nouvelle société littéraire de Londres ait couronné récemment un mémoire dans lequel on fait d'Homère le copiste de Moïse.
(Dissertation on the age of Homer, his writings and bis genius.
Londres; 1823.).
[4317]Pour bien comprendre la manière dont l'Iliade et l'Odyssée ont été composées, il faut se pénétrer de l'esprit et des moeurs du peuple ionien.
Ces colons grecs, amis des arts et de la poésie, avaient l'esprit vif et mobile, et s'interessaient avec la candeur de l'enfance aux événemens.
Un poëte était chez eux le compagnon constant de tous les plaisirs.
Partout où l'on se rassemblait, dans les banquets comme dans les assemblées publiques, la lyre du poëte faisait partie des réjouissances.
Le poëte, ainsi que le ménestrel au moyen âge, exerçait un état généralement honoré, et était accueilli avec hospitalité partout où il faisait résonner sa lyre.
Il ne chantait sans doute que ses inspirations particulières, qui souvent étaient des improvisations.
(I menestrelli cantavano ben cose d'altri, e non solo d'altri, ma scritte espressamente dai dotti del tempo, in versi, per esser cantati o recitati da quelli.
V.
l'articolo del Perticari sopra il poemetto della Passione di Cristo attribuito al Boccaccio.) Ces morceaux n'étaient probablement pas très-longs, car dans les usages anciens nous ne voyons jamais les chants du poëte que comme des intermèdes.
(Quando il poeta o il cantore cantava nelle piazze ec.
in mezzo al popolo, come s'usa anche oggi, come a Napoli un del volgo legge alla plebe il Furioso o il Ricciardetto ec.
e lo spiega in napoletano; allora i canti non erano intermezzi, erano come furon poi gli spettacoli ed acroamata.)278 La guerre de Troie, qui, sous tous les rapports, était un sujet propre à la poésie, était à peine finie, que dans les villes d'Ionie la lyre accompagnait déjà les vers composés sur cet événement [4318]national.
Homère se distinguait parmi eux; mais il est évident qu'avant ce poëte l'usage des chants lyriques sur les événements publiques existait, et qu'il n'a point été le premier chantre national.
(Femio, Demodoco ec.) Le rhythme de sa poésie prouve que ses vers étaient chantés et accompagnés de la lyre, peut-être aussi de la danse, du moins de mouvemens rhythmiques.
(Il nome di (??, di epico, di epopea, di (?????(? applicato con particolarità ai versi, poemi, e poeti narrativi, prova, secondo me, sì per la sua etimologia, o senso primitivo, di parola ((???), dire ((?????(??) ec., sì per la distinzione da ?(?????????(??????????(? ec.
che le poesie narrative non avevano alcuna melodia, non erano cantate ma recitate, o al più cantate a recitativo, come poi i versi non lirici de' drammi, e come si canterebbero i nostri endecasillabi sciolti.
Il verso epico (quasi parlativo) era la prosa di que' tempi, ne' quali non si componeva se non in versi.
Omero, dice assai bene il Courier, nella pref.
al Saggio di traduz.
di Erodoto, fu uno storico, a que' tempi che le storie non si solevano nè sapevano ancora narrare in prosa.
Non credo dunque ben dette liriche le sue poesie, sebben forse accompagnate da qualche strumento, come i recitativi de' drammi.
V.
p.4328.
capoverso 1.
e p.4390.
fin.).
Il est ridicule de chercher dans les poësies homériques de savantes allégories et un sens profond: les poëtes ioniens rendaient naturellement les impressions faites sur leur imagination par les actions des héros, et ne se livraient point à des combinaisons étudiées; c'est la vie publique et particulière de leur temps qu'ils nous retracent et rien de plus.
Ils n'écrivaient point, ils chantaient, et leurs inspirations [4319]se transmettaient par la tradition comme chez des peuples modernes à moitié barbares.
(Le conseiller aulique Thiersch a lu ensuite (à la séance publique de la classe de philologie et d'histoire, de l'Académie des sciences de Munich, le 14 août, 1824.) un mémoire sur les poésies épiques transmises de bouche en bouche par le peuple.
Ce qui a donné lieu à ce mémoire, c'est un écrit du professeur Vater à Halle, sur les longues poésies héroïques serviennes récemment publiées, et comparées à celles d'Homère et d'Ossian.
Bull.
de Férussac etc.
Novemb.
1824.
t.2.
art.302.
p.321.) (V.
p.4336.
fine.)
On a voulu voir un art savant dans les divers dialectes qui se trouvent dans Homère.
Ce prétendu mélange des dialectes n'est point l'ouvrage du chantre: de son temps les Ioniens parlaient ainsi, et ce n'est que plus tard que la langue grecque se modifia, et que diverses provinces telles que l'Éolie, l'Ionie et la Doride conservèrent des restes de l'ancien idiome, restes qui alors furent considérés comme autant de dialectes divers.
Il paraît qu' Homère a vécu au 2e siècle après la destruction de Troie.
L'éclat de son génie a fait oublier les noms des autres poëtes qui chantaient comme lui les hauts-faits des Grecs.
Mais sans doute il a chanté comme eux des chants lyriques détachés, et il n'a probablement jamais songé à composer un poëme épique, et encore moins à en écrire un.
De là ce qu'on dit de sa cécité et de son indigence, il aura passé dans la suite pour aveugle parce qu'il n'avait rien écrit; il aura passé pour indigent parce qu'il allait d'une ville a l'autre.
Après sa mort, la réputation de ses chants alla toujours en [4320]croissant; les poëtes, perdant d'ailleurs le génie inventif, chantèrent les poésies d'Homère; il y eut alors des homérides.
Pour flatter la vanité des villes dans lesquelles ils chantaient, ils intercalaient dans ces vers de leur prédécesseur, des éloges de villes et de peuples.
On prétend que Lycurgue fut le premier qui fit rassembler et rédiger les poésies d'Homère.
Mais ce législateur qui ne fit pas écrire ses propres lois, comment se serait-il occupé à faire écrire des vers dans Sparte ville pauvre et grossière? Solon régla l'ordre dans lequel les chantres dans les fêtes publiques (in queste, tali poésie non erano, apparemment, intermezzi, tanto più se si cantavano in ordine) devaient chanter les diverses poésies homériques, et Pisistrate les fit diviser ensuite en deux grands poëmes, l'Iliade et l'Odyssée.
Aristarque les subdivisa en 24 livres d'après le nombre des lettres de l'alphabet grec.
Alors se présenta une classe d'hommes, les diaskeuastes, espèce de censeurs ou de critiques qui cherchèrent à mettre de l'harmonie et de l'accord dans ces chants ainsi réunis et coordonnés; ils lièrent des parties détachées, levèrent des contradictions, supprimèrent des vers, des passages interpolés, etc.
Mais ce travail ne fut pas fait avec assez d'art pour qu'on ne découvre des traces de leurs soudures; et leur jugement ne fut pas toujours assez sain pour qu'ils sussent distinguer ce qui appartenait à Homère d'avec les interpolations de ses successeurs.
À l'exemple de Wolf, M.
Müller signale plusieurs passages qui paraissent prouver que l'Iliade et l'Odyssée [4321]n'avaient point cette unité que ces poëmes presentent aujourd'hui, et qu'ils n'étaient dans l'origine que des chants lyriques détachés.
Cependant Aristote ne les considéra que sous la forme qu'on leur avait donnée à Athènes, et célébra Homère comme poëte épique.
Depuis, on ne vit plus dans l'Iliade et l'Odyssée que deux poëmes épiques.
Assurément il règne une sorte d'unité dans chacun de ces deux poëmes; mais c'est la même qu'on trouve, par exemple, dans les romances espagnoles sur le Cid, lorsqu'on les lit de suite.
Dans l'Odyssée on pourrait enlever les 4 premiers chants et la moitié du 15e sans nullement faire tort à la marche de l'action; c'est que le poëte ne les vivait jamais reunis et n'avait jamais pensé faire un grand poëme.
D'un autre côté l'Iliade et l'Odyssée ont des lacunes que les diaskeuastes n'ont pas été capables de cacher.
Dans l'Iliade le 1er et le 5e chants commencent par les mêmes récits: dans le 5e les événemens sont racontés comme si le poëte n'en avait jamais parlé.
Les débuts des deux poëmes paraissent avoir été ajoutés par les diaskeuastes.
Suivant l'usage de l'ancien temps, les homérides faisaient précéder leurs chants d'une invocation religieuse.
Ce sont-là les prétendus hymnes homériques qui n'ont de commun avec le grand poëte que d'avoir été chantés pour le début de ses morceaux liriques.
D.
G.
(Depping.) Bulletin de Férussac, loc.
cit.
alla p.4312.
Octobre, 1824.
tome 2.
art.239.
p.231-234.
In questa ipotesi, che è quasi una transazione coll'opinion comune, poichè riconosce l'esistenza di Omero, ed ammette in qualche modo [4322]l'unità di autore dell'Iliade e dell'Odissea, a differenza di Wolf che attribuisce quei poemi a vari autori, e di B.
Constant, che li attribuisce a due; io ammetto assai volentieri che Omero, non avendo nessuna idea di quello che fu poi chiamato poema epico, nè anche avesse alcun piano o intenzione di comporne uno, cioè di fare una lunga poesia che avesse un principio, mezzo e fine corrispondenti, che formasse un tutto rispondente ad un certo disegno, che avesse una qualunque circoscritta e determinata unità.
Credo che incominciasse le sue narrazioni dove ben gli parve, le continuasse indefinitamente senza proporsi una meta, le terminasse quando fu sazio di cantare, senza immaginarsi di esser giunto a uno scopo, senza intender di dare una conclusione al suo canto, nè di aver esaurita la materia o de' fatti, o del suo piano, che nessuno egli n'ebbe.
Aggiungo che credo ancora che i suoi versi fossero ritmici, non metrici, fatti cioè ad un certo suono, non ad una regolata e costante misura; alla quale (mediante però l'ammissione di quelle loro infinite irregolarità ed anomalie, che furono chiamate e si chiamano eccezioni, licenze, ed ancora regole) fossero ridotti in séguito dai diascheuasti ec.
Così è probabile che originalmente e nell'intenzione dell'autore fossero ritmici i versi di Dante, ridotti poi per lo più metrici nello stesso secolo, 14°.
E così, come ha provato un loro dotto editore, il Dott.
Nott, che mi ha eruditamente parlato di questa materia, furono puramente ritmici i versi dell'inglese Chaucer.
Lo furono ancora certamente quelli de' più antichi verseggiatori nostri, provenzali, spagnuoli, francesi.
V.
p.4334.4362.
[4323]Ma quello in cui la mia ragione non può trovare una probabilità, non solo nel caso di Omero, ma nè anche in quelli di Ossian e di qualunque altro si possa addurre in proposito, è che dei canti, certo in ogni modo assai lunghi, improvvisati p.e.
a un convito o ad una festa pubblica, in mezzo a gente ubbriaca o dal vino o dalla gioia ec., da un poeta, forse ancor esso ?( ?(???????in quel momento, e ciò in un secolo privo di stenografi e di tachigrafi; dei canti che, secondo ogni verisimiglianza, dovevano esser dimenticati dal poeta stesso un momento dopo, anzi di mano in mano che li proferiva; si sieno, non solo quanto al soggetto, ma quanto alle parole, conservati nella memoria semplice degli ascoltanti in maniera, che trasmessi poi fedelmente di bocca in bocca per più secoli, distinti ben bene ne' loro versi (ritmici o metrici poco vale), ora dopo 30 secoli si leggano begli e stampati in milioni d'esemplari, che li conserveranno ai futuri secoli in perpetuo.
Apparentemente il Müller, che pone Omero nel secondo secolo dalla guerra troiana, (v.
p.4330.
capoverso 3.) non riconosce nelle cose e nelle parole dell'Iliade e dell'Odissea, quei segni di avanzatissima civiltà e letteratura ionica o greca, che a tanti altri (come ultimamente a G.
Capponi) sono sembrati così evidentissimi, certissimi ed innumerabili.
Altrimenti come si potrebbe credere che quei poemi, da Omero o da altri, non fossero scritti subito? che l'uso della scrittura fosse ignoto o sì scarso in una letteratura e civiltà innoltratissima? come supporre sopra tutto una fiorente letteratura non scritta?
Ma se il Müller vuol persuadermi che i poemi d'Omero non [4324]fossero scritti (al che non farò resistenza, tanto più che è conforme alla tradizione ricevuta fra gli antichi stessi, a quel che si dice di Licurgo ec.), mi trovi qualche altro mezzo probabile di trasmissione e conservazione fuori della scrittura non mi parli d'inspirazioni e d'improvvisazioni; mi dica almeno che Omero prima di cantare i suoi versi, li componeva; che li cantava poi più e più volte (a diversi uditorii, o in varie occasioni), colle stesse parole, e quali gli aveva composti e cantati; che gl'insegnava ad altre persone, fossero del volgo, o fossero cantori e genti del mestiere, che solessero impararne da altri, non sapendo farne del loro, e col cantarli si guadagnassero il vitto.
Allora, considerata anche la superiorità della memoria avanti l'uso della scrittura, superiorità affermata da Platone (Teeteto e Fedro) e confermata dall'esperienza e dal raziocinio, troverò verisimile la conservazione di canti non scritti, sieno d'Omero o de' Bardi ec.
Ma posto che Omero componesse veramente e meditatamente i suoi canti, in modo da ricordarsene esso poi sempre, e da insegnarli altrui, allora, esclusa anche ogn'idea di piano, non sarà poi fuor di luogo il supporre tra questi canti una certa tal qual relazione; il pensare che Omero nel compor gli uni, si ricordasse degli altri che aveva composti, e intendesse di continuarli, o vogliamo dire, di continuare la narrazione, senza (torno a dire) tendere perciò ad una meta.
Anzi questa supposizione è più che naturale, trattandosi di canti che hanno un argomento comune: è certo che Omero nel compor gli uni di mano in mano, si ricordava de' precedenti.
E non è egli verisimile che li cantasse sovente tutti ad uno [4325]stesso uditorio, oggi un canto, domani un altro? che l'uditorio s'invogliasse di ascoltar domani la continuazione della storia d'oggi? (ricordiamoci che allora non v'erano altre storie che in versi) che Omero nel cantare i suoi diversi componimenti seguisse un ordine, quello de' fatti? (sia il medesimo o altro da quello che si trova oggi ne' suoi poemi) che seguisse anche quest'ordine nel comporli, cioè, che dopo aver cominciato dove il caso volle, andasse avanti immaginando e narrando, soggiungendo oggi al racconto di ieri, senza (ripeto ancora) mirar mai ad altro, che a tirare innanzi la narrazione?
Così sarà spiegata plausibilmente quella tal quale unità, quanto si voglia larga, ma sempre unità, che si trova ne' suoi poemi, e massime nell'Odissea, nella quale bisogna pur convenire che è ben difficile il non riconoscere un legame qualunque tra le parti, una continuità nel racconto, un insieme, ed anche un principio e fine, nelle avventure romanzesche di quell'eroe.
Ed osservo di più, che nell'uno e nell'altro poema, ma più nell'Iliade, moltissimi sono quei tratti di considerabile lunghezza, ai quali non si potrebbe mai dare un titolo a parte, che non fosse frivolo; staccati dal rimanente, non hanno nessuna ragionevole importanza, e riuscirebbero noiosissimi; essi non possono interessare che dipendentemente dalla relazione e connessione che hanno col resto del racconto, come accade ne' poemi scritti con piano determinato; e in se stessi non offrono un argomento che potesse mai parer degno d'esser cantato isolatamente.
Questi tratti sono troppo numerosi, troppo lunghi, e formano troppo gran parte [4326]de' due poemi, perchè si possano credere interpolati appostatamente da' diascheuasti per mettere de la liaison tra i canti di Omero.
Le ripetizioni, le cose inutili, le contraddizioni, oltre che a niuno potrebbero far meraviglia in poemi fatti, com'io dico, senza intenzione e senza piano, non annunziano che l'infanzia dell'arte, e non possono parere obbiezioni valevoli, anzi appena obbiezioni, a chi ha pratica e familiarità cogli scrittori antichi; dico assai meno antichi, assai più artifiziosi e dotti che non fu Omero; dico non solo poeti, ma prosatori.
Quanto, e come spesso, debbono sudar gli eruditi commentatori per conciliare e por d'accordo seco stesso p.e.
qualche antico storico, la cui opera fu certamente scritta, e con piano, e con materiali di fatti scritti da altri, o conservati da tradizione! V.
p.4330.
L'infanzia dell'arte in Omero, è annunziata ancora p.e.
dalla sterile soprabbondanza degli epiteti, usati fuor di luogo, senza causa o proposito, e spessissimo, com'è noto, a sproposito.
Lo stesso per l'appunto fanno i fanciulli quando scrivono i loro esercizi di rettorica: essi non sono mai semplici, anzi più lontani che alcun altro dalla semplicità.
Così la maniera di Omero ha una certa naturalezza, ma non semplicità.
Quella era effetto del tempo, non dell'autore: i fanciulli non l'hanno, perchè hanno letto, hanno che imitare, ed imitano.
Ma la semplicità, come ho detto e sviluppato altrove, è sempre effetto dell'arte; sempre opera dell'autore e non del tempo.
Chi scrive senz'arte, non è semplice.
Omero anzi cercava tutt'altro che il semplice, cercava l'ornato, e quella sua naturalezza che noi sentiamo, fu contro sua voglia.
I poeti greci posteriori hanno abbondanza di epiteti per imitazione di Omero: i più antichi però ne hanno meno, e più a proposito.
V.
p.4328.
capoverso 2., e la pag.4350.
fin.
[4327]Questa mia ipotesi, come si vede, sarebbe una nuova transazione fra l'opinione di Wolf e di Müller, e la comune.
Secondo ambe le ipotesi, la mia e quella de' due tedeschi, Omero sarebbe stato poeta epico senza volerlo; e sarebbe interessante e curioso il notare il modo della nascita del genere epico, nascita che verrebbe ad essere immaginaria, e pur questa semplice immaginazione avrebbe dato luogo ai lavori epici in che hanno speso la vita eccellentissimi ingegni, come Virgilio e il Tasso: non sarebbe questo il solo caso ridicolo che sarebbe stato originato dalla inclinazione dell'uomo a imitare, ed a sottomettere a regole e a forme il proprio genio.
Del resto, ammessa la mia ipotesi, riman sempre luogo a qualche degna lode dell'arte di Omero per l'effetto dell'insieme dell'Iliade, benchè composta senza piano preliminare; l'effetto, dico, osservato nelle mie riflessioni sul poema epico.
Ammessa però, in vece, l'ipotesi di Wolf o di Müller, tutta la lode sarà dovuta al solo caso, e risulterà dalle predette mie riflessioni che il caso è molto meglio riuscito nel formare e ordinare un corpo di poema epico, che l'arte de' successori.
E al caso si attribuiranno quelle lodi che io ho date all'arte di Omero per l'insieme del suo poema.
Altra circostanza umiliante per lo spirito umano.
(Firenze.
26 31.
Luglio.
1828.).
V.
p.4354.
fine.
C'est par Aristote que commencent les écrivains qui emploient ce qu'on appelle le dialecte commun (??(???????????(), et Démosthène lui-même n'est plus aussi pur (così puro scrittore attico) que Xénophon et Platon.
Bull.
de Féruss.
loco cit.
alla p.4312.
Juillet, 1824.
t.2.
art.13.
p.12.
[4328]Sui pretesi dialetti d'Omero, v.
la p.4319.
capoverso 1.
(Fir.
31.
Lugl.
1828.)
Alla p.4318.
Infatti Femio e Demodoco nell'Odissea cantano i loro versi narrativi accompagnandosi colla lira.
Del resto queste mie osservazioni tendono a rivendicar come antica la differenza ora e da gran tempo riconosciuta fra le poesie lodative, passionate ec.
dette liriche, meliche ec.
e le narrative, dette epiche.
(31.
Lug.
1828.)
Alla p.4326.
La mancanza dell'arte necessaria per ottenere il semplice, fu una delle cause che ritardarono nella letteratura greca, già ricca di versi, la produzione di buone prose.
Chi non voleva scriver plebeo, chi non era affatto ignorante, sapeva scrivere ornatamente (come sta bene in poesia), ma non (come vuolsi alla prosa) pianamente.
La lingua de' numi, dice il Courier (pref.
al Sag.
dell'Erodoto), era benissimo posseduta, mentre la lingua degli uomini non si sapeva ancora usare.
I primi saggi di prosa greca, come quelli di Ecateo Milesio e di Ferecide, peccano principalmente, come osserva esso Courier, per il poetico che hanno, anche nella dizione.
Lo stile riusciva gonfio, non se ne sapevano guardare: in poesia si trovavan più a loro agio, perchè quivi non era gonfiezza quel che lo era nella prosa.
Anche Erodoto, a ben guardarlo, ha del poetico e del gonfio in mezzo alla naturalezza propria del tempo.
Così noi avevamo Dante, e nessuna prosa di conto fino al Boccaccio.
Le migliori erano le più plebee, scritte da' più ignoranti, senza pretensione, senza neppure intenzione (per dir così), di scrivere.
Ma i prosatori che volevano scrivere, riuscivano stranamente gonfi (in mezzo alla naturalezza effetto del tempo e della pochissima lettura), come Dino Compagni, similissimi per la meschina gonfiezza e declamazione, ai fanciulli di rettorica.
(31.
Lug.
1828.)
[4329]Se un buon libro non fa fortuna, il vero mezzo è di dire che l'ha fatta; parlarne come di un libro famoso, noto all'Italia ec.
Queste cose diventano vere a forza di affermarle.
Molti che l'affermino e lo ripetano, lo rendono vero senz'alcun dubbio.
Se, per qualunque ragione, questo mezzo non si può usare, il miglior partito è di tacere, dissimulare, e aspettare se il tempo facesse qualche cosa.
Ma niente di peggio che de se fâcher avec le public, gridare all'ingiustizia, al cattivo gusto de' contemporanei, perchè non fanno caso del libro.
Siano giustissime queste querele, sia classico il libro; dal momento che il suo cattivo esito è confessato e pubblicato, la miglior sorte che gli possa toccare è di essere riguardato come quei pretendenti che, privi di baionette, non hanno per se che i diritti e la legittimità.
(Firenze.
10.
Agosto.
1828.
S.
Lorenzo.)
Alfabeti.
Ortografia.
Difficoltà ed imperfezioni della scrittura de' dialetti p.
es.
italiani, abbondanti di suoni mancanti all'alfabeto nazionale scritto ec.
Arbitrario dell'applicazione dei segni di questo alfabeto ai detti suoni: due persone che si ponessero a scrivere uno stesso dialetto senza saper l'uno dell'altro, nè seguire un metodo già ricevuto, si può scommettere che non iscriverebbero una parola sola nello stesso modo.
La più parte dei nostri dialetti hanno un alfabeto di suoni più ricco assai del comune.
(Fir.
10.
Agos.
1828.)
In letteratura, tutto quello che porta scritto in fronte bellezza, è bellezza falsa, è bruttezza.
Verità fecondissima, e ricchissima di applicazioni, che occorrono ad ogni ora.
(Fir.
10.
Agos.
1828.)
[4330]Alla p.4326.
e il cui soggetto fu il vero, e non in gran parte il finto, come in Omero e ne' poeti.
(10.
Agos.
1828.)
Dalle mie osservazioni su quel passo di Agatarchide comparato alla storiella di Muzio Scevola, si può dedurre che una delle principali fonti del favoloso trovato, massimamente dal Niebuhr, nella storia romana de' primi tempi, sia l'avere i primi storici romani (seguiti poi dagli altri) copiato nella narrazione delle origini e de' tempi oscuri di Roma, le storie o le favole de' Greci, mutando i nomi.
Così hanno fatto i primi storici di quasi tutte le nazioni, anche più recentemente, e ne' bassi tempi ec.
fra' quali è insigne esempio quel Saxo nella Historia Danica.
(10.
Agos.)
Alla p.4323.
La presa di Troia, secondo i marmi di Paro, la cui cronologia è ora la più, anzi la generalmente seguìta, si pone nell'anno 108 avanti l'era Cristiana.
Bull.
de Féruss.
ec.
loc.
cit.
alla p.4312.
tom.3.
art.235.
p.275.
fin.
(10.
Agos.
1828.).
V.
p.4378.
Tutti dicono che la buona gente è rara assai.
Questo in generale.
Ma quando si viene al particolare, niente di più comune che il sentirsi dire di una famiglia: è buona gente, di un individuo: è un buon uomo, un buonissim'uomo.
Rare volte il contrario: non sarà appena come uno a dieci.
E nella pratica, io ho trovato buona gente da per tutto, anche per convivere: tanto che ora, di niente sono meno in pena che di trovar buona gente quella con cui debbo o dovrò avere a fare.
Io credo che la bontà negli uomini sia men [4331]rara assai che non si crede: anzi, che abitualmente quasi tutti sieno buona gente.
E credo che per trovar buona gente da per tutto, e senz'altri esami, non bisogni altro che esser buon uomo esso, ed aver buone maniere.
(10.
Agos.
1828.
dì di S.
Lorenzo.
Firenze.).
V.
p.4333.
Esse erano ancora in età ben giovanile, ma l'amore era scancellato dal loro volto; si vedeva che la gioventù n'era sparita per sempre.
(M.lles Busdraghi).
(10.
Agos.
1828.)
Sur l'idiome moldave; extrait d'un manuscrit de M.
le C.te d'Hauterive (Wilkinson, Tableau de la Moldavie et de la Valachie; traduit par M.
de La Roquette, 2e édit., appendix, n.9.) Cette langue, rude et grossière, est évidemment d'origine romaine; mais à ce sujet l'auteur établit une hypothèse particulière.
Il suppose qu'il existait d'abord à Rome une langue populaire qui avait des articles, des verbes auxiliaires et toutes les formes embarrassantes qui, selon l'auteur, annoncent l'enfance de la civilisation.
Pendant que les orateurs et les écrivains créèrent la langue classique, remarquable par sa précision et son élégance, la langue du peuple se propagea dans les provinces de l'empire et s'y modifia dans la suite d'après le génie, ou les relations des habitans.
Ainsi, selon le comte d'Hauterive, le français, l'italien, l'espagnol, le moldave, ne sont pas dérivés de la langue de Cicéron et d'Auguste: ces idiomes ont une origine plus ancienne; ils viennent d'une langue antérieure, celle des premiers habitans de Rome.
Le moldave surtout lui paraît être un reste de ce langage grossier.
À l'appui de cette hypothèse l'auteur donne 6 tableaux, [4332]dont les deux premiers font connaître les temps des verbes auxiliaires être et avoir, en français et en moldave.
On y voit que le moldave a des temps composés comme le français.
Le troisième tableau comprend le verbe moldave iou laud, je loue.
Le quatrième tableau tend à prouver que les 4 langues romaines vivantes, c'est-à dire le français, l'italien, l'espagnol et le moldave ont plus de rapport l'une avec l'autre qu'avec le latin.
Il semble pourtant que ces exemples ne sont pas tous bien choisis; par exemple, le mot moldave zoon est aussi éloigné du mot français jour que du latin, et le mot moldave pugn ressemble encore plus au latin pugnus qu'au français poing.
Dans le cinquième tableau l'auteur a rassemblé des mots communs aux quatre langues modernes, et qui, bien que romains, ne s'accordent pas avec le latin classique: par exemple ignis, se rend dans les quatre langues par feu, fuoco, fuego et fuoc; ensis par sabre (il fallait dire epée), sciabla, espada, sabbia; humerus par épaule, spale (sic), espala (sic), espal.
Ces exemples ne prouvent pourtant pas que les 4 langues aient puisé dans un idiome plus ancien que le latin classique, car les mots cités par l'auteur peuvent tout aussi bien dater du temps de la décadence de l'empire et de la langue latine; ainsi feu, fuoco, fuego et fuoc sont du temps de la basse latinité, lorsque les mots anciens étaient déjà détournés en partie de leur véritable acception, et lorsque le mot de foyer (focus), qui désignait d'abord le lieu du feu, fut employé par les barbares pour exprimer le feu même.
Enfin, dans le dernier tableau, l'auteur a voulu rassembler des mots [4333]communs au latin et moldave, et manquant aux trois autres langues, afin de prouver que le moldave ne dérive pas des langues modernes.
Parmi ces exemples se trouvent verbum, verbe; magis, moi (sic).
Cependant verbe et mais (autrefois dans le sens de magis) sont aussi français.
Ces exemples ne peuvent donc servir de preuve.
D-G.
(Depping.) Bull.
de Féruss.
loc.
cit.
alla p.4312.
Févr.
1825.
t.3.
art.152.
p.118-9.
(10-11.
Agos.
1828.)
Alla p.4331.
E credo che i cattivi sieno assai più rari che i buoni uomini, purchè non si chiamino cattivi (come si fa sempre) quelli che trattano male noi perchè noi trattiamo male o indiscretamente loro; perchè non vogliamo, o non sappiamo (cosa frequentissima), trattarli bene.
La salute è considerata generalmente dalla società come il minimo de' beni umani, se pur ne è fatto conto in modo veruno.
Fra le mille prove (e non parlo qui d'individui, ma di corporazioni), osservate che non troverete mai un luogo, una città che sia cominciata ad abitarsi, che cresca giornalmente di popolazione, per rispetto della salubrità del sito, e neanche della clemenza dell'aria.
Opportunità di commercio, vicinanza di mare, centralità, presenza della corte, mille cose fanno e che si scelga a principio un luogo per popolarlo, per fondarvi una città, e che una città cresca via via d'abitanti: ma la salubrità non mai.
Non v'è città che debba la sua nascita a questa causa, nessuna che le debba il suo accrescimento.
Troverete spesso un [4334]sito saluberrimo, con aria comodissima, affatto deserto, in vicinanza d'una o di più città, pessimamente situate e popolatissime.
Tra Livorno e Firenze (di scellerata situazione) vedete un sito che par quasi miracolosamente favorito dalla natura; ci trovate anche una città, che è Pisa; una città che fu anche popolatissima.
Livorno pel suo mare, Firenze per cento altri vantaggi, si accrescono ogni giorno prodigiosamente di popolo; e sulle loro porte, Pisa, da che ha perduto la sua potenza, il commercio, i vantaggi estranei alla salubrità, si spopola, divien sensibilmente deserta ogni giorno più.
(Firenze.
11.
Agos.
1828.)
Alla p.4322.
fin.
Io per me sono persuaso che questo sia il vero e solo modo di render ragione delle irregolarità di misura che malgrado tutte le regole e sopraregole ed eccezioni arbitrariamente stabilite dagli antichi e dai moderni grammatici, malgrado tutti i sistemi, come quello del digamma eolico ec., si trovano sempre ne' versi omerici.
- Richard Bentley est le premier qui, s'étant aperçu de quelques irrégularités dans la mesure des vers d'Homère, supposa que ces irrégularités ne provenaient que de ce qu'on avait négligé le Digamma, dont sans doute la prononciation était tombée en désuétude quand on copia pour la première fois l'Iliade et l'Odyssée.
Du Digamma dans les Poésies homériques.
(Extrait d'un Nouveau Commentaire sur Homère); par M.
Dugas-Montbel.
Bull.
de Féruss.
loc.
cit.
Janv.
1825.
art.7.
p.9.
- Le fait est que, malgré l'adoption du Digamma, on ne résout pas toutes les difficultés, et que M.
Knight lui-même (Payne Knight, il quale nel 1820 pubblicò in Inghilterra un'edizione intera [4335]dell'Iliade e dell'Odissea col digamma, et avec une orthographe particulière qu'il suppose avoir été dans le principe celle d'Homère; dopo che Upton e Salter avevano dato degli specimen di edizioni d'Omero col digamma, e che Heyne già nel suo Omero del 1802, au bas de son texte, où il suit l'orthographe ordinaire, aveva placé les mots avec le Digamma, in cui favore egli si è dichiarato) a laissé subsister des passages qui blessent son système (cioè, come si spiega in una nota, de' passi dove una sillaba che dovrebb'esser breve, diventa lunga pel digamma;???(?((??F?(?(? ec.), tant il est difficile de rétablir la véritable orthographe sur de simples conjectures, et dans la privation absolue de tout monument écrit.
Certainement quelque système qu'on adopte, il n'en est point qui ne présente des objections, parce que dans ces premiers âges de la poésie, où les lois de la prononciation n'étaient point encore soumises au frein de l'écriture qui les rend plus invariables, il devait y avoir une foule d'anomalies qu'on ne pouvait expliquer que par l'usage, plus fort que le raisonnement, et même que les règles de l'analogie; parce qu'enfin sous Pisistrate, quand on transcrivit pour la première fois les vers d'Homère, la prononciation avait déjà subi des altérations notables qu'il est impossible de déterminer précisément aujourd'hui.
Ibidem, p.13.
- Ora con una pronunzia varia, incerta, e non ancora fissata, come supporre, come trovar possibile una misura di versi esatta e costante? - Payne Knight era morto già prima del 1824, o in quell'anno.
(12.
Agos.
1828.)
[4336]Sopra il digamma eolico, si trovano delle curiose e non inutili notizie nella breve Memoria di Dugas-Montbel citata nel pensiero precedente.
Egli crede che le Digamma devait tenir de la prononciation du V consonne et de l'U voyelle des latins que nous prononçons ou...
Si l'on observe que dans le midi de la France il n'est pas rare qu'on prononce le monosyllabe oui en faisant légèrement sentir le son du V (voui), peut-être aurait-on quelque chose d'analogue à la prononciation du Digamma.
(Viceversa in Toscana spessissimo si sopprime il v, o si cambia in un'aspirazione: pióe o piohe per piove, doe per dove, ec.
ec., e questo lo trovo anche scritto ne' rusticali ec.
V.
p.4365.) M.
Dawes (gran partigiano del digamma ap.
Omero; erudito inglese) veut que le Digamma se prononce et s'écrive comme le W anglais (Dawesii Miscellan.
§.4.
p.190.
et seqq.
édit.
de 1817.) Je ne crois pas que certe forme ait jamais été connue de l'antiquité, cette lettre est toute du nord.
Quant à la prononciation elle rentre à peu près dans celle que j'ai indiquée.
p.13-14.
(12.
Agos.)
Altra difficoltà enorme dell'invenzione della scrittura alfabetica: l'infinita varietà ed incertezza della pronunzia orale di qualunque lingua e parola: infinita sempre, ma più che mai avanti l'invenzione della scrittura alfabetica.
La pronunzia non riceve qualche fissità se non dalla scrittura alfabetica, e viceversa l'invenzione di questa non par possibile senza una pronunzia già fissata.
V.
la p.
qui dietro.
(12.
Agos.)
Alla p.4319.
Chants populaires des peuples grecs.
À l'occasion de l'annonce des chants populaires de la Grèce moderne, par M.
Fauriel, les Annales littéraires de Vienne, t.26, font observer que ce recueil [4337]peut faire suite à un recueil semblable de chants serviens, publié récemment par Wuk Stephanowitsch; mais qu'il reste encore à recueillir les chants populaires de trois peuples, pour que l'on possède toute la poésie populaire de la nation grecque.
Ces trois peuples sont: les Albanais, les Valaques et les Bulgares.
Les Albanais, qui paraissent descendre des anciens Illyriens, doivent avoir beaucoup de chants.
Il doit en être de même des Valaques de Macédoine.
Quant aux Bulgares, Wuk assure positivement qu'ils ne cédent aux Serviens ni en poésies lyriques, ni en chants épiques.
D'après le même auteur la langue bulgare forme une sorte de langue romane parmi les langues des 5 peuples grecs: ce que le latin a été pour les peuples d'Italie et de France, le Slave l'est encore pour les Bulgares.
D-G.
(Depping.) Bull.
de Féruss.
l.c.
Janvier 1825.
t.3.
art.
II.
p.16-17.
- Kleine serbische Grammatik.
Petite grammaire servienne par Wuk Stephanowitsch, trad.
en allem.
avec une préface de J.
Grimm, et des observations sur les chants héroïques des Serviens; par J.
S.
Varer (allora professore a Halla, morto a Halla 1826, linguista tedesco, famoso per aver continuato il Mithridates di Adelung, oltre ad altre opp.) Berlin; 1824.
La langue servienne, trop prodigue de consonnes, est parlée par environ 4 millions d'individus, en Servie, en Croatie, en Esclavonie et en Monténégro.
Elle a une quantité de poésies intéressantes dont il sera question dans un autre article.
Cette langue mérite donc l'attention des savans.
Wuk, auteur de la petite grammaire qui vient de paraître, a, de plus, fair imprimer à Vienne, en 1817-18, un dictionnaire [4338]servien, 36.
f.
in 4°.
L'auteur, nè dans le pays, était d'abord inspecteur des douanes serviennes, et, sous la domination de Czerni Georges, il occupait le poste de secrétaire du Sénat de son pays.
Aucun Servien n'a peut-être étudié davantage son idiome national.
On doit imprimer à Pétersbourg une trad.
qu'il a fait en servien du N.
Testament.
Ib.
Juin 1825.
t.3.
art.548.
p.439-40.
- Narodne srpske pjesme skupio, ii na swijet izdao, etc.
Chansons nationales serviennes, recueillies et publiées par Wuk Stephanowitsch Karadshitch.
3 vol.
Leipzig; 1824.
Les serviens ont une foule de chansons nationales qui n'avaient jamais été recueillies, et dont un grand nombre n'avait peut-être jamais été mis par écrit, lorsque le savant servien Wuk eut l'heureuse idée d'en faire un recueil, qu'il a porté en Allemagne, et qui y a été publié.
C'est une nouveauté intéressante, qui nous fait connaître la poésie d'un peuple dont la littérature, à la vérité peu riche, existait à l'insu de l'Europe.
La première partie du recueil contient une centaine de petites pièces de vers, que l'auteur appelle chansons féminines, parce que les femmes en composent et chantent beaucoup dans leur ménage.
Ces pièces sont faites sans art, la plupart en vers blancs, et peut-ètre improvisées; elles sont généralement médiocres sous le rapport de la poésie.
Il y en a sur toutes sortes de sujets, sur l'amour, sur la moisson, sur les fêtes du pays; on y trouve même des chansons magiques pour obtenir de la pluie, que chantent les jeunes filles en parcourant les villages.
Par-ci, par-là on trouve des pensées d'un naturel agréable ou des comparaisons originales ou singulières.
Les deux autres [4339]parties contiennent les chansons héroïques qui abondent chez ce peuple belliqueux.
Ce sont des vers monotones, où les mêmes épithètes et les mêmes formules reviennent sans cesse.
Quelquefois les aventures qu'elles chantent ont de l'intérêt.
Le héros favori des Serviens, Marko, fils d'un roi, y joue un grand rôle.
Les batailles y sont peintes avec une sorte de prédilection, surtout celle de 1389 qui ôta l'indépendance à la Servie.
D-G.
Ib.
Juillet 1825.
t.4.
art.22.
p.17.
Faeroeiscke quaeder om Sigurd Fofnersbane og hans aet.
Chansons des îles Foeroeer (oe, oe) sur Sigurd Fofnersbane, et sur sa race; recueillies et traduites en danois par H.
C.
Lyngbye, avec une introduction du prof.
P.E.
Müller; 592 pag.
in-8°.
1822.
Dans les îles Foeroeer (oe, oe) s'est conservé un dialecte particulier de l'ancien scandinave, et dans ce dialecte le peuple conserve plus de 150 chansons qui se chantent pour la plupart sur des airs de danse, et servent en effet à accompagner celles des paysans.
M.
Lyngbye a recueilli onze de ces chansons; elles ont un caractère épique, et chantent Sigurd, héros célèbre dans tout le nord, et dans les romans allemands du moyen âge.
Les insulaires des îles Foeroeer (ae, oe) chantent ces poésies dans leurs réunions, et se les transmettent oralement de père en fils; il est probable qu'elles sont fort anciennes.
Quoique le sujet ressemble à celui de divers passages de l'Edda, il ne paraît pourtant pas qu'elles soient imitées de l'islandais; du moins l'Edda n'a point cette forme de chanson sous laquelle le roman de Sigurd est presenté dans les chants foeroeériens; en Islande, en Norvège et en Danemark, [4340]on n'a pas d'ailleurs la coutume d'accompagner la danse de vieilles chansons en petits vers tels que ceux de Foeroeer (oe, oe).
Le style de ces poésies est simple et naïf; les images y sont moins hardies que dans les poésie islandaises; quelquefois on y trouve des comparaisons relatives à la nature locale de cet archipel; des yeux bleus y sont comparés avec le plumage des pigeons sauvages, qui sont de cette couleur aux Foeroeer (ae, oe).
M.
Lyngbye a fait de ces poésies épiques une traduction en vers, et il a expliqué dans les notes les termes qui pourraient être difficiles pour les Danois.
Dans le supplément l'éditeur a inséré d'autres chansons qui n'ont pas de rapport à Sigurd, et un vieil air noté de ces îles.
Il resterait maintenant à publier les autres chansons des Foeroeer (ae, oe), et peut-être aussi le vocabulaire foeroeérien (oe, oe) faisant partie d'une description de cet archipel, composée vers 1782 par M.
Svaloe, et conservée en 7.
vol.
in-4°.
parmi les manuscrits de la bibliothèque royale de Copenhague.
Ib.
art.21.
p.16-17.
(12-13.
Agos.
1828.).
V.
p.4352.4361.
Wertheidigung des Wilhelm Tell.
Defense de Guillaume Teli, par X.
Zuraggen; nouv.
édit.
in-8°.
Fluelen, dans le canton d'Uri; 1824.
La vérité de l'histoire de Guill.
Tell ayant souvent été mise en doute, et notamment dans une brochure qui a paru en 1760, intitulée, Guillaume Tell, conte danois; l'auteur cherche à venger la mémoire du héros, et à démontrer son existence par des documens authéntiques.
(Journ.
gén.
de la littérat.
étrang., septembre 1824, p.264.) Bull.
de Féruss.
Mai, 1825.
l.c.
t.3.
art.526.
p.422-3.
(13.
Agos.).
V.
p.4362.
[4341]On attribue l'invention de l'alphabet mongol à Bogdo-Khotokhtou-Tchoidja-Bandida, appelé du Thibet en Mongolie par le Khan Khoubilaï-Tsétsèn-Khan, petit-fils de Gengiskhan; et sa correction au lama Tchoïdja-Ostyr, qui vivait du temps de Khaïssyn-Kouloug-Khan, mort au commencement du 14 siècle, et sous le règne duquel cet alphabet fut introduit parmi les peuples mongols.
Selon les écrivains mongols on n'employa jusqu'au temps de Khaïssyn-Kouloug-Khan, à la cour des souverains de ce pays, que les lettres thibétaines, alors appelées Oïgoures (étrangères).
Les Chinois prétendent dans l'histoire que, jusques à l'introduction d'un alphabet particulier, les Mongols s'étaient servis des caractères chinois ou ouvouitsk.
(Così moltissimi libri giapponesi sono scritti in caratteri cinesi, e questi sono anco della letteratura giapponese, i più noti, anzi quasi i soli noti agli Europei.
Bulletin ec.
t.4.
art.197.
Al qual proposito il Bull.
di Féruss.
ib.
p.175, osserva: L'emploi d'une écriture syllabique (la scrittura propria giapponese, composta di 47 sillabe primitive) dérivée de l'écriture figurative des Chinois, et l'usage qu'on fait de cette dernière en l'appliquant à une langue pour laquelle elle n'avait pas été formée (alla lingua giapponese), sont deux phénomènes capables d'intéresser les hommes qui font de l'étude des langues, un sujet de méditations philosophiques.)
Les Mongols écrivent de gauche à droite comme nous, mais perpendiculairement du haut en bas, comme on pourra le voir par l'alphabet comparé Mongol et Kalmouk.
Malgré les traits qui changent [4342]souvent la forme des lettres, il est impossible de ne pas remarquer qu'elles viennent presque toutes des caractères grecs et syriaques, et par conséquent elles sont peut-être un des monumens les plus anciens qui servent à prouver la liaison des peuples qui les ont adoptées avec les peuples de l'Occident.
Outre l'alphabet élète ou Kalmouk, celui des Mongols a encore donné naissance aux lettres mantchouriennes qui n'en diffèrent que par quelques légers changemens.
Les Mongols avaient encore un autre alphabet inventé du temps de Khaïssyn-Kouloug-Khan par un certain Lama-Pakba, dont les lettres ont été nommées carrées en raison de leur forme; mais on n'a rien pu découvrir d'écrit en ce genre.
Au contraire nombre d'anciens livres mongols sont écrits en lettres de Tchoïdja-Bandida.
Bull.
de Féruss.
ec.
l.c.
t.4.
art.238.
p.242-3.
septembre 1825.
(13.
Agos.
1828.)
Quibus actus uterque Europae atque Asiae fatis concurrerit orbis.
Virg.
Aen.
7.
223.
Il pieno senso di questo luogo e di quell'uterque non credo sia stato mai bene inteso nè si possa intendere senza ricordarsi dell'antica divisione del mondo in due sole parti, Europa ed Asia; divisione di cui è da vedersi una dotta nota di Letronne al v.3.
dell'Iscrizione greca metrica scoperta nell'isola di Philae da Hamilton (nel Bull.
de Féruss.
l.c.
t.3.
p.403-2.
art.499.
intitolato: Explication d'une inscription grecque en vers, découverte dans l'île de Philae par M.
Hamilton.
Extraite de la suite des Recherches pour servir à l'histoire de l'Égypte pendant la domination des Grecs et des Romains; par M.
Letronne, de l'Institut.): il qual Letronne dice ch'ella tiene [4343]evidentemente alla geografia omerica, e mostra come fosse propria della geografia poetica greca e latina.
Fu anche seguita da vari scrittori dell'una e dell'altra lingua, in prosa; e fino da Procopio, il quale comprende l'Affrica nell'Asia, laddove gli antichi la mettevano nell'Europa.
V.
anche Berkel.
ad Steph.
Byz.
p.383., ed Uckert, Geograph.
der Griechen und Roemer, t.1, parte 2.
p.280.
richiamati in nota dal Letronne.
(Fir.
13.
Agos.
1828.)
Dalle bellissime ed acutissime osservazioni del Wolf (Prolegom.
ad Homer.
§.17.
Halis Saxonum 1795, vol.
I.
p.
LXX-LXXIII.) dalle quali risulta che, secondo ogni verisimiglianza, il principio della cultura della prosa e le prime opere di prosatori appresso i greci, furono contemporanee all'epoca in cui la scrittura appresso i medesimi divenne di comune uso, e tale da poterne far de' volumi; anzi che scripturam tentare et communi usui aptare plane idem videtur fuisse, atque prosam tentare et in ea excolenda se ponere (p.
LXXII.), il che accadde sul principio del 6.
sec.
av.
G.
C.
(p.
LXX.); da queste osservazioni, dico, si raccoglie la vera causa del fenomeno, in apparenza singolare, che presso tutte le nazioni, nel loro primo ingresso alla civiltà, la letteratura poetica ha preceduto la prosaica: fenomeno osservato da moltissimi, da nessuno, nè prima nè dopo Wolf, bene spiegato, e tuttavia naturalissimo, ovvio e semplicissimo.
Chi potea mai pensare a comporre in prosa prima dell'uso (facile, comune, in carta o simili materie portabili, non in bronzo o marmo o legno) della scrittura? come conservare tali composizioni? Parlare in prosa, anche a lungo, si poteva, e parlavasi, raccontavasi in [4344]prosa, arringavasi, e simili, ancora in pubblico; ma nè i parlatori nè gli altri pensavano a desiderare non che a proccurar durazione a tali prose, stantechè nessuno neppur sospettava la possibilità che tali prose si conservassero, perchè la memoria non le potea ritenere.
Da altra parte, gli uomini inclinati naturalmente alla poesia ed al canto, come apparisce dal vedere che quasi tutte le nazioni selvagge hanno delle poesie, poetavano e componevano in versi: da prima senza speranza nè disegno che questi si conservassero, non più che i discorsi in prosa; poi, visto che la memoria potea ritenerli, si pensò, si provvide alla loro conservazione: quando il conservarli e l'impararli fu divenuto cosa comune, quando vi furono degli uomini che ne fecero un mestiere (i rapsodi appo i greci), allora naturalmente anche la composizione de' versi divenne una specie d'arte; fu più accurata, più colta; infine v'ebbe una letteratura poetica; e ciò senza scrittura, e mentre che la prosa, non ancora coltivata in niun modo perchè non conservabile, era affatto lontana dal poter far parte di letteratura.
Quindi è naturale che quando la scrittura fu divenuta comune e però si potè comporre in prosa, questa fosse infante, mancasse l'arte, mentre la poesia era già molto avanzata; e la lingua poetica fosse già formata da più secc.
mentre la prosaica era anco informe.
Vedi la p.4238.
capoverso 2.
V'ebbe una letteratura assai prima della scrittura, cioè del comune uso di essa ma tal letteratura non fu e non poteva essere che poetica.
V.
p.4354.
Tutto ciò accadde naturalmente e non già per disegno.
Ridicolo è l'attribuire a popoli bambini nella civiltà, l'acutezza di conoscere, e il desiderio di provvedere che la cognizion delle cose si trasmettesse alla posterità pel solo mezzo che allora ci aveva; versi consegnati alla memoria; e di compor versi apposta per questo fine.
V.
p.4351.
princip.
[4345]In quella letteratura antiscritturale, il solo modo di pubblicare i propri componimenti, era il cantarli esso, o insegnarli ad altri che li cantassero.
Fuitque diu haec (ars rhapsodorum) unica via publice prodendi ingenii (Wolf §.23.
p.
XCVIII) Queste furono per più secoli le edizioni de' greci.
Tanto che anche dopo reso comune l'uso della scrittura, etiam Xenophanem poëmata sua ipsum?(??(?(??? legamus, osserva il Wolf (ib.) citando il Laerzio, IX.
18.
male inteso da altri.
E forse ancora di qui venne che Erodoto, un de' primi scrittori di prosa, anche la sua prosa (se è vero quel che si racconta; e forse questa osservazione potrebbe farlo più probabile) volle recitare in pubblico.
(V.
p.4375.) Stante l'uso delle passate età, e l'assuefazione, non pareva pubblicato, edito, quello che non fosse comunicato veramente e di viva voce al popolo.
Lascio che per lungo tempo dopo il detto uso della scrittura, si continuò appresso i greci la recitazione pubblica o canto de' versi d'Omero e degli altri poeti antichi.
Ac primo quidem tempore et paene ad Periclis usq.
aetatem Graecia Homerum et ceteros?(????(? suos adhuc auditione magis quam lectione cognoscebat.
Paucorum etiam tum erat cura scribendi, lectio operosa et difficilis; itaque rhapsodis maxime operam dabant captique mira dulcedine cantus ab illorum ore pendebant.
In clarissimis huius saeculi (secolo di Pericle) rhapsodis memoratur circa Olymp.
69.
Cynaethus, Pindaro aequalis, qui Chio commigravit Syracusas, vel ibi maxime artem factitavit.
(Wolf §.36.
p.
CIX.) Noti sono i rapsodi del tempo di Socrate, di Platone, (ib.
p.
CLXI.
not.22.) e di Senofonte, §.23.
p.
XCVI.
e l'autore [4346]dell'Ipparco, dialogo che va tra le opere di quest'ultimo, dice che anche al suo tempo si recitavano da' rapsodi alle feste de' Panatenei quinquennali, i versi di Omero, con quell'ordine che, secondo lui, da Ipparco figlio di Pisistrato era stato ingiunto ai rapsodi da osservarsi nel recitarli.
E durò fino agli ultimi tempi della Grecia l'uso di recitare a memoria ne' conviti e nelle conversazioni colte, degli squarci di poesia, or d'uno or d'altro autore; il che si chiamava ((?????(??(? e simili; v.
p.4438.
e vedine il Comento del Coray a' Caratteri di Teofr.
e del Casaubono ad Ateneo.
Possono considerarsi come una continuazione dell' antica usanza rapsodica quei tanti componimenti di genere letterario ed epidittico che i sofisti e retori a' tempi romani, e massime nel 2° secolo, andavano declamando pubblicamente per le città della Grecia, dell'Asia, della Gallia, ora in lode di esse città, ora degl'imperatori ora degli Dei o eroi ec.
del paese, or sopra argomenti di morale, di filologia nazionale ec.
V.
p.4351.
Noi ridiamo di quell'antico modo di pubblicazione; forse quegli antichi riderebbero assai del nostro.
Certo non potremo negare che quella non fosse e naturale (anzi la sola naturale), e vera pubblicazione.
Noi diciamo aver pubblicato un componimento quando ne abbiam fatto tirare qualche centinaio di copie, che andranno al più in qualche centinaio di mani; come se quelle centinaia di lettori fossero la nazione: e la nazione veramente, il vero pubblico, il popolo, non ne sa assolutamente nulla.
Pubblicare allora, era dare ed esporre al popolo, che oggi è straniero alle nostre edizioni.
Come già Plato (Phaedr.
p.274.
E) atque alii veteres philosophi iudicaverunt inventas litteras profuisse disciplinis, sed obfuisse discentibus, adeo ut quae inventio medicamen memoriae dicta esset, eadem non [4347]immerito noxa ejus et pernicies diceretur (Wolf, §.24.
p.
CI-CII), così non sarebbe men paradosso e forse più vero il dire che la scrittura, celebrata per aver popolarizzata l'istruzione, è stata al contrario per una parte la causa di depopolarizzar la letteratura, la quale una volta non poteva vivere che presso il popolo, e di separar dal popolo i letterati, i quali già ne fecero necessariamente parte.
La scrittura sola ha reso possibile una letteratura più colta, polita e perfetta, la quale di sua natura non può essere, e non sarà mai, popolare.
(Oggi siamo a un punto, che per farla tale, bisogna sperfezionarla, tornarla a una specie d'infanzia, a una rozzezza, sacrificando il bello all'utile.) V.
p.4367.
Nè solo la prosa, e le scritture dottrinali, ma la poesia, che da prima, come si è veduto, ebbe per suoi propri uditori il popolo; che costituì tutta la letteratura quando la letteratura fu popolare; che anche oggi si grida, e per tutti i secoli antichi e moderni, si è gridato, dover esser popolare, esserlo già essa di sua natura; la poesia ancora è stata perduta dal popolo per colpa della scrittura; anzi esso è il genere più lontano dal popolare, e il più difficile ad esser tornato tale; anzi impossibile, se non quando la poesia di qualunque nazione e letteratura moderna, non si riformi, ma si sbandisca affatto, e se ne crei una in tutto e per tutto nuova.
V.
p.4352.
Componendo senza scrivere, non fidando i propri componimenti che alla memoria (ex eo Musarum, memorum dearum, diligens et in Iliade enixe repetita invocatio: Wolf.
§.20.
p.
LXXXIX.), Omero e i poeti di que' tempi erano ben lungi dall' aspirare all'immortalità.
Quid? quod ne nominis quidem immortalitas tum quenquam impellere potuit ut ei duraturis monumentis prospiceret; idque de Hom.
credere, optare est, non fidem [4348]facere.
Nam ubi is tali studio se teneri significat? ubi professionem eiusmodi, ceteris poëtis tam frequentem, edit, aut callide dissimulat? (§.22.
p.
XCIV.) Non si era ancora concepita l'idea dell'immortalità, molto meno il desiderio.
Ben desideravasi la gloria, cioè l'onore e la lode de' contemporanei, cioè de' conoscenti e de' cittadini o compatrioti, in vita e ne' primi dì dopo la morte: stimolo ben sufficiente alle più grandi azioni.
Omnino autem satis habuit illa aetas, quasi sub nutrice ludendo et divini ingenii impetum sequendo, res pulcherrimas experiri et ad aliorum oblectationem prodere: mercedem si quam petiit, plausus fuit et laus aequalium auditorum, dice il Wolf (§.22.
p.
XCIV-V.
e cita Oraz.
Ep.
II.
I.
93.).
E quel ch'ei dice de' poeti di que' tempi dee dirsi parimente de' guerrieri, magistrati, uomini forti, giusti, virtuosi.
V.
p.4352.
Altro vantaggio anche questo de' tempi Omerici, ignorare l'immortalità del nome: 1° non erano tormentati da un desiderio sì difficile ad adempire, 2o molto più filosoficamente e ragionevolmente di noi (come sono sempre più filosofi di noi i primitivi) limitavano i lor desiderii a quel che è sensibile, e naturale a desiderarsi, la lode dei presenti; non estendevano le loro viste al di là di quel che è concesso all'individuo, al di là dello spazio assegnatogli dalla natura, cioè della vita; in fine non si curavano di quello che nulla ci può veramente nè giovare nè nuocere, nè piacere, nè dispiacere, di quel che si penserà di noi dopo la nostra morte.
E qui è curioso e filosofico, egualmente che tristo, il riflettere che Omero senza desiderare nè aspirare all'immortalità, l'ha ottenuta; e noi che la desideriamo, noi per effetto appunto della scrittura che ci ha ispirato tal desiderio, [4349]non l'otterremo.
I versi e gli eroi di Omero, fidati alla sola memoria, han varcati quasi 30 secoli, e dureranno quanto, per dir così, la presente stirpe umana, quanto la presente cronologia; i nostri componimenti ed i nostri eroi, fidati alla scrittura, che avrebbe oramai de' milioni di componimenti e di eroi da conservare, non giungeranno appena alla generazione futura.
Altro paradosso verissimo: la scrittura che sola o principalmente ha prodotto l'idea e 'l desiderio della immortalità, la scrittura considerata come istrumento di essa immortalità, la medesima moltiplicando a dismisura gli oggetti consegnati alla tradizione, sola o principalmente, ha reso a quest'ora impossibile il conseguirla.
Anche i sommi uomini, scrittori e fatti si pérdono ora necessariamente nella folla: consegnati alla sola memoria, non si confondevano in gran moltitudine, e quell'istrumento in apparenza sì debole, dico la memoria semplice, sapeva ben conservarli a perpetuità.
Il che non può più la scrittura.
Essa nuoce alla fama, di cui è creduta il fonte e l'organo principalissimo e necessario.
V.
p.4354.
Quanto alle letterature moderne in cui la poesia precedè la prosa, come l'italiana e l'inglese, la ragione di ciò è d'un altro genere.
E prima bisogna distinguere.
Se si tratta di versi e di prose qualunque, il fatto non è vero.
Noi abbiamo prose, anche di quelle destinate e fatte perchè durassero, e che compongono una qualunque letteratura; abbiamo croniche (Ricordano, Dino ec.), leggende ec., tanto antiche quanto i nostri più antichi versi; o sarà ben difficile il provare ne' versi un'anteriorità.
Se si tratta di classici, certo Dante p.e.
precedette ogni nostro classico prosatore.
La ragione è che le lingue moderne in principio [4350]furono credute inette alla letteratura.
E ciò è naturale: prima ch'esse fossero colte, la letteratura era considerata risiedere nella lingua colta, in quella lingua semimorta e semiviva, in cui sola si avevano buoni libri e dottrine.
V.
p.4372.
Quindi i prosatori che aspiravano ad esser colti, scrivevano nella lingua colta, benchè diversa da quella ch'essi parlavano.
Ma il poeta ha bisogno di esprimere i suoi sentimenti nella lingua nella quale egli pensa, e trova ogni altra lingua incapace di renderli.
Si dice che Dante per compor la D.
Commedia tentasse prima il latino, ma dovè poi naturalmente ridursi al volgare.
Del Petrarca è noto.
Ma essendo allora comune l'uso della scrittura, la prosa colta non poteva star troppo a tener dietro alla colta poesia.
Il Boccaccio fu pochi anni dopo Dante, e solo più giovane del Petrarca; dove che le prime prose culte che si vedessero in Grecia, non si videro che 400 anni dopo l'epoca omerica.
Nè questa era stata forse la prima che producesse alla Grecia delle poesie culte.
Anzi tutto persuade il contrario.
Quum Homerica dictio longe longeque reducta sit ab eo sono, quem in infantia gentium horror troporum et imaginum inflat, atq.
in verbis et locutionib.
castigata admodum, aequabili verecundoque tenore suo quasi praenunciet pedestrem dictionem proxime secuturam, quam tamen amplius tria saecula a nemine tentatam reperimus (il Wolf pone Om.
950 an.
av.
G.
C.
V.
p.4352.
capoverso 2.); ita mea fert opinio, ut non cultum ingeniorum, sed alia quaedam maximeq.
difficultatem scribendi arbitrer in mora fuisse, quo minus poëticam prosa eloquentia tam celeri, quam natura ferret gradu sequeretur (Wolf, §.17.
p.
LXXXI-II.).
(21-22.
Agos.
1828.).
V.
p.4352.
princ.
[4351]Alla p.4344.
fin.
Quanto pensasse Omero alla conservazione della memoria de' fatti, e a far le veci di storico, come lo chiama il Courier (v.
la pag.4318.), vedesi dalle favole di divinità, che egli senza necessità alcuna di superstizione, ma per bellezza, e manifestamente di sua invenzione, mescola a' suoi racconti, sino a comporli di favole per buona parte.
V.
p.4367.
Alla p.4346.
Sempre, o certo maggiormente e più a lungo d'ogni altra, la letteratura e i letterati greci ricercarono il popolo, lo ebbero in vista nel comporre, mirarono al suo utile e piacere, e si nutrirono all'aura del suo favore; a differenza soprattutto di quel che fece, anche nel suo più bel fiore, la letteratura di una nazione il cui stato politico pur non fu niente men popolare che quel della Grecia.
Dico la letteratura romana, la quale in punto di perfezione d'arte superò la stessa greca, e forse supera tutte le letterature conosciute; ma del resto non divenne ma fu sempre essenzialmente impopolarissima.
Effetto della sua stessa arte e perfezione e dell'esser essa non nata nel Lazio, ma importata.
Siccome per lo contrario non è dubbio che la perpetua popolarità della letteratura greca non derivasse in gran parte da una quasi memoria della sua origine, da un'influenza esercitata da questa continuamente, dall'impulso primitivo, dallo spirito originario e non mai spento, dall'andatura presa in principio.
V.
p.4354.
La letteratura greca, dice il Courier (préf.
du Prospectus d'une nouv.
traduct.
d'Hérodote) è la sola che sia nata da se nel proprio terreno, dagl'ingegni stessi de' nazionali, non da altra letteratura.
Il che non è vero parlando in universale, perchè molti altri popoli ebbero o hanno letterature autoctone, e queste appunto, come la primitiva greca, consistenti in sole poesie, e poesie non mai scritte, o scritte più secoli dopo composte [4352](v.
la p.4319 e le ivi richiamate.).
È vero però il detto del Courier rispetto alle letterature a noi più note, cioè la latina e le più colte delle moderne.
Alla p.4350.
fin.
Vedi la p.4326, capoverso 2.
- Quanto ad altre nazioni, come quelle accennate nella fine della p.
qui dietro, di esse non è esatto il dire che la poesia ha preceduto la prosa, ma che non hanno altra letteratura che poetica.
(22.
Agos.
1828.)
Alla medesima margine.
Primam aetatem (Carminum Homeric.) ponimus ab origine ipsorum, h.e.
tempore cultioris poësis Ionum, (circiter ante Chr.
950.) ad Pisistratum, etc.
Wolf.
§.7.
p.
XXII.
(22.
Agos.
1828.)
Alla p.4348.
Nè credo io ancora che Milziade a Maratona, nè che i 300 alle Termopoli, aspirassero alla immortalità del nome, come poi, divulgato l'uso delle storie e de' libri, vi aspirarono Filippo ed Alessandro.
Alla p.4347.
Quegli antichi potrebbero dire con gran ragione, che i loro versi, semplicemente cantati, erano pubblicati, e che i nostri libri, stampati, sono sempre inediti.
V.
la p.4317, e la p.4388.
capoverso ultimo.
Alla p.4340.
Atqui tales fere ordines hominum (per totam vitam huic uni arti vacantium, ut vel pangerent Carmina, quae mox canendo divulgarent, vel divulgata ab aliis discerent) in aliis quoque populis reperimus (oltre i greci), apud Hebraeos scholas, quas dicunt, Prophetarum, tum cognatiores nobis Bardos, Scaldros (sic), Druidas.
De his quidem postremis Caesar et Mela referunt (Ille B.
G.
VI, 14.
hic III, 2.
- not.), propriam eorum fuisse disciplinam, in qua nonnulli ad vicenos annos permanserint, ut magnum numerum versuum ediscerent, litteris non mandatorum.
(Simile quiddam et alias saepe et nuperrime de natione Ossiani narratum est a G.
Thorntono in Transactt.
of the Americ.
philos.
[4353]Society at Philadelphia vol.III.
p.314.
sqq.
In illa natione etiam nunc senes esse qui tantam copiam antiquorum Carminum memoria custodirent, ut velocissimum scribam per plures menses dictando fatigaturi essent.
- not.) Quam vellem tantillum nobis Graeci tradidissent de vatibus et rhapsodis suis! Nam et horum propriam quandam disciplinam et singulare studium artis fuisse, pro comperto habendum arbitror.
(Frid.
Aug.
Wolf.
loc.
cit.
alla p.4343.
§.24.
p.
CII-CIII.) - Haec quum ita sint, sub imperio Pisistratidarum Graecia primum vetera Carmina vatum mansuris monumentis consignari vidit.
Talemque aetatem sub incunabula litterarum et maioris cultus civilis apud se viderunt plures nationes, quarum comparatio accurate instituta iis, quae hic disputamus, multum lucis afferre possit.
Nam, ut duas obiter tangam, et inter se et Graecis omni parte dissimillimas, constat inter doctos, in Germania nostra, quae domestica bella et principum ducumque suorum gesta iam ante Tacitum Carminibus celebraverat279, has primitias rudis ingenii a Carolo M.
tandem collectas esse et libris mandatas; itemque Arabes non ante VII.
saec.
inconditam poësin priorum aetatum memoria propagatam collectionibus (Divanis) comprehendere coepisse, ipsumque Coranum diversitate primorum textuum similem Homero fortunam fateri.
Praeter hos et alios populos comparandi erunt Hebraei, apud quos litterarum et scribendorum librorum usus mihi quidem haud paullo recentior videtur, quam vulgo putatur, et minus adeo genuinum corpus scriptorum, praesertim antiquiorum.
Sed de his et Arabicis illis collectionibus viderint homines eruditi litteris Orientis.
(§.35.
p.
CLVI.)
[4354]Alla p.4351.
Per quanto le cose col progresso si alterino, corrompano, sformino e travisino, sempre conservano qualche segno della loro origine, e qualche poco dello spirito e stato loro primitivo.
In Roma dove la letteratura fu impopolare in origine, anche le orazioni al popolo, che certo si pronunziavano in istile e lingua popolare, erano scritte (a differenza delle attiche) in maniera impopolarissima, perchè quando si scrivevano, entravano nel dominio della letteratura, e si scrivevano non pel popolo ma pei letterati.
(23.
Agos.)
Sinizesi.
Dittonghi.
- Dittonghi greci e vocali lunghe, avanti a vocali brevi, spesso divengono brevi perchè si suppone elisa la 2a vocale del dittongo, e l'una delle due vocali componenti la lunga.
Così presso Virg.
Te, Corydon, O Alexi.
Pelio Ossam.
Ilio alto.
Ne' quali due ultimi esempi l'o non resta eliso interamente in forza della sua duplicità, come vocale lunga.
Dugas-Montbel, loc.
cit.
alla p.4334.
in nota.
V.
p.4467.
Alla p.4344.
Divulgato l'uso della scrittura, è ben naturale che si pensasse a comporre e a scrivere nel modo il più naturale, cioè in prosa.
Forse però non subito, perchè è anche naturale che le cose e i modi più semplici ed ovvi non si trovino al più presto: massime essendo inveterata, come nel nostro caso, un'usanza diversa.
Del resto, riman fermo che le prime composizioni del mondo, e per gran tempo le sole, furono in versi, non per altro, se non perchè si compose assai prima che si scrivesse.
V.
p.4390.
Alla p.4349.
Oggi più che mai bisogna che gli uomini si contentino della stima de' contemporanei, o per dir meglio, de' conoscenti; e i libri, della vita di pochi anni al più.
(Oggi veramente ciascuno scrive solo pe' suoi conoscenti.)
Alla p.4327.
Sarebbe questo il caso del Gialiso di Protogene (o di Apelle), dove l'azzardo fece meglio, anzi fece quello, che l'arte non aveva [4355]potuto.
Del resto, o che Pisistrato, o che alcun altro per suo ordine, o che il suo figlio Ipparco, o che parecchi letterati di quel tempo, amici e aiutatori di questi due o dell'un d'essi (Wolf.
p.
CLIII-V.), fossero quei che raccolsero i versi omerici, li disposero in quell'ordine che ora hanno, e li dividessero ne' due corpi dell'Iliade e dell'Odissea, ad essi forse si apparterrebbe tutta la lode dell'effetto che risulta dall'insieme di questi due corpi, e la creazione del poema epico, se non fosse manifesto che anch'essi crearono il poema epico senza saperlo, e non ebbero altra intenzione che di porre quei canti in ordine, di classarli e dividerli secondo i loro argomenti.
I????????????( d'Omero furono politori e limatori, che emendarono probabilmente il metro e la dizione in assai luoghi, aggiunsero, tolsero, mutarono quello che parve lor necessario, per dare unità, insieme, liaison scambievole, e continuità a quei canti.
Diversi dai Critici, il cui officio fu cercare quel che il poeta avesse scritto in fatti, non quello che stesse meglio; emendare i testi, non limarli.
(Wolf.
CLI-II.) Onde è diversa cosa ???????( e recensio, sì in queste e sì nelle altre opere antiche.
(p.
CCLVI.
not.) Il Wolf crede (p.
CLII.) che i ???????????(, ch'egli interpreta exactores seu politores, travagliassero alla riduzione de' canti omerici una cum Pisistrato vel paulo post.
Non ne ha però alcuna prova; non si trovano menzionati che negli scoliasti; io li credo molto più recenti (perchè così mi par naturale), benchè molto anteriori, com'ei pur dice, ai critici alessandrini.
Ad essi un poco più propriamente si dee dunque parte dell'effetto dell'insieme di que' due corpi, atteso ch'in essi v'ebbe l'intenzione.
V.
p.4388.
[4356]In somma il poema epico nelle nostre letterature, non è nato che da un falso presupposto.
Omero, e i poeti greci di quello e de' seguenti secoli non conobbero in tal genere che degl'inni.
Quippe vocabulum?(???? latius patet, et saepe omne genus???(? complectitur.
Unde illud in fine trium Hymnorum (homericor.), manifestum istius moris vestigium: (???(????(?(?(??(???????????(??????(?????(??(???? (Wolf.
§.25.
p.
CVII.
not.) Cioè passerò a qualcuno de' canti omerici, a cui gl'inni sacri servivano di proemii, perciò dagli antichi sovente chiamati ????(?????????(???????(?, ????(????????(?????? etc.
I rapsodi componevano o cantavano or l'uno or l'altro di tali proemii secondo il luogo e l'occasione del recitare gli squarci omerici, il nume protettor del paese, la solennità ec.
Vedi le mie osservazioni sui 3.
generi di poesia, lirico, epico, drammatico; le quali riceveranno luce altresì dalle presenti.
V.
p.4460.
E in fatti il poema epico è contro la natura della poesia.
1° Domanda un piano concepito e ordinato con tutta freddezza: 2° Che può aver a fare colla poesia un lavoro che domanda più e più anni d'esecuzione? la poesia sta essenzialmente in un impeto.
È anche contro natura assolutamente impossibile che l'immaginazione, la vena, gli spiriti poetici, durino, bastino, non vengano meno in sì lungo lavoro sopra un medesimo argomento V.
p.4372.
È famosa, non meno che manifesta, la stanchezza e lo sforzo di Virgilio negli ultimi 6.
libri dell'Eneide scritti veramente per proposito, e non per impulso dell'animo, nè con voglia.
V.
p.4460.
- Il Furioso è una successione di argomenti diversi, e quasi di diverse poesie; non è fatto sopra un piano concepito e coordinato in principio; il poeta si sentiva libero di terminare quando voleva; continuava di spontanea volontà, e con una elezione, impulso, (??( primitiva ad ogni canto; e certo in principio non ebbe punto d'intenzione a quella lunghezza.
- I lavori di poesia vogliono per natura esser corti.
E tali furono e sono tutte le poesie primitive (cioè le più poetiche e vere), di qualunque genere, [4357]presso tutti i popoli.
Si obbietterà la drammatica.
Direi che la drammatica spetta alla poesia meno ancora che l'epica.
Essa è cosa prosaica: i versi vi sono di forma, non di essenza, nè le danno natura poetica.
Il poeta è spinto a poetare dall'intimo sentimento suo proprio, non dagli altrui.
Il fingere di avere una passione, un carattere ch'ei non ha (cosa necessaria al drammatico) è cosa alienissima dal poeta; non meno che l'osservazione esatta e paziente de' caratteri e passioni altrui.
Il sentimento che l'anima al presente, ecco la sola musa ispiratrice del vero poeta, il solo che egli provi inclinazione ad esprimere.
Quanto più un uomo è di genio, quanto più è poeta, tanto più avrà de' sentimenti suoi propri da esporre, tanto più sdegnerà di vestire un altro personaggio, di parlare in persona altrui, d'imitare, tanto più dipingerà se stesso e ne avrà il bisogno, tanto più sarà lirico, tanto meno drammatico.
In fatti i maggiori geni e poeti che hanno coltivata la drammatica, (coltivata perchè l'hanno creduta poesia, ingannati dal verso, come Virgilio fece un poema epico perchè credè che Omero ne avesse fatto), peccano sempre in questo, di dar se stessi più che altrui.
V.
p.4367.
L'estro del drammatico è finto, perch'ei dee fingere: un che si sente mosso a poetare, non si sente mosso che dal bisogno d'esprimere de' sentimenti ch'egli prova veramente V.
p.4398.
Noi ridiamo delle Esercitazioni de' sofisti: che avrà detto Medea ec.
che direbbe uno il quale ec.
Così delle Orazioni di finta occasione, come tante nostre del 500, cominciando dal Casa.
Or che altro è la drammatica? meno ridicola perchè in versi? Anzi l'imitazione è cosa prosaica: in prosa, come ne' romanzi, è più ragionevole: così nella nostra commedia, dramma in prosa, ec.
[4358]L'imitazione tien sempre molto del servile.
Falsissima idea considerare e definir la poesia per arte imitativa, metterla colla pittura ec.
Il poeta immagina: l'immaginazione vede il mondo come non è, si fabbrica un mondo che non è, finge, inventa, non imita, non imita (dico) di proposito suo: creatore, inventore, non imitatore; ecco il carattere essenziale del poeta.
Quum philosophus ille (Plato), primus, ut nobis videtur, ex aliquot generibus, MAXIME SCENICO, poëticae arti naturam affingeret??(????? etc.
Primariam illius sententiam de arte poëtica suscepit Aristoteles in celebratiss.
libello, correctam quidem passim a se, verum ne sic quidem explicatam, ut cuique generi Carminum satis conveniret; adeo didascalicum genus ab eo prorsus excluditur.
Neque post Aristot.
quisquam philosophor.
veram vim illius artis aut historicam interpretationem recte assecutus videtur.
(Wolf.
36.
p.
CLXIV-V.).
Questa definizione di Platone, definizione di quel genere dialettico, esercitativo, anzi ludicro, secondo cui egli metteva p.e.
la rettorica colla?????????( ec.
(v.
il Gorgia, e il Sofista, specialmente in fine.), è la sola origine di questa sì inveterata opinione che la poesia sia un'arte imitativa.
V.
p.4372.
fine.
Ma, lasciando questo discorso ad altra occasione, basta ora rispondere che in origine e presso i greci (come tutte le cose in origine sono più ragionevoli), i drammi furono assai più brevi componimenti che ora, e quasi senza piano, cioè con intreccio semplicissimo.
Omnino vero utilissimum esset, undecumque collecta unum in locum habere, quae in libris veterum vel praecepta de arte poëtica, vel iudicia de poëtis suis sparsim leguntur.
[4359]Docerent ea, ni fallor, cum optimis, quae exstant, Carminibus comparata, quam sero Graeci in poeti didicerint TOTUM PONERE, ac ne Horatium quidem, qui illud praecipit, eius praecepti eosdem fines ac nostros philosophos constituisse.
Erunt ei praecipue haec disquirenda, qui dramata Graecorum ad antiquae artis leges exigere volet.
Quodsi in his saepius ab historica ratione deflexit Aristoteles, tanto magis admiranda est viri perspicacitas, qua saeculum suum praecucurrit.
V.
p.4458.
(Wolf §.29.
p.
CXXV.
not.)
Del resto, vedesi insomma che l'epica, da cui apparentemente derivò la drammatica280 (anzi piuttosto da' canti, non ancora epici, ma lirici, de' rapsodi: Wolf.), si riduce per origine alla lirica, solo primitivo e solo vero genere di poesia: solo, ma tanto vario, quanto è varia la natura dei sentimenti che il poeta e l'uomo può provare, e desiderar di esprimere.
(29.
Agos.
1828.).
V.
p.4412.
fine.
Quanti errori, assurdi, contraddizioni per aver voluto giudicare Omero secondo i costumi, le opinioni, le instituzioni moderne o più note, ed applicarle a' suoi poemi! Si è supposta in lui una mostruosa mescolanza di dialetti, perchè il dialetto o lingua ch'egli usò, si divise poi in più dialetti diversi.
V.
p.4405.
Si è creduto ch'egli fosse esattissimo pittore de' costumi eroici, greci e troiani, quando in fatti egli non ha dipinto che i costumi de' suoi propri tempi, ed ai troiani ha dato nomi e costumi greci.
V.
p.4408.
fin.
(Necesse haberem longam disputationem ingredi de omni ratione qua Homerus in descriptione heroicae vitae versari solet.
Non enim apud illum nisi bis terve hoc genus reperio eruditae artis, quod poëtae [4360]cultiorum aetatum affectant, quum superiorum fabulosa gesta scenae reddentes cavent sedulo, ne priscam sinceritatem novis moribus infucent, quo facilius lectorib.
vel spectator., propter antiquitatis peritiam incredulis, imponant, eosque rebus ac personis, quibus cummaxime volunt, interesse et tota mente quasi cum illis vivere cogant.
Wolf.
loc.
cit.
alla p.4343.
§.1.
p.
XCII.
arte non posseduta neanche dai drammatici greci.
Scilicet, ut nihil dicam de more Tragicorum (graec.), novas consuetudines in heroicum aevum transferendi, ec.
§.19.
p.
LXXXIII.
not.): e poi nel tempo stesso, come se Omero avesse avuto e descritto opinioni caratteri e costumi moderni, egli è stato ripreso per le assurdità, le inumanità ec.
che a giudicare i suoi poemi secondo queste opinioni e costumi, vi si ritrovano.
(V.
le mie osservazioni sopra il dritto delle genti a que' tempi, la compassione, il patriotismo ec.
ec.) Altro di questi errori vedilo p.4383-4.
Finalmente gli si è attribuita un'intenzione e un'arte di poema epico, ch'egli non ha mai avuta, e che gli è d'assai posteriore; e poi egli è stato straziato, deriso ec.
perchè i suoi poemi in mille cose si son trovati lontanissimi dal rispondere alle regole di quest'arte, che noi dicevamo aver cavate da essi; a quel piano, che noi abbiamo formato ed attribuito loro; a quell'unità che noi abbiam fatto l'onore di prestar loro ec.
(31.
Agos.
1828.).
Ma ben in cose più gravi di queste, ad errori ed assurdi ben più dannosi, ci ha tratti e trae di continuo la nostra frenesia di volere accomodare ogni cosa al nostro modo di vedere, e spiegare ogni cosa secondo le nostre idee.
(30.
Agosto.
1828.)
M.
Bilderdijk, poeta il più riputato degli Olandesi viventi, ed anche famoso erudito e scienziato (viveva 1826.), in una memoria van het Letterschrift [4361](sur les caractères d'écriture), in- 8°.
Rotterdam 1820., adhère à l'opinion que les anciens alphabets ne contenaient que des consonnes.
(Bull.
de Féruss.
loc.
cit.
alla p.4312.
t.6.
1826.
art.152.
p.183.) Questo però per ragioni e spiegazioni diverse da quelle da me addotte altrove.
(31.
Agosto 1828.)
Alla p.4340.
Il a paru cette année (1824.) à Leipzig un livre qui doit attirer l'attent.
des amat.
de la littér.
slavonne.
C'est un recueil de chansons serviennes en 3.
vol.
publié par Vouk Stéphanovitch littérateur servien très connu et auteur d'une grammaire et d'un lexique servien.
Voici le compte qu'en a rendu le journal des savans de Goettingue (1823.
n.177.
et 178.) "Ces chants serviens n'ont point été émpruntés aux vieilles chroniques; ils ont été recueillis de la bouche même du peuple.
Comme ils ne furent jamais écrits, jamais non plus ils n'ont ni vieilli ni ne sauraient vieillir".
Ib.
t.5.
Janv.
1826.
art.
24.
p.26.
(31.
Agos.
1828.).
V.
p.4372.
Vouk Stéphanovitch et quelques autres littérateurs serviens modernes ont cru bien faire d'introduire de nouvelles lettres ainsi qu'une orthographe étrangère tout-à-fait barbare chez les Slaves.
Pourquoi ne pas s'en tenir à l'ancien alphabet cyrillien? (V.
il pensiero precedente e quelli a cui si riferisce).
Ib.
extrait du Fils de la patrie (Giorn.
russo), n.26, p.241, 1824.
(31.
Agos.
1828.)
Commentatio historico-critica de Rhapsodis.
in 4°.
de 22 pag.
Vienne 1824.
Cet opuscule contient, en premier lieu, l'étymologie du mot (?????(?.
(?(???(?((???????(??(?(?, ou (?(???(?(?(?((??(?(????.
L'Auteur [4362]expose ensuite les raisons qui lui font adopter cette étymologie.
'P(??????(?(? est expliqué d'après Wolf (§.23.
p.
XCVI.
not.
dei Prolegom.
ec.): Carmina modo et ordine publicae recitationi apto connectere.
V.
p.4366.
'????????( et '????(??? sont désignés comme synonymes dans le sens de (??????(.
Viennent ensuite des obss.
historiques sur l'art des rhapsodes grecs, divisées en 4 périodes.
La 1.
va jusqu'à Homère; la 2.
comprend l'âge d'or des rhapsodes, jusqu'à Pisistrate; la 3, l'âge d'argent, jusqu'à Socrate; la 4, l'âge d'airain, s'occupe de la dégradation de l'art des rhapsodes.
L'énumération des rhapsodes distingués termine cet opuscule.
Ib.
Mars, art.231.
p.170.
(Agos.
1828.)
Alla p.4312.
Plusieurs peuplades de l'Afrique, de l'Amérique ou de la Polynésie, chez lesquelles une écriture tout-à-fait étrangère s'est introduite avec la prédication du christianisme, lorsque leur langage avait été élaboré, dans l'absence de toute écriture, pendant une longue suite de siècles, pouvaient etc.
Ib.
1826.
t.5.
p.338-9.
art.485.
Alla p.4340 fin.
Dissertatio, histor.
inaug.
de Guilielmo Tellio, libertatis Helveticae vindice, quam examini submittet J.-J.
Hisely.
In 8° VIII et 69.
pag.
Groningen, 1824.
(Bek's Allg.
Repertor., 1825., 1r vol., p.213.)...
Dans le chap.2.
l'aut.
examine les faits historiques attaqués par Freudenberger.
Il résulte de cet examen que G.
Tell est injustement accusé d'homicide.
Ib.
1826.
t.6.
art.138.
p.162.
V.
p.4372.
Alla p.4322.
fin -.
M.
Granville Penn donne lecture (à la séance du 21 juin 1826, de la Société royale de Littérature de Londres) d'une notice intéressante sur le mètre du premier vers de l'Iliade.
Des éditeurs et commentat.
modernes se sont efforcés de démontrer que ce vers pouvait être [4363]rendu métrique (chi ne dubita, alterandolo a piacere?); cependant une grande autorité classique (Plutarque, de Profect.
virtut.
sentiend.
c.9,) le déclare non-métrique ((??????).
(E così chiamano gli antichi molti altri de' versi d'Omero.
V.
p.4414.) Pour le rendre métrique, dans leur sens, suivant la construction ordinaire du vers, ils ont contracté ??(?, du mot ???((???(?, (sic) en ??.
Dans un autre passage Plutarque, expliquant dans quel sens il appelle ce vers non-métrique, avance que le 1.r.
vers de l'Il.
contient le même nombre de syllabes que le 1.r.
vers de l'Odyssée, et qu'il en est de même du dernier vers de Il.
à l'égard du dernier vers de l'Od.
(Sympos., l.9., c.3.) Or, le 1r vers de l'Odys.
se compose de 17 syllabes; savoir de 5 dactyles et d'un spondée, nombre exact contenu dans le vers, ?(?????(????????(??(????????(??????????????(???.
C'est pourquoi M.
Penn pense que le poëte, en articulant le vers, fit une pause au pentamètre, qui se termine par (?(, et renouvela l'arsis sur la syllabe suivante: ????????|???????(??|?(???????|??????|?(??????|?????.
L'auteur soutient qu'il y a, malgré la transgression des lois du mètre, dans la réplétion et la volubilité du vers exordial, une magnificence d'images semblable à la première irruption des eaux d'une rivière, au moment où l'on ouvre l'écluse qui les retient, et avant que ces eaux, reprenant leur pente naturelle, coulent d'un cours uniforme et régulier; ce qui paraît beaucoup plus analogue au début de ce poëme majestueux, que le mètre rigoureusement mesuré qu'on lui a imposé.
Bull.
etc.
1826.
t.6.
art.207.
p.239.
Il principio [4364]dell'Iliade, secondo Müller (v.
la p.4321.
lin.16.) non è di Omero, ma aggiunto da' ???????????(.
Se ciò è vero, che dir de' versi dell'eta omerici, se si trovano ametri anche quelli di tempi posteriori a Pisistrato?
Alla p.4170.
fin.
La casa delle pitture, c'est ainsi qu'on nomme une maison découverte à Pompéi à cause des fresques quelle offre, les plus belles et les mieux conservées de toutes celles qu'on a trouvées jusqu'en ce moment.
Le 12 février 1825, on commença à débarrasser l'entrée de cette maison.
On trouva sous la porte un fragment de mosaïque d'un travail médiocre.
Il représente un grand chien, la chaîne au cou, dans la position de défendre l'entrée de la maison.
Au bas se trouvent les mots suivans: CAVE CANEM.
Bull.
de Féruss.
loc.
cit.
alla p.4312.
janv.
1826.
t.5.
art.4°.
p.45.
(2.
Sett.
1828.)
M.
Letronne (Nouvel examen de l'inscription grecque déposée dans le temple de Talmis en Nubie par le roi nubien Silco.
(iscrizione illustrata già innanzi da Niebuhr Inscription.
Nubiens.
Romae 1820.) Journal des Savans, 1825.) examine ensuite pourquoi la langue grecque est employée dans l'inscription; ce qu'il explique par l'introduction (parmi les Nubiens) des livres saints et des liturgies écrites en cette langue.
En effet, le style même de l'inscription, ces tournures bibliques, byzantines et d'une moderne grécité, prouvent assez clairement que l'usage de la lang.
gr.
n'a eu lieu dans ces contrées qu'après, ou plutôt à cause de l'introduct.
de la rel.
chrétienne.
...
De toutes les inscriptions grecques païennes examinées [4365]par M.
Letronne, il ne s'en est trouvé aucune au delà des limites de l'empire romain; une fois cette ligne franchie, tout ce qui est écrit en grec exprime des idées chrétiennes.
Ainsi M.
Letronne, après avoir prouvé (contro l'opin.
di Niebuhr) par une foule de rapprochemens philologiques sur le style de l'inscript., qu'elle appartenait à un roi chrétien, prouve ensuite que...
ce n'est qu'au christianisme qu'on doit la connaissance de la lang.
grecq.
dans ces contrées.
Bull.
de Féruss.
l.c.
alla p.4312.
janv.
1826.
t.5.
art.36.
p.40-41.
Altro mezzo di universalità per la lingua greca a quei tempi.
L'iscrizione secondo Letronne non è più antica della metà circa del 6°.
sec.
Niebuhr, che la fa pagana, la mette alla fine del sec.3°.
(2.
Sett.
1828.).
V.
p.4471.
Alla p.4336.
marg.
Trovo anche ne' Rusticali caallo, portaa per portava, e infiniti simili, sempre.
Di qui viene ancora l'imperf.
dicea, sentia ec.
per diceva ec.
adottato nella lingua scritta, ma che non si ode mai se non in Toscana.
Va'hia per vai via, cioè va via (imperativo,): volgo toscano.
(2.
Sett.
1828.)
Chi suppone allegorie in un poema, romanzo ec.; come sì è tanto fatto anticamente e modernamente nell'Iliade e Odissea; come fece il Tasso medesimo nella sua Gerusalemme; come ora il Rossetti nel comento alla Divina Commedia che si stampa in Londra, la vuol tutta allegorica, allegorico il personaggio di Francesca da Rimini, allegorico Ugolino ec.; distrugge tutto l'interesse del poema ec.
Noi possiamo interessarci per una persona che sappiamo interamente finta dal poeta, drammatico, novelliere ec.; non possiamo per una che supponghiamo allegorica.
Perchè allora la falsità è, e si [4366]vede da noi, nell'intenzione stessa dello scrittore.
(2.
Sett.
1828.).
V.
p.4477.
Togliendo dagli studi tutto il bello (come si fa ora), spegnendo lo stile e la letteratura, e il senso de' pregi e de' piaceri di essi ec.
ec., non si torrà dagli studi ogni diletto, perchè anche le semplici cognizioni, il semplice vero, i discorsi qualunque intorno alle cose, sono dilettevoli.
Ma certo si torrà agli studi una parte grandissima, forse massima, del diletto che hanno; si scemerà di moltissimo la facoltà di dilettare che ha questo bellissimo trattenimento della vita: quindi si farà un vero disservizio, un danno reale (e non mediocre per Dio) al genere umano, alla società civile.
Alla p.4362.
Alterum errorem iam sublatum puto (cioè già riconosciuto generalmente dagli eruditi), quo ex falsa notatione nominis (??(??( collegerunt quidam, versatam esse operam eorum in versib.
passim excerpendis et consarcinandis ad modum Centonum, quales ex Hom.
a sanctis animis facti extant ridiculae ineptiae in summa gravitate rerum.
Wolf.
§.23.
p.
XCVI-II.
Tolto questo errore (che per altro è ancora comune nel volgo degli studiosi), il solo nome di rapsodi e di rapsodie sarebbe dovuto bastare ad avvertirci che le poesie omeriche non furono che canti staccati; siccome la tradizione costante dell'antichità che da Pisistrato, o per suo ordine, fossero primieramente raccolti e ordinati come ora sono i versi d'Omero, (Wolf.
§.33.), doveva bastare a mostrarci sì la suddetta cosa, e sì che Omero e gli altri non lasciarono scritte quelle poesie.
Pure per iscoprir queste verità ci è voluto acume grande, per avanzarle ardire, e fino a Wolf è avvenuto in questa ciò che avviene ancora in mille altre cose, e talune più gravi assai, che gli uomini non hanno alcuna difficoltà di conciliare, o piuttosto di congiungere ciecamente insieme credenze e nozioni [4367]incompatibili.
Alla p.4347.
È cosa dimostrata che il piacer fino, intimo e squisito delle arti, o vogliamo dire il piacere delle arti perfezionate (e fra le arti comprendo la letteratura e la poesia), non può esser sentito se non dagl'intendenti, perch'esso è uno di que' tanti di cui la natura non ci dà il sensorio; ce lo dà l'assuefazione, che qui consiste in istudio ed esercizio.
Perchè il popolo, che non potrà mai aver tale studio ed esercizio, gusti il piacer delle lettere, bisogna che queste sieno meno perfette.
Tal piacere sarà sempre minore assai di quello che gl'intendenti riceverebbero dalle lettere perfezionate (altrimenti non sarebbe in verità un perfezionamento quello che le mette a portata de' soli intendenti); e quindi ci sarà perdita reale; ma a fine che la moltitudine riacquisti il piacere perduto, e del qual solo ella è capace.
V.
p.4388.
Alla p.4357.
Il romanzo, la novella ec.
sono all'uomo di genio assai meno alieni che il dramma, il quale gli è il più alieno di tutti i generi di letteratura, perchè è quello che esige la maggior prossimità d'imitazione, la maggior trasformazione dell'autore in altri individui, la più intera rinunzia e il più intero spoglio della propria individualità, alla quale l'uomo di genio tiene più fortemente che alcun altro.
Alla p.4351.
È anche insufficiente il dire che la lingua dell'immaginazione precede sempre quella della ragione.
Nel nostro caso, cioè nella Grecia a' tempi di Solone, ed anche a' tempi stessi d'Omero, già molto colti, (e similmente in tutti i casi dove trattasi di poesia e di prosa colta e letteraria), l'immaginazione avea già dato alla ragione tutto il luogo [4368]che bisognava perchè questa potesse avere una sua lingua.
(5.
Sett.
1828.)
Col perfezionamento della società, col progresso dell'incivilimento, le masse guadagnano, ma l'individualità perde: perde di forza, di valore, di perfezione, e quindi di felicità: e questo è il caso de' moderni considerati rispetto agli antichi.
Tale è il parere di tutti i veri e profondi savi moderni, anche i più partigiani della civiltà.
Or dunque il perfezionamento dell'uomo è quello de' cappuccini, la via della penitenza.
(5.
Sett.
1828.)
I detti, risposte ec.
che Machiavelli attribuisce a Castruccio Castracani (nella Vita di questo), sono tutti o quasi tutti gli stessissimi che il Laerzio ec.
riferiscono di filosofi antichi, mutati solo i nomi, i luoghi ec.
Machiavelli del resto non sapeva il greco, poco o nulla il latino, ed era poco letterato.
Non sarebbe maraviglia ch'egli avesse seguito una tradizione popolare che avesse conservati que' motti mutando i nomi, e attribuendoli al personaggio nazionale di Castruccio, noto per singolare acutezza e prontezza d'ingegno.
Il popolo fiorentino racconta ancora di Dante e dello stesso Machiavello vari tratti che si leggono negli antichi greci e latini, come quello di Esopo che diede un asse a chi gli tirò una sassata ec., il qual tratto (con modificazioni accidentali e non di sostanza) si racconta dal volgo in Firenze di Machiavelli.
(Tengo queste cose da Forti e da Capei).
Così non solo le nazioni, ma le città, tirano alla storia ed a' personaggi propri, e in somma alle cose ed alle persone a se più cognite, i fatti delle storie altrui, noti al volgo per antiche tradizioni orali.
A Napoli resta ancora in proverbio la sapienza e dottrina di Abelardo: [4369] ne sa più di Pietro Abailardo (Capei).
In ogni modo quel libro di Machiavelli farebbe sempre al mio proposito molto bene.
V.
p.4430.
Ed allo stesso proposito spetta quell'uso antichissimo e continuato perpetuamente, di attribuire agli autori più celebri le opere di autori anonimi, o sconosciuti, o di nome poco famoso; le opere, dico, appartenenti a quel tal genere in cui quegli autori hanno primeggiato; e ciò specialmente quando quegli autori sono i modelli e i capi d'opera nel genere loro.
Quindi i tanti poemi attribuiti falsamente ad Omero, dialoghi morali ec.
a Platone, opere filosofiche ad Aristotele, orazioni a Demostene, omelie, comenti scritturali ec.
a S.
Crisostomo S.
Agostino ec.
V.
p.4414.
4416.
Quanto un autore è più celebre e primo nel suo genere, tanto è più copiosa la lista de' suoi libri apocrifi.
Raro fra gli antichi o ne' bassi tempi quell'autore celebre, o riconosciuto per primo nel suo genere o nel suo secolo, che non abbia oppure spurie apocrife, esistenti o perdute.
I detti Padri ne hanno quasi altrettante quante sono le genuine.
Così Platone ec.
Di molte di queste la critica non può scoprire i veri autori; altre si trovano o citate, o anche in alcuni loro esemplari, coi veri nomi, e nondimeno comunemente vanno sotto i nomi falsi, perchè i veri son di persone poco note.
- Dans le ms.
de Paris, qui, suivant les critiques, est le plus ancien et le meilleur, l'ouvrage a pour titre ??????(?? ????(???????(?(????; mais dans l'index, qui est écrit de la même main, comme le reste du ms.
(qui contient en outre les problèmes d'Aristote), on le qualifie de ??????(?? ( ????(???????(?(????.
Le cod.
vaticanus que Amati appelle praestantissimus, donne dans cette dernière forme le nom de l'auteur; et dans le ms.
de la bibl.
laurentiane, l'inscript.
porte [4370]'????(???????(?(????.
Bull.
de Férus.
l.c.
alla p.4312.
tom.8.
p.11.
art.12.
1827.
juill.
- Essendo incerto (?(????? l'autore di quel trattato, fu detto: egli è di Dionisio d'Alicarnasso o di Longino: non per altro se non perchè nella media grecità questi furono i retori tecnici più conosciuti, i capi del genere rettorico.
Esempio insigne del modo con cui si procedeva in simili attribuzioni: di Dionisio o di Longino: quasi vi fosse alcuna analogia fra lo scrivere di Dionisio, autore del 1.
secolo, e quel di Longino ch'è del 3.
Intanto la Critica riconosce manifestamente e senza molta fatica che quel trattato non può essere nè dell'uno nè dell'altro.
(Bull.
ec.
ibidem.) - Weiske e l'autore di un libro pubblicato a Londra 1826.
intitolato Remarks on the supposed Dionysius Longinus, riportano quel trattato al secolo d'Augusto.
Amati l'attribuisce veramente a Dionisio d'Alicarnasso, non avendo osservata (come non l'ha nessun altro) la vera ragione per cui i mss.
parig.
e vatic.
hanno il nome di Dionisio; e che, oltre la totale differenza dello stile, quel trattato è contro Cecilio Calattino, il quale fu amico di Dionisio Alicarnasseo, cosa parimente non osservata da altri.
V.
p.4440.
Les amours de Cydippe et d'Acontius nous sont connues, surtout par les lettres qu'Ovide leur attribue dans ses Héroïdes.
Callimaque fut la source où puisa Ovide: M.
Buttmann (Ueber, die Fabel der Kydippe.
Sur la fable de Cydippe, par Philippe Buttmann.
Mémoir.
de l'Acad.
de Munich; to.
9.
ann.
1823-1824., partie philologiq., p.199-216.) rassemble et discute les fragmens de ce dernier [4371]poëte, où il est question de Cydippe.
Cette fable, si nous en croyons le savant professeur, est identique avec l'histoire de Ctesylla (sic) et d'Hermochares, rapportée par Antoninus Liberalis et Nicander Bull.
etc.
juill.
1827.
t.8.
art.34.
p.35.
- E quante altre favole, o racconti appartenenti a tempi mitici o eroici, si trovano ripetuti con diversi nomi e luoghi in diversi scrittori, non solo greci e latini, ma anche greci solamente! - Codro, Eretteo ec.
I Deci ec.
Le combat de trente Bretons contre trente Anglais, publié d'après les manuscrits de la Bibliothèque du roi, par M.
Crapelet, imprimeur.
Paris, 1827.
Long-temps l'authenticité de ce combat fut contestée, et on n'avait pu produire jusqu'ici qu'un seul ms.
de 1470, conservé dans la bibl.
de Rennes.
L'heureuse découverte du récit en vers du Combat des Trente, faite dans un recueil de pièces mss.
de la Bibl.
du Roi, par le chev.
de Fréminville, donna lieu, en 1819, à une première publication d'un nouveau document; mais il était important que le texte fût reproduit avec la plus scrupuleuse exactitude.
M.
Crapelet a complété tout ce que laissait désirer à cet égard la 1.
édit.
Il a fait suivre cette publication d'une traduct.
littérale du poëme et d'une autre relation du combat, extraite des chroniques de Froissart.
L'ouvrage est orné d'une planche représentant le monument élevé en mémoire de ce combat, et les armoiries des 30 chevv.
bretons, dessinées d'après les armoriaux de la Bibl.
du Roi, et d'autres armoriaux particuliers et inédits.
(Ib.
t.8.
p.389-90.
art.407.
octob.
1827.) - V.
nel Guicciardini [4372]ec.
il famoso combattimento dei 10 italiani e 10 francesi all'assedio di Barletta sotto il Gran Capitano; e quello di un Bavaro e di un italiano nel Giambullari, riferito nella mia Crestomazia, p.23.
- Orazi e Curiazi ec.
(9.
Sett.
1828.)
Hordeum - fordeum.
V.
Forcellini.
Alla p.4350.
marg.
I sonetti, canzoni ec.
ed anche lunghi poemi in istile e forma puerile, di cui abbondavano prima di Dante le lingue volgari, non solo italiana ma francese spagnuola ec., non costituivano e non erano considerati costituire una letteratura.
V.
p.4413.
Alla p.4356.
L'entusiasmo l'ispirazione, essenziali alla poesia, non sono cose durevoli.
Nè si possono troppo a lungo mantenere in chi legge.
Alla p.4361.
Di queste poesie serviane sono state fatte, dopo la pubblicazione di Wuk, delle traduzioni ed imitazioni in tedesco.
Ib.
févr.
1827.
art.156.
p.124.
t.7.
V.
p.4399.
Alla p.4362.
Guillaume-Tell et la Révolution de 1303; ou Histoire des 3 premiers cantons jusqu'au traité de Brunnen, 1315, et réfutation de la fameuse brochure Guillaume-Tell, fable danoise (répétée dans cet ouvrage); par J.-J.
Hisely, D.r en philosophie et belles-lettres.
In 8° Delft 1826.
(Ib.
févr.
1827.
t.7.
art.210.
p.182.)
Alla p.4358.
Il poeta non imita la natura: ben è vero che la natura parla dentro di lui e per la sua bocca.
I' mi son un che quando Natura parla, ec.
vera definizione del poeta.
Così il poeta non è imitatore se [4373]non di se stesso.
(10.
Sett.
1828.).
Quando colla imitazione egli esce veramente da se medesimo, quella propriamente non è più poesia, facoltà divina; quella è un'arte umana; è prosa, malgrado il verso e il linguaggio.
Come prosa misurata, e come arte umana, può stare; ed io non intendo di condannarla.
(10.
Sett.
1828.)
L'auteur (M.
Faber.
Synglosse, oder Grundsaetze der Sprachforschung.
Synglose, ou Principes des recherches sur les langues, par Junius Faber.
213.
p.
in-12°.
Carlsruhe, 1826.) a été amené par tous ces rapprochemens à conclure qu'il n'y a qu'une seule langue, et que ce que l'on nomme ordinairement langues, ne sont que les dialectes de cet idiome unique, dans lequel la forme, et non pas le fond ou l'essence des mots s'est modifiée; enfin, que cette essence des mots est contenue dans les racines qui ont existé dès le commencement, et dont on peut prouver l'origine par des raisonnemens physiologiques.
Depping.
Bull.
etc.
l.
cit.
alla p.4312.
Mars, 1827.
t.7.
art.231.
p.202.
- M.
Kärcher ne doute pas que les langues connues ne proviennent toutes d'une langue primitive; il se propose etc.
encouragé par le suffrage de M.
Goulianof, qui se propose, dit-il, de démontrer la certitude de cette dérivation universelle des idiomes d'un seul qui fut la souche de tous.
Il se pourrait que des critiques d'une autorité au moins égale à celle de M.
Goulianof, fussent d'un avis tout opposé.
Quoi qu'il en soit, et M.
Kärcher est bien le maître [4374]de préférer son opinion à celle des autres, etc.
Champollion-Figeac.
Ib.
Décem.
1827.
t.8.
art.430.
p.410.
(10.
Sett.
1828.)
M.
Lindemann (Novus thesaurus latinae linguae prosodiacus.
in 8° Zittaviae et Lipsiae, 1827.) s'est aussi attaché à la vieille prosodie (latine), à celle qui précéda Ennius, et qui est bien différente de celle que l'on nous enseigne aujourd'hui, ainsi que l'ont démontré des critiques modernes, et surtout M.
Hermann.
Bull.
de Féruss.
l.
cit.
alla p.4312.
mars, 1827.
t.7.
art.253.
p.221.
È dunque ragionevole quel ch'io dico altrove della mutata pronunzia prosodiaca greca a' tempi romani, de' sofisti ec.
e della sua influenza sulla struttura de' periodi ec.
(11.
Sett.
1828.)
Observations sur le meilleur système d'orthographe portugaise; par Rodr.
Ferreira da Costa.
(Memor.
da Acad.
real das scienc.
de Lisboa, tom.8, part.1, p.102.) En 1820 l'Académie de Lisbonne résolut de rédiger un vocabulaire orthographique pour son usage.
À ce sujet un de ses membres a cru devoir poser les principes d'après lesquels il faudrait procéder.
Il rappelle d'abord les divers systèmes auxquels on a ordinairement recours; les uns veulent écrire comme on prononce, d'autres veulent qu'on reste fidèle à l'étymologie, d'autres encore préfèrent l'usage général, d'autres encore combinent ces 3.
systèmes, ce qui en fait un 4e L'auteur en examine les avantages et les inconvéniens: ec.
Ib.
septem.
1827.
t.8.
art.216.
p.217.
Risulta dalle sue osservazioni che l'ortografia portoghese [4375]non è ancora fissata.
(11.
Sett.
1828.)
Alla p.4345.
Quaestiones Herodoteae; par le docteur C.-G.-L.
Heyse.
Part.1.
De vitâ et itineribus Herodoti; in 8° de 141.
p.; Berlin, 1827.
- sect.2.
De recitatione, quam Olympiae habuisse fertur Herodotus ol.
81.
sect.3.
Vitae decursus usque ad ol.
84, de recitatione Athenis habitâ, deque ec.
Bull.
etc.
Déc.
1827.
t.8.
art.425.
p.408.
(11.
Sett.
1828.).
V.
p.4400.
Lingua universalis communi omnium nationum usui accommodata; per A.
Rethy.
In 8°.
de 144.
pag.
Vienne, 1821.
(Leipzig.
Liter.
Zeitung; avr.
1827, p.758.) Bien que ce projet, de créer une langue universelle, contienne plusieurs bonnes idées, il n'offre cependant qu'une nouvelle preuve en faveur de l'opinion que la solution de ce grand problème restera inexécutable, tant que les sciences philosophiques ne seront point portées à un plus haut degré de perfection.
L'auteur s'étant attaché à reporter la construction de sa langue à celle de la langue qu'il affirme primitive, a fait violence à l'histoire des langues afin d'appuyer son système.
D'après lui, la langue primitive n'a été composée que de mots monosyllabiques, destinés à désigner les idées les plus générales, et qui, au moyen de leurs diverses combinaisons, suffisaient, dit-il, pour faire entendre toutes les idées combinées.
D'après la nature de cet aperçu fondamental, on peut se dispenser de suivre l'auteur dans ses applications.
Ib.
juillet, [4376]1827.
t.8.
art.2.
p.3.
(11.
Sett.
1828.)
Alphabet phonométrique; découverte de huit lettres nouvelles; par Virard.
In 8°.
Grenoble, 1827.
M.
Virard s'occupe, depuis plus de 20 ans, de tout ce qui se rapporte à la grammaire.
Par une heureuse combinaison dégageant la langue de toutes les lettres qui tiennent dans les mots une place oisive, arbitraire, et tout-à-fait inutile à la prononciation, il a atteint plus qu'aucun autre le moyen d'écrire comme on parle.
Les lettres et leur assemblage, dont il fait usage, ne répresentent que le son de la voix, et par les exemples qu'il donne, il ajoute à la démonstration de sa méthode qu'il ne croit point encore perfectionnée, appelant, sur ce sujet, les méditations des grammairiens les plus érudits.
Lorsque la prononciation sera notée d'une manière sûre et invariable, ce sera le moyen d'en conserver la pureté, de détruire le mauvais accent des provinces, de faire entendre à l'étranger le véritable son du mot et de transmettre en tout temps, d'âge en âge, un accent pur, inaltérable, et de perpétuer l'harmonie du discours, quand la langue sera devenue morte.
A.
Métral.
ib.
févr.
1828.
t.9.
p.131-2.
art.109.
Le 8 nuove lettere saranno per i suoni francesi che non corrispondono veramente a nessun de' segni dell'alfabeto latino.
Credo che lo scopo di M.
Virard non sia d'introdurre nell'uso una nuova ortografia, [4377]ma solo di perfezionare il metodo rappresentativo usato p.e.
in quei dizionari che hanno la prononciation figurée.
Sicchè la lingua francese (e simili) avrebbe bisogno di due scritture ec.
(13.
Sett.)
- Journal grammatical et didactique de la langue française.
rédigé par M.
Marle.
In 8., n.11 à 22.
Paris, 1827 et 1828...
L'esprit d'innovation gagne aussi la Société grammaticale (i compilatori di quel Giornale).
Voilà qu'on veut réformer l'orthographe de la langue française pour la soumettre plus directement à l'influence de la prononciation.
Nous répéterons ici ce que nous avons dit ailleurs, que l'orthog.
et la prononc.
sont réciproquement représentatives l'une de l'autre, mais à droits inégaux, c.
à d.
que l'orth.
a des titres primitifs inviolables, qui sa compagne doit d'abord respecter, et devenir ensuite belle et euphonique, si elle le peut, tout en rendant hommage aus droits de son aînée.
Ces droits primitifs de l'orth.
procèdent de l'origine même des mots, ou de l'étymologie: corrompre l'orth.
de ces mots aux dépens de l'étymologie et au bénéfice d'une manière d'écrire plus commode, pour l'ignorance surtout, c'est introduire la barbarie dans la langue, lui ouvrir une voie sans fin de corruption (l'es.
dell'italiano dimostra il contrario), et faire de tous les mots de la langue ce qu'une femme célèbre disait d'un peuple qui reniait ses notabilités historiques, une famille d'enfans trouvés.
La Société grammaticale doit renoncer à une [4378]entreprise que rien ne peut justifier.
(Voir le n.21.
du journal)...
Champollion - Figeac.
Ib.
Mars, 1828.
t.9 p.231 art.206.
(14.
Sett.
Domenica.
1828.
Firenze.)
Alla p.4330.
La 2e partie du travail de M.
Petit-Radel (Examen analytique et tableau comparatif des synchronismes de l'histoire des temps héroïques de la Grèce, par L.
C.
F.
Petit-Radel, de l'Institut royal de France.
1 vol.
in-4° de 296 pages.
Paris 1827.) est précédée d'une note de M.
Saint-Martin, dans laquelle ce savant académicien fournit un extrait des raisons qui ont engagé son confrère à adopter, pour époque de la prise de Troie, l'an 1199 avant J.
C., et à faire partir de cette base tous les calculs ascendans des dates portées sur le tableau.
Ib.
Avril.
1828.
t.9.
art.301.
p.329.
(16.
Sett.
1828.)
I SS.
Cirillo e Metodio, fratelli, monaci greci, chiamati Apostoli degli Schiavoni, nel nono secolo, introducendo nella Moravia e nella Pannonia la liturgia schiavona, (la lithurgie slavonne), cioè gli uffici divini in lingua schiavona (le service divin en langue slavonne), inventarono per iscriverla l'alfabeto schiavone (l'alphabet slavon), che è ancora in uso comune, e che porta il nome di alfabeto cirilliano.
Bull.
de Féruss.
ec.
passim, e specialmente février, 1828.
t.9.
p.163-7.
art.141.
(17.
Sett.
1828.)
(???? (cioè ???(???.
Hesych.) - sella.
(????(?? ec.
- sedeo.
(?????(??? ec.
- sedes.
(17.
Sett.
1828.)
Foscolo, Discorso sul testo e su le opinioni diverse prevalenti intorno alla storia e alla emendazione critica della Commedia di Dante.
- Prospetto (cioè sommario) del Discorso.
L'abuso delle minime [4379]date d'anni, (cioè de' minimi indizi di tempo ne' libri antichi), rannuvola più che non illustra la storia letteraria; e il rigettarle tutte, o fondare sistemi sopra le incerte, ha diviso novellamente i tre critici maggiori della età nostra, in Epicurei, Pirronisti, e Stoici.
Payne Knight, critico stoico.
- Discorso, §.15.
Un verso del libro sesto dell'Iliade basta a Wolfio, non solo a dare corpo, forza ed armi alla ipotesi del Vico, che Omero non abbia scritto poemi, ma inoltre a desumere in che epoca della civiltà del genere umano fosse incominciata la Iliade, e in quanti secoli, e per quali accidenti fosse continuata e finita, forse per confederazione del caso e degli atomi d'Epicuro.
(apparentemente Foscolo non avea letto Wolfio).
Heyne disponendo fatti, tempi e argomenti a cozzar fra di loro, forse per investire la filologia del diritto di asserire e negare ogni cosa, indusse il pirronismo nell'arte critica; e chi lo consulta,
mussat rex ipse Latinus
Quos generos vocet aut quae sese ad foedera flectat.
(Vuol dir che Heyne intorno alle questioni sopra Omero, non si decide, e tiene il metodo dell'Accademia, in utramque partem disputandi.) Al caso e agli atomi di Wolfio e al pirronismo di Heyne si aggiunse con alleanza stranissima lo stoicismo affermativo di Payne Knight illustratore recente di Omero; e incomincia: Octogesimo post Trojam captam anno, Mycenarum regnum tenente Tisameno Orestis filio jam sene, magna et infausta mutatio rerum toti Graeciae oborta est ex irruptione Dorum (Carmina Homerica a Rhapsodorum interpolationibus [4380]repurgata et in pristinam formam, quatenus recuperanda esset, tam e veterum monumentorum fide et auctoritate, quam ex antiqui sermonis indole ac ratione, redacta.
Nota.
È il titolo dell'Om.
di Knight col digamma, Lond.
1820.) - e dalla irruzione de' Doriesi, i quali costrinsero molto popolo Greco a rifuggirsi nell'Asia minore, la storia critica della lingua e della poesia omerica, e l'epoca e l'indole e la fortuna finor ignotissime del poeta, sono dedotte con arte e dottrina e perseveranza, e affermate con la dignità d'uomo che sente di avere trovato il vero.
Onde taluni che non possono persuadersi mai della probabilità di que' fatti, si sentono convinti alle volte dagli argomenti, e ascoltano con riverenza lo storico (sic) al quale non possono prestar fede.
(questo è il sistema esposto e seguito da Capponi, Lez.
2.a sulla lingua, Antologia, maggio 1828.) §.16.
Questo Payne Knight era uomo di forte intelletto; di non vaste letture, ma che parevano immedesimate ne' suoi pensieri e raccolte non tanto per nudrire i suoi studi, quanto per essere nudrite dalla sua mente.
Era nuovo e luminosissimo in molte idee; e quantunque ei potesse dimostrarne alcune e ridurle a principj sicuri, intendeva che tutte fossero assiomi ai quali non occorrono prove; e dalle conseguenze ch'ei ne traeva escludeva inflessibile qualunque eccezione, ond'erano inapplicabili, e sembravano assurde: ma quantunque ei parlasse energicamente ad esporle, non pareva o non voleva essere eloquente a difenderle; e quando s'accorse d'avere errato, lo confessò.
(Ob multos errores in libro de hac re Anglice scripto piacularem esse profiteor.
Prolegom.
in Homerum, sect.
CLI.
Nota.) Aveva [4381]signorili costumi, e animo libero e sdegnoso d'applausi; nè fra molti avversarj gli mancarono nobili lodatori: ed Heyne non lo cita che non lo esalti.
E certo se molti seppero notomizzare la poesia e la lingua Greca meglio di lui, pochi hanno potuto conoscerne l'indole al pari di lui; e nessuno lo ha mai preceduto, e pochi potranno seguirlo a investigarle nelle loro remotissime fonti.
Studiando le reliquie dell'antichità ad illustrare i tempi omerici ne radunò molte a grandissimo prezzo, e sono da vedersi nel Museo Britannico ov'ei per amore di letteratura e di patria, e con giusta ambizione di nome le lasciò per legato.
Venne, pochi mesi addietro, a visitarmi; e discorrendo egli intorno agli eroi più o meno giovani dell'Iliade, io notai che stando a' suoi computi, Achille sarebbe stato guerriero imberbe.
Risposemi, ch'ei non si dava per vinto; ma ch'ei cominciava a sentire la vanità della vita, e non gl'importava oggimai di vittorie.
Nè la poesia nè la realtà delle cose giovavano più a liberarlo dal tedio che addormentava in lui tutti i sentimenti dell'anima; e dopo non molti giorni, morì: ed io ne parlo perchè i suoi concittadini ne tacciono.
§.17.
Or quando scrittori di tanta mente per via di date congetturali prestano forme e certezza a nozioni vaghe e oscurissime, e le fanno risplendere come vere, ei costringono l'uomo, o alla credulità ed al silenzio, o a meschine fatiche e al pericolo di controversie, e per cose di poco momento al più de' lettori.
(Firenze.
19.
Sett.
1828.)
[4382]Ivi, §.150.
Senza ritoccare la questione (e ne discorro altrove (forse nell'articolo sull'Odissea di Pindemonte), e la tengo oggimai definita) se i due poemi sgorgavano da un solo ingegno nella medesima età, (Payne Knight, Carmina Homerica, Prolegomena, sect.
LVIII.
- e il volumetto, "A History of the text of the Iliad." Nota.) chi non vede che sono dissimili in tutto fra loro, e che tendevano a mire diverse? Perciò nell'Iliade la realtà sta sempre immedesimata alla grandezza ideale, sì che l'una può raramente scevrarsi dall'altra, nè sai ben discernere quale delle due vi predomini; e chi volesse disgiungerle, le annienterebbe.
Bensì nell'Odissea la natura reale fu ritratta dalla vita domestica e giornaliera degli uomini, e la descrizione piace per l'esattezza; mentre gli incanti di Circe, e i buoi del Sole, e i Ciclopi,
Cetera quae vacuas tenuissent carmine mentes,
compiacciono all'amore delle meraviglie: ma l'incredibile vi sta da sè; e il vero da sè.
(19.
Sett.
1828.)
Ivi, §.201.
Ma quale si fosse il tenore della lingua e della verseggiatura di Dante, non è da trovarlo in codice veruno; e in ciò la Volgata con la dottrina e la pratica dell'Accademia predomina sempre in qualunque edizione ed emendazione.
Avvedendosi "Che per difetto comune di quell'età" - e chi mai non se ne avvedrebbe quand'è più o meno difetto delle altre? - "l'ortografia era dura, manchevole, soverchia, confusa, varia, incostante, e finalmente senza molta ragione" (Salviati, Avvertim.
vol.1.
lib.3.
cap.4.
Nota) - anzi [4383]vedendola migliore di poco nel miracoloso fra' testi del Decamerone ricopiato dal Mannelli (Discorso sul Testo del Decam.
p.
XI.
seg.
pag.
CVI.
Nota) - parve agli Accademici di recare tutte le regole in una, ed è: - "che la scrittura segua la pronunzia, e che da essa non s'allontani un minimo che".
(Prefazione al Vocabolario, sez.
VIII.
Nota).
Guardando ora agli avanzi della Volgata Omerica di Aristarco, parrebbe che gli Accademici de' Tolomei fossero di poco più savj, o meno boriosi de' nostri.
La prosodia d'Omero, per l'amore di tutte le lingue primitive alla melodia, gode di protrarre le modulazioni delle vocali.
L'orecchio Ateniese, come avviene ne' progressi d'ogni poesia, faceva più conto dell'armonia, e la congegnava nelle articolazioni delle consonanti; e tanto era il fastidio delle troppe modulazioni, chiamate iati dagli intendenti, che ne vennero intarsiate fra parole e parole le particelle che hanno suoni senza pensiero.
Quindi gli Alessandrini alle strette fra Omero e gli Attici, e non s'attentando di svilupparsene, emendarono l'Iliade così che ne nasceva lingua e verseggiatura la quale non è di poesia nè primitiva, nè raffinata.
I Greci ad ogni modo s'ajutavano tanto quanto come i Francesi e gl'Inglesi; ed elidendo uno o più segni alfabetici nel pronunziare, non li sottraevano dalla scrittura; così le apparenze rimanevano quasi le stesse.
Ma che non pronunziassero come scrivevano, n'è prova evidentissima che ogni metro ne' poeti più tardi, e peggio negli Ateniesi, ridonderebbe; nè sarebbero versi, a chi recitandoli dividesse le vocali quanto il [4384]metro desidera ne' libri Omerici: e l'esametro dell'Iliade s'accorcerebbe di più d'uno de' suoi tempi musicali, se avesse da leggersi al modo de' Bisantini, snaturando vocali, o costringendole a far da dittonghi.
Però i Greci d'oggi a' quali la pronunzia letteraria venne da Costantinopoli, e serbasi nel canto della loro Chiesa, porgono le consonanti armoniosissime; ma non versi, poichè secondano accenti semplici e circonflessi, e spiriti aspri, e soavi - come che non ne aspirino mai veruno - ed apostrofi ed espedienti parecchi moltiplicatisi da que' semidigammi ideati in Alessandria, talor utili in quanto provvedono alla etimologia e alle altre faccende della grammatica.
Non però è da tenerne conto in poesia, dove la guida vera alla prosodia deriva dal metro; e il metro dipendeva egli fuorchè dalla pronunzia nell'età de' poeti? Ad ogni modo i grammatici Greci sottosopra lasciarono stare i vocaboli come ve gli avevano trovati, sì che ogni lettore li proferisse o peggio o meglio a sua posta.
Ma i Fiorentini non ricordevoli di passati o di posteri, uscirono fuor delle strette medesime con la regola universale - Che la scrittura non s'allontani dalla pronunzia un minimo che; e non trapelando lume, nè cenno di pronunzia certa dalle scritture, pigliarono quella che udivano.
Però mozzando vocali, e raddoppiando consonanti, e ajutandosi d'accenti e d'apostrofi, stabilirono un'ortografia, la quale facesse suonare all'orecchio non Io, nè lo Imperio, o lo Inferno; ma I', lo 'Mpero, lo 'Nferno: e con mille altre delle sconciature [4385]del dialetto Fiorentino de' loro giorni, acconciarono versi scritti tre secoli addietro.
§.202.
Queste loro squisitezze erano favorite dalla dottrina, che la lingua letteraria d'Italia fioriva tutta quanta nella loro città.
Lasciamo che ove fosse vera s'oppone di tanto alle dottrine di Dante, che non sarebbe mai da applicarla ad alcuna delle opere sue.
Ma avrebb'essa potuto applicarsi se non da critici ch'avessero udito recitare i versi di Dante a' suoi giorni? L'occhio umano, paziente, fedelissimo organo, è agente più libero e più intelligente degli altri, perchè vive più aderente alla memoria; ma non per tanto non può fare che passino cent'anni e che le penne tutte quante non si divezzino dalle forme correnti dell'alfabeto.
Così ogni età n'usa di distinte e sue proprie; onde per chiunque ne faccia pratica bastano ad accertarlo del secolo d'ogni scrittura.
Ma sono divarj permanenti nelle carte; arrivano a' posteri; e si lasciano raffrontare dall'occhio.
Non così l'orecchio; capricciosissimo, perchè raccoglie involontario, istantaneo e di necessità tutti i suoni; e gli organi della voce gli sono connessi, cooperanti passivi, e meccanici imitatori; e però niun uomo cresce muto se non perchè nasce sordissimo.
Di quanto dunque più preste e più varie e più impercettibili che la scrittura non saranno le alterazioni della pronunzia? Ma si rimutano senza che mai lascino, non pure le forme delineate, come ne' vocaboli scritti, ma nè una lontana reminiscenza.
Or chi mai fra' posteri potrà rintracciarle se non con l'orecchio? e dove le troverà egli? [4386]Ridomandandole all'aria, che se le porta? o al tempo che torna a ingombrare l'orecchio di nuovi suoni? ALLAGHERI, com'ei scrivevalo, e poscia ALIGIERI, ALLEGHIERI, ALLIGHIERI, era lungo o breve nella penultima? or è ALIGHIERI; ma in Verona s'è fatto sdrucciolo, ALIGERI.
Certo se gli arcavoli risuscitassero in qualunque città penerebbero ad intendere i loro nepoti.
§.203.
ed ult.
Ma perciò che i Fiorentini di padre in figlio continuarono a ingoiare vocali o rincalzarle raddoppiando consonanti, l'Accademia ideò che quel vezzo fosse nato a un parto co' loro vocaboli.
(Avvertim.
della Lingua, Vol.2.
p.129-160.
ed.
Mil.
de' Classici.
Nota.) Pur è sempre accidente più tardo; anzi comune ed inevitabile a ogni lingua parlata: e tutti i popoli con l'andare degli anni per affrettare e battere la pronunzia scemano modulazioni, perchè sono molli e più lunghe; e le articolazioni riescono vibrate insieme e spedite.
De' Greci è detto; e più numero tuttavia di vocali scrivono gli Inglesi, e pare che parlino quasi non avessero che alfabeto di consonanti: ma chi ne' loro poeti antichi leggesse all'uso moderno, non troverebbe versi nè rime.
Nè credo che altri possa additare poesia di gente veruna ove i fondatori della lingua scritta non si siano dilettati di melodia; e che non vi dominassero le vocali; e che poi non si diminuissero digradando.
Anche nella prosodia latina, che era meno primitiva e tolta di pianta da' Greci, e in idioma più forte di consonanti finali, regge l'osservazione; ed anche nelle reliquie di Ennio pochissime, pur le battute de' ventiquattro tempi dell'esametro [4387]su le vocali per via d'iato sono moltissime; e spesse in Lucilio; e parecchie in Lucrezio; non rare in Catullo; non più di sette, che io me ne ricordi, in Virgilio; e una sola in Orazio, nè forse una in Ovidio.
Or quante, se pur taluna è da trovarne in Lucano e gli altri tutti congegnatori intemperanti di consonanze, fino allo strepitosissimo Claudiano? Ben diresti che la divina commedia sia stata verseggiata studiosamente a vocali.
Ma che le modulazioni non prevalessero alle articolazioni de' versi, avveniva più presto in Italia che altrove; perchè il Petrarca aveva temprato l'orecchio alla prosodia Provenzale sonora di finali tronche più che la Siciliana che a Dante veniva fluida di melodia.
La lingua nondimeno per que' suoi fondatori fu scritta, nè mai parlata; e quindi i libri non avendo compiaciuto alle successive pronunzie, gli organi della voce hanno da stare obbedientissimi all'occhio.
Il danno della parola dissonante dalla scrittura nelle lingue popolari e letterarie ad un tempo (cioè la francese l'inglese ec.), è minore della sciagura che toccò alla Italiana, destinata anzi all'arte degli scrittori, che alla mente della nazione (vuol dire, scritta e non parlata, nè scritta pel popolo).
A questo i tempi, quando mai la facciano parlata da un popolo, provvederanno.
Per ora il potersi scrivere così che ogni segno alfabetico sia elemento essenziale del senso e del suono in ogni vocabolo, rimane pur quasi vantaggio su le altre sino da' giorni di Dante.
Onde mi proverò di rapprossimarla alla prosodia di tutte le poesie primitive, e alla ortografia che dove le lingue vivono scritte, ma non parlate, [4388]si rimane letteraria, permanente nelle apparenze, e svincolata de' suoni accidentali e mutabili d'età in età nelle lingue popolari (francese inglese ec.), e ne' dialetti municipali.
Forse così la lezione della divina commedia, perdendo i vezzi di Fiorentina ritornerà schietta e Italiana.
Fine del discorso.
(Firenze.
Domenica.
21.
Sett.
1828.).
V.
p.4487.
Nel principio, e nel risorgimento degli studi, si credeva impossibile un'ortografia volgare, un'ortografia che non fosse latina, nel modo stesso che una letteratura volgare e non latina; e le lingue moderne si credevano incapaci di ortografia propria, così appunto come di letteratura.
(21.
Sett.
Domenica.
1828.)
Alla p.4367.
Ci sarebbe ancora un altro partito, e ragionevolissimo.
Avere due poesie e letterature, l'una per gl'intendenti, l'altra pel popolo.
Così quelli non perderebbero, mentre questo ricupererebbe; non isparirebbero dal mondo i piaceri squisiti e divini (per chi gli può gustare) delle leterature perfezionate; ci potrebbe ancora essere chi provasse de' trasporti di piacere leggendo Virgilio, come ci sono e saranno intendenti che ne provino mirando un quadro di Raffaello ec.
ec.
(21.
Sett.
1828.)
Alla p.4355.
Sorte simile ad Omero ebbe anche in ciò il nostro Dante, il quale fino nello stesso sec.
14.
ebbe forse tanti diascheuasti, cioè limatori del suo poema, più o meno arditi, quanti copiatori: onde quelle enormi e continue discrepanze de' suoi codici e stampe anteriori alla edizione della Crusca.
V.
p.4412.
Alla p.4317.
marg.
Si legge così a Napoli anche l'Orlando innamorato del Berni e soprattutto la Gerusalemme del Tasso, e il popolo prende partito chi per l'uno di quegli eroi, chi per l'altro, e con tanto ardore, che dopo la [4389]lettura, discorrendo tra loro sopra quei racconti, e quistionando, talora vengono alle mani, e fino si uccidono.
Una notte al tardi, due del volgo di Napoli che disputavano caldamente fra loro, andarono a svegliare il famoso Genovesi per saper da lui chi avesse ragione, se Rinaldo o Gernando (Gerusalemme del Tasso).
Tengo tutto ciò dall'Imbriani padre, il quale mi dice che il popolo napoletano non ha bisogno che il lettore gli traduca quei poemi, ma che gl'intende da se.
In questo modo quei poemi si possono dir veramente pubblicati.
(22.
Sett.
1828.).
V.
p.4408.
Si dice con ragione che quasi tutta la letteratura greca fu Ateniese.
Ma non so se alcuno abbia osservato che questo non si può già dire della poesia; anzi, che io mi ricordi, nessun poeta greco di nome (eccetto i drammatici, che io non considero come propriamente poeti, ma come, al più, intermedii fra' poeti e' prosatori) fu Ateniese.
Tanto la civiltà squisita è impoetica.
(22.
Sett.
1828.).
Però, chi dice che la letteratura greca fiorì principalmente in Atene, dee distinguere, se vuol parlar vero, ed aggiungere che la poesia al contrario.
ec.
(22.
Sett.
1828.)
Chi presentandomi o raccomandandomi o parlando di me a qualcuno, uomo o donna, ha detto: mio grandissimo amico, grande ingegno, dotto ec.
ec., non ha fatto nulla.
Ci mancava la gran parola.
Chi ha detto: uomo celebre, mi ha proccurato accoglienze e distinzioni e ricerche.
Fama ci vuole, e non merito.
Anche qui si verifica quello che ho detto altrove, la sola fortuna fa fortuna.
Celebre equivale [4390]a ricco, nobile, potente, dignitario, ed altre fortune simili.
(22.
7.bre 1828.)
L'eroismo ci strascina non solo all'ammirazione, all'amore.
Ci accade verso gli eroi, come alle donne verso gli uomini.
Ci sentiamo più deboli di loro, perciò gli amiamo.
Quella virilità maggior della nostra, c'innamora.
I soldati di Napoleone erano innamorati di lui, l'amavano con amor di passione, anche dopo la sua caduta: e ciò malgrado quello che aveano dovuto soffrire per lui, e gli agi di cui taluni godevano dopo il suo fato.
Così gli strapazzi che gli fa l'amato, infiammano l'amante.
E similmente tutta la Francia era innamorata di Napoleone.
Così Achille c'innamora per la virilità superiore, malgrado i suoi difetti e bestialità, anzi in ragione ancora di queste.
(22.
Sett.
1828.)
Alla p.4354.
marg.
Potrebbe anco essere che i primi libri fossero in prosa, la prima applicazione della scrittura alla letteratura fosse alla prosa, continuando forse intanto a comporsi in versi senza scriverli, e consegnandoli solamente alla memoria, sì per l'inveterata abitudine, e sì per considerarsi la scrittura come non necessaria, anzi inutile, alla conservazione dei versi, e solo utile e necessaria a quella della prosa.
In tal modo potrebbe esser passato molto tempo dopo che si scriveva in prosa, prima che si avessero versi scritti, nel qual tempo non si sarebbero avuti libri che in prosa.
In tal caso, che mi par naturale, la prosa à son tour avria preceduto la poesia, come scritta, come opera di letteratura consegnata in libri.
(22.
Sett.
1828.).
V.
p.
seg.
Alla p.4318.
marg.
Ciclo epico, che comprendeva in varie poesie, [4391]incluse quelle d'Omero, la storia tutta del mondo, dalle Origini delle cose, cioè dalla teogonia ec.
fino ad Ulisse; ciclo raccolto, secondo un critico tedesco, forse vivente (Bull.
de Féruss.
ec.) che ha fatto sopra di esso ciclo una dissertazione particolare, poco dopo il tempo de' Pisistratidi.
Le poesie comprese in questo ciclo, e i loro argomenti, non erano certamente epici nel senso che noi diamo a questa parola: nondimeno il ciclo si chiamava epico, cioè storico o narrativo.
La poesia epica fu distinta dalla lirica, benchè anche??(?(?? si cantassero sulla lira.
ec.
(23.
Sett.
1828.)
Ridete franco e forte, sopra qualunque cosa, anche innocentissima, con una o due persone, in un caffè, in una conversazione, in via: tutti quelli che vi sentiranno o vedranno rider così, vi rivolgeranno gli occhi, vi guarderanno con rispetto, se parlavano, taceranno, resteranno come mortificati, non ardiranno mai rider di voi, se prima vi guardavano baldanzosi o superbi, perderanno tutta la loro baldanza e superbia verso di voi.
In fine il semplice rider alto vi dà una decisa superiorità sopra tutti gli astanti o circostanti, senza eccezione.
Terribile ed awful è la potenza del riso: chi ha il coraggio di ridere, è padrone degli altri, come chi ha il coraggio di morire.
(23.
Sett.
1828.)
Alla p.
qui dietro.
Tutto ciò in quanto a possibilità o verisimiglianza.
Ma in quanto a tradizione, par ch'ella provi che i libri in prosa o non precedettero, o solo di poco tempo, quegli in versi; poichè essa tradizione mette le prime prose greche nel principio del [4392]sec.
6.
av.
G.
C., tempo di Pisistrato che raccolse i versi Omerici, e tempo abbondante di altri poeti, i quali non pare al Wolf che potessero mancar di scrittura.
Certo che di essi la tradizione non porta, come di Omero, che i loro versi fossero raccolti e scritti posteriormente.
Nondimeno, benchè la tradizione non porti ciò neppur di Esiodo (V.
p.4397) (onde il Vico, lib.3.
p.400.
Talchè Esiodo, che lasciò opere di sè scritte, poichè non abbiamo autorità che da' Rapsodi fusse stato, com'Omero, conservato a memoria, si dee porre dopo de' Pisistratidi), pure il Wolf pone anche Esiodo fra que' poeti che non iscrissero, e le poesie esiodee (che egli reputa di vari autori) fra quelle che furono conservate lungamente per sola memoria.
- Certior quidem historia adhuc saeculo VI.
et V.
ante Chr.
Simonidi Ceo atque Epicharmo Siculo, antiquae Comoediae principi, satis insignes partes tribuit in litteris complendis et inveniendis novis, quas deinde cum prioribus in aptam seriem collectas a Callistrato quodam, ante alios Jonica Samos publice usurpavisse fertur.
Atq.
hoc Jonicum alphabetum 24 litterarum a populo Atheniensi tandem Euclide archonte, Olymp.
94, 2.
ante Chr.
403 receptum, nec ibi ante hoc tempus usum duarum longar.
vocalium publicatum tradunt plures et ex probatis auctoribus.
Adeo sero litteratura Graecorum absoluta est et redacta in ordinem, primum, ut multis de causis coniicio, in iis civitatibus quae Sicil.
et Magn.
Graeciam tenebant, tum in illa posthac litterarum conficientissima urbe, Athenis.
Sed cavendum est rursus ne tam serum usum scribendi credamus, aut in omni Graecia eodem tempore institutum.
Jones quidem quum tot aliis rebus [4393]Europae cognatae exemplum nitidioris cultus darent et humani et civilis, matureque variis artibus et commerciis florerent, vel tacente historia verisimile esset, eos huius quoque praeclarae rei utilitatem primos animadvertisse et ad eam studium et ingenium contulisse suum.
Quippe illis expectandus non fuit Callistratus Samius, ut aliquid scripto consignare tentarent: iam ante hunc papyro usi sunt; immo ante Simonidem et Epicharmum fuerunt lyrici poëtae, et Ionici et Aeolici, qui illo adminiculo faciendorum carminum carere vix possent.
Deniq.
in ea civitate (Athen.) quae antiq.
alphabetum diutissime retinuit, Olymp.
39.
minor numerus litterarum suffecit Draconis legibus ponendis.
Quidni idem numerus suffecerit maximis voluminibus, si modo ea tum usitata fuerunt, sive ex pellibus, sive ex papyro Aegyptia? Wolf.
§.16.
p.
LXII-V.
Certe Atticorum scriptorum non ante Persica tempora mentio fit aut signicatio cui non fidem deroget illius aevi et rei publicae facies et gravissimor.
auctorum silentium.
Sed non persequar quod tenere sine longis ambagibus non possum; ultro etiam concesserim, aliquanto ante Solonem Athenis hanc artem paullatim privato studio (del pubblico, in bronzo, marmo ec., non si dubita) usurpari coeptam: neque adeo dubito, quin id saeculis 8.
et 7.
in ceteris civitatibus, nominatim Joniae et Magnae Greciae, fecerint sollertiores quidam homines eorumq.
exemplum vel secuti vel ipsi rem auspicati sint poëtae nonnulli, si non Asius, Eumelus, Arctinus, alii, sub primis Olympp.
clari [4394]epicis Carminibus, at certe Archilochus, Alcman, Pisander, Arion et horum aequales: tamen si de universa Graecia et paullo tritiore usu artis institutoque conscribendorum librorum quaeris, iliud removendum non esse a Thaletis, Solonis, Pisistrati et eorum, qui Sapientes appellantur, aetate, i.e.
ea qua oratio metro solvi coepit, ita significat nobis historia artium Graecarum omnium, ut infantiam suam obliti populi testimonium minime desiderandum videatur.
De cultura prosae orationis ineunte saeculo ante Chr.
VI.
a pluribus et ipso Solone inchoata, deque causis novi incepti nihil hic habeo dicere: et quae ex veterum locis hauriri possunt, dicta sunt omnia.
etc.
Wolf.
§.17.
p.
LXIX-LXXI.
- De cultura prosae, cioè della prosa colta in qualche modo e letteraria.
Ma di una prosa rozza e mal culta, e simile a quella de' nostri ducentisti, niente impedisce di credere ch'ella fosse scritta in libri e privatamente (poichè in monumenti pubblici non è dubbio) innanzi che si scrivessero versi: anzi la verisimiglianza mi pare che vi conduca, ed io sono di questa opinione, a differenza di ciò che sembra credere il Wolf.
Però se per letteratura s'intendano libri scritti, io stimo, contro quello che si crede generalmente, che la letteratura prosaica precedesse in Grecia la poetica, cioè la scrittura della poesia.
(25.
Sett.
1828.)
Il Wolf conosce e cita per averlo preceduto nell'opinione che le poesie omeriche non fossero scritte, se non dopo, oltre Giuseppe ebreo, il Wood (inglese), il Rousseau e il Mairan; per l'opinione [4395]che esse da principio non costituissero poemi epici, ma non fossero che canti separati, raccolti poi da altri e ridotti nella presente forma, conosce e cita il Casaubono, il Bentley e l'abate Hedelin d'Aubignac, il cui libro, Conjectures académiques ou Dissertation sur l'Iliade, Paris 1715.
8°.
egli disprezza altamente.
Ma non nomina punto mai il nostro Vico, il quale de' cinque libri de' suoi Principj di Scienza nuova, 3a ediz.
Napoli 1744.
ne ha uno, cioè il 3° intitolato Della discoverta del vero Omero, tutto dedicato alle quistioni Wolfiane.
Nel qual libro, con minore abbondanza e sviluppamento di prove che il Wolf, ma pure con buone e forti ragioni, alcune delle quali non toccate da esso Wolf, asserisce e dimostra che Omero non lasciò scritto niuno de' suoi poemi (p.399.), poichè infin'a' tempi di esso Omero, ed alquanto dopo di lui non si era ritrovata ancora la Scrittura Volgare (p.394.); "che perciò i popoli greci cotanto contesero della di lui patria, e 'l vollero quasi tutti lor cittadino, perchè essi popoli greci furono quest'Omero (p.404.);" "che perciò varjno cotanto l'oppenioni d'intorno alla di lui età, perchè un tal'Omero veramente egli visse per le bocche e nella memoria di essi popoli greci dalla Guerra Trojana fin'a' tempi di Numa, che fanno lo spazio di quattrocentosessant'anni (p.404.)" (cioè che gli autori de' versi omerici vivessero e componessero successivamente dalla guerra troiana fino a Numa) che "la cecità, e la povertà d'Omero furono de' Rapsodi; i quali essendo ciechi, onde ogniun di loro si disse Omero ((????? in lingua [4396]ionica), prevalevano nella memoria; ed essendo poveri, ne sostentavano la vita con andar cantando i poemi d'Omero per le città della Grecia; de' quali essi eran'Autori; perch'erano parte di que' popoli, che vi avevano composte le loro Istorie;" (p.404.) "che quest'Omero sia egli stato un'Idea, ovvero un Carattere Eroico d'uomini greci, in quanto essi narravano cantando le loro storie;" (p.403.) "l'Omero Autor dell'Iliade avere di molt'età preceduto l'Omero Autore dell'Odissea;" (p.405.) "che quello fu dell'Oriente di Grecia verso Settentrione, che cantò la Guerra Trojana fatta nel suo paese: e che questo fu dell'Occidente di Grecia verso mezzodì, che canta Ulisse, ch'aveva in quella parte il suo Regno;" (p.405.) e, dicendo l'autor????(?(???? che Omero compose giovane l'Iliade e vecchio l'Odissea, che "Omero compose giovine l'Iliade, quando era giovinetta la Grecia; e 'n conseguenza ardente di sublimi passioni, come d'orgoglio, di collera, di vendetta; le quali passioni non soffrono dissimulazione ed amano generosità; onde ammirò Achille Eroe della Forza: ma vecchio compose poi l'Odissea, quando la Grecia aveva alquanto raffreddato gli animi con la riflessione: la qual'è madre dell'accortezza; onde ammirò Ulisse Eroe della Sapienza.
Talchè a' tempi d'Omero giovine a' popoli della Grecia piacquero la crudezza, la villania, la ferocia, la fierezza, l'atrocità: a' tempi d'Omero vecchio già gli dilettavano i lussi d'Alcinoo, le delizie di Calipso, i piaceri di Circe, i canti delle Sirene, i passatempi de' Proci, e di, nonchè tentare, assediar'e combattere le caste Penelopi [4397]i quali costumi tutti ad un tempo sopra ci sembrarono incompossibili" (p.404-5.) Finalmente "che i Pisistratidi Tiranni d'Atene eglino divisero, e disposero, o fecero dividere, e disponere i Poemi d'Omero nell'Iliade, e nell'Odissea: onde s'intenda quanto, innanzi, dovevan'essere stati una confusa congerie di cose; quando è infinita la differenza che si può osservar degli stili dell'uno, e dell'altro Poema Omerico." (p.399.)
(26.
Sett.
1828.)
Ecco l'Eroe (Achille), che Omero con l'aggiunto perpetuo d'irreprensibile canta a' Greci popoli in esempio dell'Eroica Virtù! il qual'aggiunto, acciocchè Omero faccia profitto con l'insegnar dilettando, lo che debbon far'i Poeti, non si può altrimente intendere, che per un'huomo orgoglioso, il qual'or direbbesi che non si faccia passare la mosca per innanzi alla punta del naso; e sì predica la Virtù puntigliosa; nella quale a' tempi barbari ritornati tutta la loro Morale riponevano i Duellisti: dalla quale uscirono le leggi superbe, gli ufizj altieri, e le soddisfazioni vendicative de' cavalieri erranti, che cantano i Romanzieri.
Ib.
lib.2.
p.322-3.
dopo avet descritto l'eroismo dell'Achille omerico, quanto sia lontano dalle idee nostre, ed anche antiche civili, circa il carattere eroico.
(26.
Sett.
1828.)
Alla p.4392.
marg.
Dice per altro il Wolf p.
XCVII-III.
§.23: Neque enim unius Homeri, sed et Hesiodi et aliorum Carmina, omneque epicum genus, mox lyricum quoque et iambicum, complexa est ars rhapsodorum.
E in nota, p.
XCVIII: Vide Plat.
de Legg.
[4398]II.
p.658.
D., in Jone p.530.
B.
(ed.
Steph.) Athen.
XIV.
p.620.
C.
Quanto ad Esiodo, ecco le sue parole.
Sed Hesiodum quum dico, omne illud tempus intelligo, in quod Hesiodeorum quae nunc feruntur operum confectio incidit.
Non uni enim illa tribuenda esse patet; et multo plura nomine eius ferebantur apud veteres.
In (?????? loci sunt multi??(?( venerandae vetustatis signati.
Theogonia autem et Scutum Herc.
et maxima pars eorum, quorum brevia fragmenta supersunt, Homerum toto certe saeculo subsequuntur.
Huius rei argumento est, quod in iis plures notiones novae exstant et imitationes locorum Homericorum, in primis terrarum et populorum auctior et explicatior notitia.
§.12.
not.
p.
XLII-III.
Alla p.4357.
L'imitazione drammatica non può essere spontanea e veramente secondo natura, se non in quanto a un solo personaggio, o 2 al più, e solo in alcune scene, cioè in quelle che corrispondano alla situazione attuale dell'animo del poeta.
Ma qui è sempre il poeta egli stesso che si dipinge, o piuttosto parla, sotto altro nome; e quella non è veramente imitazione, ma quasi un travestimento.
In tutti gli altri personaggi ed altre scene, la poesia è necessariamente sofistica.
Del resto, tali scene, dove il poeta esprimesse i suoi sentimenti, passioni ec.
attuali sotto nome di qualche personaggio storico, se si componessero staccate, potrebbero esser buona poesia: il poeta può aver buone ragioni per nascondersi sotto nome altrui; può trovarvisi, se non altro, più a suo agio; ed è anche poetico in qualche modo quel rapporto trovato ed espresso fra la propria situazione [4399]attuale, e quella d'alcun personaggio storico ec.
(28.
Sett.
1828.)
Alla p.4372.
Servian Popular Poetry.
Poésies populaires des Serviens, traduites en vers anglais par M.
Bowring.
Londr.
1827.
in- 12.
Ces poésies, dont il doit paroître bientôt une traduction française, sont extraites d'un recueil publié à Vienne en 1824 par Stephanovich Vuk, auteur d'une grammaire servienne.
Journ.
des savans, 1827.
p.445.
Juillet.
(29.
Sett.
1828.)
La Civilisation considérée sous le rapport du feu et relativement à la supériorité de l'homme sur le reste des animaux.
Paris, Baudouin frères, in 8° de 63 pages.
Prix 1.
fr.
50 cent.
Ib.
p.445.
1826.
Juillet, Livres nouveaux.
(2.
Ottob.
1828.)
Il reconnoît (M.
Poirson, autore di un compendio di storia romana stampato a Parigi, 1825 e segg., e difensore per altro della verità della storia de' primi secoli di Roma) qu'il y a de fortes présomptions contre la vérité des aventures d'Horatius Coclès, de Mucius Scaevola et de Clélie.
Ib.
1826, août, p.466.
(3.
Ott.
1828.)
Les Kirkis (nazione nomade, al Nord dell'Asia centrale) ont aussi des chants historiques (non scritti) qui rappellent les hauts faits de leurs héros; mais ceux-là ne sont récités que par des chanteurs de profession, et M.
de Meyendorff (barone, viaggiatore russo, autore d'un Voyage d'Orenbourg à Boukhara, fait en 1820.
Paris 1826; dal quale sono estratte queste notizie) eut le regret de ne pouvoir en entendre un seul.
Ib.
septemb.
p.518.
Plusieurs d'entre eux (d'entre les Kirkis), dice M.
de Meyendorff, ib., [4400]passent la nuit assis sur une pierre à regarder la lune, et à improviser des paroles assez tristes sur des airs qui ne le sont pas moins.
(3.
Ottobre.
1828.)
Grammatica Daco-romana, sive Valachica, latinitate donata et in hunc ordinem redacta a J.
Alexi.
Vindobonae 1826.
in- 8° Ib.
Septemb.
1826.
p.573.
Alla p.4375.
Il Wesselingio nella Pref.
all'Erodoto, in quella parte che riguarda la vita e gli scritti di questo, riportata dallo Schweighaeuser, con sue noterelle, appiè della propria sua pref.
all'Erodoto, Argentorati 1816, t.1., dice, a pag.
XXII-III.
di questa edizione: Tum patriam reliquit, inque Graeciam tetendit.
Huc pertinent Luciani ista (In Herodoto cap.1.
p.832.
[T.
IV.
ed.
Bipont.
p.116.]), difficilia quibusdam intellectu visa,????(?????(???(?? ??? Herodatus (???(?????(????(?(??(??????(?????(?????(??, videlicet, qua tandem ratione et minimo labore insignis ac celebris evaderet.
Instabat per illi conmodum, Olympiorum tempus sollemne: properavit ad illud certamen, atque in magno Graecorum consessu recitavit Historias suas.
Namque ea non docent, absolvisse Herodotum historiarum libros Halicarnassi, sed compositos in Samo insula, quod ex Suida adsciscendum, ex Caria ad Olympicum conventum secum portasse, et Graecis, ut illis innotesceret, praelegisse.
Eligunt ad eam recitationem Olympiadem LXXXI.
viri docti, quippe aetati Herodoti egregie congruam: neque mihi refragari animus est, eoque [4401]minus, quod pueriles Thucydidis anni Elidensem hanc Olympiadem sibi postulent.
Aderat Thucydides una cum patre Oloro admodum adolescens (Suidas in (?????(???), (?????(??(?, in summo Graecorum plausu recitanti, illacrymavitque, aemulatione quadam iam tum ad consimile laudis studium accensus; quo Herodotus animadverso, ad Olorum (Marcellinus, Vit.
Thucydid.
p.9.), (??(?( ?(??????(??(?(???(???(???(????(????, optime de puero XV.
annorum, et gloriae desiderio lacrymante.
Atque hic non obliviscor secundae recitationis, Athenis Olymp.
LXXXIII.
anno tertio institutae; quam Thucydidem auscultare potuisse, certum quidem est, sed iam virili aetate, non puerum.
Erudite hoc H.
Dodwellus exsecutus (Apparat.
ad Annales Thucydid.
p.23.), adprobavit Ed.
Corsino (Fast.
Attic.
T.
III.
p.203.
et p.213.), sihi tamen non constanti, et eandem praelectionem in Olymp.
LXXXIV.
coniicienti.
...
Certius habetur, Athenis suos eum libros legisse in consilio, uti Hieronymus scribit, et honoratum fuisse, idque festo Panathenaeorum die anni tertii Olympiadis LXXXIII., quae elegans ill.
Scaligeri (Ad Eusebii Chronic.
p.104.) doctrina.
Lo Schweighaeuser non ha a tutto questo passo alcuna sua nota.
- Questa tradizione intorno ad Erodoto sembra provare almeno l'usanza che le prime prose fossero lette al popolo, e così edite, al modo de' versi; o, se non altro, dee derivare dall'antico [4402]uso di recitare o cantare in pubblico i componimenti poetici.
(7.
Ottob.
1828.)
Il Wesselingio l.c.
p.
XXVI.
In more ipsi (Herodoto) fuit (vid.
lib.5, 36, l.7.
93.
et 213, l.
1.
75.) ?(????(?????(???, ??(????(??????(???? primores libros, et sequentes ??(??(???????(????????(??(?(?? ?(????...
adpellare.
- Lo Schweighaeuser ivi in nota.
Nec vero in hisce locis, aut horum similibus, vocabulum ?(??? ita intelligi debet, quasi singulos e novem Historiarum suarum libris singulos ?(???? diceret: sed ?(??? in huiusmodi locis nihil aliud nisi narrationem, vel historiam, ut nos vulgo vocamus, significat: qua ratione etiam Hecataeus, ut hoc utar, ???????(? Nostro dicitur, II.
143.
v.36.
et 125.
id est, Historiarum scriptor; de eodemque Hecataeo loquens idem Noster VI.
137.
ait, '?????(???(????(????(?????, Hecataeus in suis Historiis; denique VII.
152.
ubi ?(?????(???(??? ait, universam suam Historiam intelligit.
Itaque, ubi se ait, de re quadam (??(??????(??? esse dicturum, non semper alium ex novem Historiarum suarum Libris intelligit, verum subinde etiam aliam eiusdem Libri partem; veluti, quae Lib.
VI.
c.39.
profitetur se (??(??????(??? expositurum, ea cap.103.
eiusdem sexti Libri exposita leguntur.
Eodem modo Pausanias lib.
III.
cap.2.
quum ait '??(??????(???(??(?(??(?(?????(???, non hoc dicit, Herodotus in Libro de Croeso, sed [4403] Herodotus in ea narratione (sive, in ea Historiarum suarum parte) quae ad Croesum spectat.
Similiterque idem Pausanias, lib.
V.
cap.26.
p.447.
ait, '??(??????(? ??(???(????, Herodotus in suis Historiis.
Sed de hoc usu vocabuli ?(??? vide mox ipsum Wesselingium verissime monentem.
- Ciò è p.
XXIX.
Possum adfirmare veterum neminem ?(???? Herodoti ??????(? (citati da lui medesimo.
II.
161., e da alcuni creduti diversi dalle Istorie) ad testimonium excitasse, contra ex libro quarto (delle Istor.) res Afras depromsisse plures: immo solere illum partem libri ?(??? et ?(???? adpellare: de nece Cimonis, patris Miltiadae, ?(???(??(?(?(??(??(??(?( ?????(? (lib.
VI.
39.): dixit autem eiusdem Musae, cap.103.
Geminum illi Libri primi cap.75.
- Scilicet (nota lo Schweigh.
ib.), quam rem lib.
I.
cap.75.
ait se (????(???(?(????(????? declaraturum, eam non in sequentium librorum aliquo, sed in eodem lib.
I.
cap.124.
declaratam videmus.
- V.
p.4467.
Propriamente però ?(??? in tali casi non vuol dir narrazione nè storia, ma prosa, a differenza di (?? o ?(?? (carmina-oratio); ???????(??? in prosa; ???????(? prosatore, a differenza di (?????(? ec.
Ma o perchè le prime prose scritte fra' greci fossero istorie, o perchè la più parte di esse fossero istoriche a que' primi tempi, o finalmente perchè il genere storico non [4404]avesse alcun nome particolare a principio, e forse (com'e naturalissimo) non esistesse veramente distinto dagli altri generi, cioè non si avessero opere di pura storia, o narrative, ma materie e qualità miste e confuse ec.
(11.
Ottob.
1828.).
fu appropriato alle storie il nome generale di prosa ?(???, ed Erodoto chiamò ???????(? prosatore lo storico Ecateo.
E quando poi le opere in prosa furono cominciate a dividere in libri, questi libri ancora furono chiamati prose ?(???, prosa 1., prosa 2.
ec.
prose 9 ((????(??????????(??(? è appunto il tit.
dell'ediz.
Aldina di Erod., I.a ediz.
greca, Venez.
1502.): quasi per confermare che la confezion di libri, secondo l'opinione del Wolf, ebbe origine dai prosatori.
E per luminosa conferma dell'opinione del medesimo che da principio scrittura e prosa fossero la cosa medesima, troviamo (cosa da lui nè da altri a questo proposito non osservata) ????????(? esser sinonimo di storico.
V.
Scapula etc.
in ?(????????????????(?????????(?.
V.
p.4406.
Dialetti greci.
Nec vero putandum est, cunctis eis in locis, ubi etiam nunc formae verborum communes praeeuntibus libris omnibus supersunt (nell'Erodoto), quum alibi in eisdem verbis formâ jonibus propriâ usum esse videamus Scriptorem, per librariorum aut temeritatem aut socordiam esse illas invectas.
Licitum fuit ionico scriptori communibus verborum formis promiscue atq.
illis uti quae Jonibus propriae erant: et haud dubiis document.
intellexisse mihi videor, ut olim Homerum, sic etiam Herodotum, si quis alius, hanc sibi veniam [4405]sumsisse et ...
variationem consulto esse secutum.
Quo minus caussae esse equid.
iudicavi, cur perspicua in hanc partem Hermogenis verba (de formis orationis l.2.
p.513.
coll.
p.406.), non pura sed mixta dialecto scripsisse Herod.
docentis, cum doctis.
Wesselingio nostro (Diss.
Herodotea, p.147.
seq.) aliam in partem interpretaremur.
Schweighaeuser, praef.
ad Herodot.
p.
VIII-IX.
E ib.
p.
IX.
in nota: Schaeferum, virum de Script.
nostro praeclare merit., postquam in edendis Musis coepisset, expulsis ubiq.
formis verbor.
communib., jonic.
substituere formas, mox meliora edoctum abiecisse novimus istud consilium.
(11.
Ott.
1828.)
Alla p.4359.
Il luogo riportato nel pensiero qui anteced., mostra che tale opinione (oggi però rigettata comunemente dagli eruditi) fu tenuta fino nel 1816.
(epoca dell'ed.
Argentoraten.
d'Erodoto) da un uomo come lo Schweighaeuser.
(11.
Ott.
1828.)
Enfin, l'objet de notre sympathie la plus habituelle (dans l'Iliade), c'est Hector: et si d'un côté nous sommes entraînés par le talent du poète à désirer la prise de Troie, nous éprouvons de l'autre une sensation constamment pénible, en voyant dans le défenseur de cette cité malheureuse, le seul caractère auquel tous nos sentimens délicats et généreux se puissent allier sans mélange.
Ce défaut, car c'en serait un, si le poète avait eu pour but de former un tout consacré seulement à célébrer la gloire d'Achille; ce défaut, disons-nous, [4406]a tellement frappé des critiques, qu'ils ont attribué à Homère l'intention d'élever les Troyens fort au-dessus des Grecs; et la pitié qu'il cherche à exciter pour le malheur des premiers leur a paru confirmer cette opinion.
B.
Constant, de la Religion, liv.8.
ch.1.
t.3.
Paris 1827.
p.430-1.
Notisi che anche il Constant (il quale assolve del resto la Iliade da questo difetto, sostenendo ch'essa non è in origine un poema unico), riconosce però in questo passo che l'eccitare la compassione ec.
per Ettore ec.
e le lodi che sembrano darsi ai Troiani ec., sieno tali anche nel senso del poeta, e sarebbero state contrarie all'unità dell'interesse per Achille ec.: benchè in quel medesimo lib.
e nel precedente egli osservi e dimostri la differenza grande dai costumi e dalle idee de' tempi civili a quelle de' tempi dell'Iliade.
(12.
Ottob.
1828.).
V.
p.4413.
Alla p.4404.
Ecco dunque storico, prosatore, e scrittore o compositore in iscritto (???????(?);storia, prosa, libro, e scrittura o composizione in iscritto (?(????????????????(: v.
l'indice greco dell'Anabasi di Arriano, in ???????(), usati spesso in un medesimo senso.
Qual maggior conferma dell'osservazione acutissima del Wolf?
(12.
Ottob.).
V.
p.4431.
Les Sagas, ou traditions des Scandinaves, qui, de père en fils, avaient conservé dans leur mémoire des récits assez étendus pour qu'on en ait rempli des bibliothèques lorsque l'art d'écrire est devenu commun en Scandinavie, servent à nous faire concevoir la possibilité d'une conservation orale des poèmes homériques.
L'histoire [4407]entière du Nord, dit Botin (Histoire de Suède, ch.8.), était rédigée en poèmes non écrits.
(Il y a encore de nos jours, dans la Finlande, des paysans dont la mémoire égale celle des rhapsodes grecs.
Ces paysans composent presque tous des vers, et quelques-uns récitent de très-longs poèmes, qu'ils conservent dans leur souvenir, en les corrigeant, sans jamais les écrire.
(Rühs, Finnland und seine Bewohner).
(Ed è ben naturale che de' rozzi paesani per cui la scrittura non è ancora in uso o in possesso, coincidano co' Greci di que' tempi in cui la scrittura non era usata neppure dalle classi più colte).
Bergmann (Streifereyen unter den Calmucken, II, 213.
V.
p.4412.), parle d'un poème Calmouk, de 360 chants, à ce qu'on assure, et qui se conserve depuis des siècles dans la mémoire de ce peuple.
Les rhapsodes, qu'on nomme Dschangarti, savent quelquefois vingt de ces chants par coeur, c'est-à-dire un poème à peu près aussi étendu que l'Odyssée; car par la traduction que Bergmann nous donne d'un de ces chants, nous voyons qu'il n'est guère moins long qu'une rhapsodie homérique.
[Ora sarebbe egli credibile che tutto questo poema fosse stato composto da un solo, quando anche i Calmucchi lo affermino per tradizione?]) Notre vie sociale, observe M.
de Bonstetten (Voy.
en Ital.
p.12.), disperse tellement nos facultés, que nous n'avons aucune idée juste de la mémoire de ces hommes demi-sauvages, [4408]qui, n'étant distraits par rien, mettaient leur gloire à réciter en vers les exploits de leurs ancêtres.
B.
Constant, de la Relig.
liv.8.
consacrato a provare che l'Iliade e l'Odissea sono d'autori e d'epoche differenti, e che questa è posteriore a quella, chap.3.
t.3.
Paris 1827.
p.443-4.
(12.
Ottobre.
1828.).
Alla p.4389.
Simile entusiasmo, del resto, producevano nel popolo greco, anche a' tempi colti e dopo l'uso della scrittura, e quindi in condizione similissima a quella del popolo napoletano, le poesie recitate da' rapsodi.
V.
il dialogo platonico Ione.
(13.
Ott.)
A.
W.
Schlegel pense que l'Iliade est composée de 3 poèmes, dont le 1r finit avec le 9e livre, le second avec le dix-huitième, et dont le 3e comprend la mort de Patrocle, celle d'Hector.
Il regarde comme des composit.
à part la Dolonéide et le 24e livre.
Les derniers chants, dit-il, sauf les 30.
vers qui terminent le tout, se rapprochent déjà de la pompe et de la majesté préméditée de la tragédie.
Constant, l.c.
ci-dessus, p.462.
not.
(13.
Ott.
1828.)
On ne peut lire les chants d'Ossian sans être frappé de leur uniformité, et néanmoins Ossian n'a certainement pas été un seul et même barde.
Ib.
457-8.
(13.
Ott.)
Alla p.4359.
Mais toutes ces différences entre les deux races (dorienne et ionienne) sont bien postérieures aux âges homériques: ceux même qui les ont le mieux observées ont reconnu cette vérité.
Les Grecs d'Homère, remarque M.
Heeren, se ressemblent [4409]tous, quelle que soit leur origine.
Il n'y a nulle distinction à faire entre les Béotiens, les Athéniens, les Doriens, les Achéens que nous rencontrons dans ses poèmes.
Les héros de ces diverses peuplades n'ont rien de local.
Les contrastes qui les séparent, proviennent de leur caractère individuel et de leurs qualités personnelles.
(Heeren, Ideen.
Grecs, (sic) pag.117.).
Il en est de même des dieux.
Bien que Junon soit la divinité spéciale de l'Argolide, Jupiter de l'Arcadie, de la Messénie et de l'Élide, Neptune de la Béotie et de l'Égialée, Minerve de l'Attique, toutes ces spécialités disparaissent dans la mythologie homérique.
Ib.
l.7.
ch.3.
p.286-7.
Questa mancanza di località ne' caratteri ec.
de' Greci omerici, non verrebbe ella da difetto d'arte nel poeta, piuttosto che da reale uniformità di tutti i Greci di quel tempo (uniformità affatto inverisimile, trattandosi di tanti popoli, divisi di governo, e formanti in certa maniera tante diverse nazioni), come l'hanno creduto questi scrittori? (14.
Ott.
1828.).
In tal caso però i poemi omerici sarebbero o di un solo autore, o di autori tutti d'un medesimo paese, cosa non improbabile.
Infatti essi non erano appena conosciuti nel Peloponneso al tempo di Licurgo, che li portò a Sparta, cioè portò seco rapsodi che li cantavano, dalla Ionia.
(14.
Ott.
1828.)
[4410]Les dieux sont jaloux, dit Homère (Il.
7.455.), non seulement du succès, mais de l'adresse et du talent.
Toute prospérité mortelle fait ombrage à l'orgueil divin.
On trouve chez les Grecs mod.
un vestige assez curieux de cette anc.
idée, que les dieux sont jaloux de tout ce qui est distingué.
Ils considèrent la louange comme pouvant attirer les plus grands malh.
sur la pers.
qui en est l'objet, ou qui est propriétaire de la chose qu'on admire; et ils demand.
avec instance au panégyriste indiscret de détourner l'effet de ses éloges par quelque signe de mépris qui désarme le corroux céleste.
(Pouqueville, Voy.
en Morée).
Ib.
ch.6.
p.344-5.
testo e note.
L'origine di ciò potrebbe però essere anco il timore delle concussioni turche, e la schiavitù.
(14.
Ott.
1828.)
La morte consideravasi dagli antichi come il maggior de' mali; le consolazioni degli antichi non erano che nella vita; i loro morti non avevano altro conforto che d'imitar la vita perduta; il soggiorno dell'anime, buone o triste, era un soggiorno di lutto, di malinconia, un esilio; esse richiamavano di continuo la vita con desiderio, ec.
ec.
Sopra tutte queste cose da me osservate altrove, v.
Constant, ib.
liv.7.
ch.9.
t.3.
(14.
Ott.
1828.)
Gli antichi déi della Grecia ec.
erano nell'immaginazione de' greci, ec.
e ne' loro simulacri, ec.
di figura mostruosa e spaventevole; abbellita a poco a poco col progresso della civiltà: segno che l'origine della religione fu il timore ec., come dico altrove.
V.
ib.
ch.5.
(14.
Ott.
1828.)
[4411]Il y a chez tous les peuples, comme le remarque un érudit célèbre (Wolff (sic), Prolegom., p.69.), un fait qui constate l'époque à laquelle l'usage de l'écriture devient général; c'est la composition d'ouvrages en prose.
Aussi longtemps qu'il n'en existe point, c'est une preuve que l'écriture est encore peu usitée.
Dans le dénûment de matériaux pour écrire, les vers sont plus faciles à retenir que la prose, et ils sont aussi plus faciles à graver.
La prose naît immédiatement de la possibilité que les hommes se procurent de se confier, pour la durée de leurs compositions, à un autre instrument que leur mémoire.
Ib.
l.8.
ch.3.
p.441-2.
(15.
Ott.
1828.)
Dans la Grammaire comparée des langues de l'Europe latine avec celle des troubadours, page 302, j'ai prouvé que le présent de l'infinitif, précédé de la négation, tenoit parfois lieu de l'impératif; que cette forme se retrouvoit dans l'ancien français ainsi que dans l'italien: mais il faut nécessairement que le verbe soit précédé de la négation, comme le verbe l'est ici, NE t'accompagner MIE À home de malvese vie.
Raynouard.
- J.
des Savans, 1825.
p.184.
Mars.
(15.
Ott.
1828.)
Sopra l'uso di (??(? (greco mod.
(?(??) p.
(??, è da vedersi M.
Letronne nel Nouvel Examen critique et historique de l'Inscription grecque du roi nubien Silco, articolo 1.
alla linea 12.
dell'Iscriz., nel J.
des Savans, 1825.
p.108.
Février.
(15.
Ott.
1828.)
[4412]Alla p.4364.
Il vero modo di citare questa Memoria di M.
Letronne, è: Nouvel Examen critique et historique de l'Inscription grecque du roi nubien Silco.
Partie historique.
Sect.
II.
- Journ.
des Savans, 1825, Mai (3me article, et dernier.).
(15.
Ott.
1828.)
Alla p.4407.
Il vero titolo è: Nomadische Streifereien unter den Kalmüken: (cioè Promenades nomades chez les Kalmuks.) Riga 1804.
4.
vol.
in 8°.
op.
tradotta da M.
Moris in francese: Voyage de Benjamin Bergmann chez les Kalmuks (fatto nel 1802 e 1803); Châtillon-sur-Seine, 1825.
I.
vol.
in 8°.
(esso non comprende i 2.
ult.
vol.
dell'op.
tedesca, che contengono delle traduzioni dal mongolico ec.) (Journ.
des Savans, 1825.
p.363.
sqq.
Juin.).
Utilità della pazienza ec.
Una faccenda noiosa o penosa, un viaggio ec., quando è sulla fine, riesce più molesto che mai, le ultime miglia paiono le più lunghe ec., non già perchè l'uomo allora è più stanco, ma perchè l'impazienza si accresce per quella smania di arrivare, che nasce dal vedere il termine da vicino.
(17.
Ottob.
1828.
Firenze.)
Alla p.4388.
Questo es.
potrebbe far credere vero che i diascheuasti omerici fossero di poco posteriori a Pisistrato, del che a p.4355.
(17.
Ottob.
1828.)
Alla p.4359.
L'epica, non solo per origine, ma totalmente, in quanto essa può esser conforme alla natura, e vera poesia, cioè consistente in [4413]brevi canti, come gli omerici, ossianici ec., ed in inni ec., rientra nella lirica.
V.
p.4461.
Alla p.4372.
Infatti la lingua italiana tra le moderne è considerata per aver la più antica letteratura, perchè ha i più antichi libri veramente letterarii, e che abbiano esercitata ed esercitino ancora un'influenza perpetua sulla lingua e letteratura nazionale; mentre quanto all'antichità semplicemente di scrittura, cioè di versi e prose scritte in lingua volgare (anche lunghi poemi, lunghe Cronache ec.), la lingua italiana cede di gran lunga alla francese e spagnuola ec., per non parlare della tedesca ec.
(anzi in ciò la lingua italiana è delle più moderne, se non la più.) Nondimeno è sempre vero che la letteratura italiana è la più antica delle viventi, perchè Dante, Petrarca Boccaccio sono i più antichi classici fra' moderni, i più antichi che si leggano e nominino, non solo fra gli eruditi nazionali, ma fra tutti i colti d'Europa.
Quando io dico: la natura ha voluto, non ha voluto, ha avuto intenzione ec., intendo per natura quella qualunque sia intelligenza o forza o necessità o fortuna, che ha conformato l'occhio a vedere, l'orecchio a udire; che ha coordinati gli effetti alle cause finali parziali che nel mondo sono evidenti.
(20.
Ott.
1828.)
Alla p.4406.
Chi dicesse che i Persiani d'Eschilo sono di un persiano, o composti nel senso e spirito persiano, perchè l'interesse e la compassione quivi è tutta per i Persiani, direbbe bene nel senso de' moderni, e pure avrebbe torto nel fatto.
Essi sono di un greco, nazionale degli autori di quelle disgrazie, ec.
(anzi se non erro, Eschilo militò contro i Persiani), e fatti per essere rappresentati [4414]ai greci.
I Persiani, considerati in questo aspetto, sono propriamente il pendant dell'Iliade (e il comento), e il rovescio della ???(????(????? di Frinico.
Umbra, ombra - sombra (spagn.), sombre (franc.)
Alla p.4363.
marg.
Perocchè i grammatici, diascheuasti ec.
non sono giunti di gran lunga a render metrici tutti i versi omerici.
Alla p.4369.
Così ad Ossian si attribuirono tutte le poesie caledonie: ad Omero tutte quelle che compongono oggi l'Iliade e l'Odissea; tra le quali, supposta per vera la persona di quest'Omero, è però ben difficile, come appunto nelle ossianiche, il determinare quali sieno sue, quali d'altri; ed anche se ve ne sia alcuna di sue; anzi è veramente impossibile.
Taccio poi delle tante altre poesie epiche attribuite ad Omero (e ad Esiodo), compresa la Batracomiomachia, sì manifesta parodia dell'Iliade: e ciò fin dal tempo di Erodoto, che nomina t( ?(?????(??? come opera attribuita ad Omero, a cui egli però la nega (l.
II.
c.117.
Schweigh.), e gli????(????? parimente, de' quali pure egli dubita se sieno d'Omero (l.4.
c.32.
Schweigh.).
(21.
Ott.)
Il vedere che Omero (per usare, come dice Constant, questo nome collettivo) parlando della sua poesia, non dice mai di scrivere, ma sempre cantare o dire, è prova assai maggiore che non si crede, che i suoi versi in fatto non furono scritti.
Noi, quantunque i nostri versi si scrivano, diciamo di cantarli, perchè la lingua antica, cioè la lingua di Omero, ha usata questa espressione per il poetare.
Ma nella lingua di Omero, non vi poteva essere altra ragione [4415]per usarla e per non parlar mai di scrittura, se non, che le poesie in fatti si cantavano senza scriverle.
Ho dimostrato altrove che dovunque esiste una lingua poetica formata, questa lingua non è altro che lingua antica.
Ma i tempi d'Omero non potevano avere una lingua poetica (se non per lo stile, come i francesi), perchè non avevano antichità di lingua.
E in fatti non avevano lingua poetica a parte: e Omero nomina tutti gli usi di que' tempi, nomina le città, i popoli, i magistrati ec.
co' loro nomi propri e prosaici.
Così accade in tutte le poesie primitive, e così Dante è pieno di nomi propri e prosaici, spettanti a geografia (Montereggione ec.
ec.), costumi de' suoi tempi, dignità ec., nomi che ora o sono sbanditi dalla lingua poetica, o non vi sono ammessi se non come usati da Dante.
V.
p.4426.
Se dunque l'uso del tempo omerico fosse stato che le poesie si scrivessero, Omero avrebbe detto francamente di scriverle.
Il veder che nol dice mai, nemmen per perifrasi o metafora (come fa l'autore della Batracomiomachia subito nel bel principio, nell'invocazione; il quale dice il Wolf come cosa provata, essere stato verisimilmente circa i tempi d'Eschilo),281 è prova quasi parlante che non le scriveva.
(21.
Ott.
1828.
Firenze.)
Perchè il moderno, il nuovo, non è mai, o ben difficilmente romantico; e l'antico, il vecchio, al contrario? Perchè quasi tutti i piaceri dell'immaginazione e del sentimento consistono in rimembranza.
Che è come dire che stanno nel passato anzi che nel presente.
(22.
Ottobre.
1828.
Firenze.)
[4416]Qu'on jette une poultre entre ces deux tours de Notre-Dame de Paris, d'une grosseur telle qu'il nous la fault à nous promener dessus, il n'y a sagesse philosophique de si grande fermeté qui puisse nous donner courage d'y marcher comme si elle estoit à terre.
Montaigne, Essais, livre 2.
chap.12.
Pascal (Pensées) si è appropriato questo pensiero.
Le plus grand philosophe du monde, sur une planche plus large qu'il ne faut pour marcher à son ordinaire, s'il y avoit au-dessous un précipice, quoique sa raison le convainque de sa sûreté, son imagination prévaudra.
I funamboli fanno più ancora; ma ciò non distrugge la convenienza dell'osservazione soprascritta.
(Firenze.
23.
Ottobre.
1828.)
La grazia in somma per lo più non è altro che il brutto nel bello.
Il brutto nel brutto, e il bello puro, sono medesimamente alieni dalla grazia.
(Firenze.
25.
Ott.
1828.)
Alla p.4369.
Le nom d'Ésope étoit d'ailleurs devenu dans la Grèce une espèce de sceau banal, qu'on attachoit à tous les apologues utiles et ingénieux, comme ceux de Pilpay, de Lockman, de Salomon, dans l'Orient.
(Così tutti i Salmi attribuiti a David, ec.).
Charles Nodier, Questions de littérature légale, 2.de édit.
Paris 1828.
§.8.p.68-9.
C'est le propre de l'érudition populaire de rattacher toutes ses connoissances à quelque nom vulgaire.
Il y a peu de grandes actions de mer qu'on n'attribue à Jean Bart, peu d'espiègleries grivoises qu'on ne mette sur le compte de Roquelaure.
Il en est [4417]de même, pour la foule, des auteurs à la portée desquels son intelligence peut s'élever.
Il y a cent cinquante ans qu'un bon mot ne pouvoit éclore que sous le nom de Bruscambille ou de Tabarin.
Ib.
note, p.68-9.
(Firenze.
26.
Ottob.
1828.)
Ho preso un poco di vino, quanto per dormire (????????(????? o ??(???(?????(???? ec.
(3.
Nov.
1828.)
?(??? - vicus.
De' diascheuasti italiani e latini v.
Perticari (Scritt.
del 300) dove parla della pessima ortografia autografa del Petrarca Tasso ec., e dove prova che i latini del buon secolo, copiando o citando Ennio e gli altri antichi, li riducevano in gran parte alla moderna.
(3.
Nov.
1828.)
La Divina Commedia non è che una lunga Lirica, dov'è sempre in campo il poeta e i suoi propri affetti.
(Firenze.
3.
Novembre.
1828.)
'???(?????????(???, (??(????????(???, ???(??(?(??????, ?(??? e simili; frasi frequentissime di Erodoto, nel semplicissimo senso del francese comme je vais dire ec.
(Firenze.
8.
Nov.
1828.
Sabato.)
Fratta -???(???,??????????(? ec.
(Recanati.
30.
Nov.
1828.
Domenica.)
Non saprei come esprimere l'amore che io ho sempre portato a mio fratello Carlo, se non chiamandolo amor di sogno.
(30.
Nov.)
Memorie della mia vita.
- Felicità da me provata nel tempo [4418]del comporre, il miglior tempo ch'io abbia passato in mia vita, e nel quale mi contenterei di durare finch'io vivo.
Passar le giornate senza accorgermene; parermi le ore cortissime, e maravigliarmi sovente io medesimo di tanta facilità di passarle.
V.
p.4477.
- Piacere, entusiasmo ed emulazione che mi cagionavano nella mia prima gioventù i giuochi e gli spassi ch'io pigliava co' miei fratelli, dov'entrasse uso e paragone di forze corporali.
Quella specie di piccola gloria ecclissava per qualche tempo a' miei occhi quella di cui io andava continuamente e sì cupidamente in cerca co' miei abituali studi.
(30.
Nov.)
All'uomo sensibile e immaginoso, che viva, come io sono vissuto gran tempo, sentendo di continuo ed immaginando, il mondo e gli oggetti sono in certo modo doppi.
Egli vedrà cogli occhi una torre, una campagna; udrà cogli orecchi un suono d'una campana; e nel tempo stesso coll'immaginazione vedrà un'altra torre, un'altra campagna, udrà un altro suono.
In questo secondo genere di obbietti sta tutto il bello e il piacevole delle cose.
Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione.
(30.
Nov.
I.a Domenica dell'Avvento.).
V.
p.4502.
È cosa notata che il gran dolore (come ogni grande passione) non ha linguaggio esterno.
Io aggiungo che non ne ha neppure interno.
Vale a dire che l'uomo nel grande dolore non è capace di circoscrivere, di determinare a se stesso nessuna idea, nessun sentimento relativo al suggetto della sua passione, la quale idea o sentimento egli possa esprimere a se medesimo, e intorno ad essa volgere ed esercitare, per dir così, il pensiero nè dolor suo.
Egli sente mille sentimenti, vede [4419]mille idee confuse insieme, o piuttosto non sente, non vede, che un sentimento, un'idea vastissima, dove la sua facoltà di sentire e di pensare resta assorta, senza potere, nè abbracciarla tutta, nè dividerla in parti, e determinar qualcuna di queste.
Quindi egli allora non ha propriamente pensieri, non sa neppur bene la causa del suo dolore; egli è in una specie di letargo; se piange (e l'ho osservato in me stesso), piange come a caso, e in genere, e senza saper dire a se stesso di che.
Quei drammatici, e simili, che in circostanze di grandi passioni introducono de' soliloqui, fondandosi sulla convenzione che permette a' suoi personaggi di dire alto quello che essi direbbero tra se medesimi se fossero reali, sappiano che in tali circostanze l'uomo tra se non dice nulla, non parla punto neppur seco stesso.
E fra tali drammatici ve n'ha de' sommi (Shakespeare medesimo), se non son tali tutti.
(30.
Nov.
1828.
Recanati.)
Alla p.4280.
Ho veduto io stesso un canarino domestico e mansuetissimo, appena presentato a uno specchio, stizzirsi colla propria immagine, ed andarle contro colle ali inarcate e col becco alto.
Alla p.4241.
Vedesi l'uomo nato nobile nella critica libera, franca, spregiudicata ed originale, ed anche nella ragionevole e spregiudicata morale teologica del marchese Maffei; nello stile originale, nel modo individuale di pensare e di poetare, nel tuono ardito e sicuro, nella stessa fermezza e forza d'opinion religiosa e superstiziosa del Varano.
(1.
Dicembre.
1828.
Recanati.)
[4420]Memorie della mia vita.
- Andato a Roma, la necessità di conviver cogli uomini, di versarmi al di fuori, di agire, di vivere esternamente, mi rese stupido, inetto, morto internamente.
Divenni affatto privo e incapace di azione e di vita interna, senza perciò divenir più atto all'esterna.
Io era allora incapace di conciliar l'una vita coll'altra; tanto incapace, che io giudicava questa riunione impossibile, e mi credeva che gli altri uomini, i quali io vedeva atti a vivere esternamente, non provassero più vita interna di quella ch'io provava allora, e che i più non l'avessero mai conosciuta.
La sola esperienza propria ha potuto poi disingannarmi su questo articolo.
Ma quello stato fu forse il più penoso e il più mortificante che io abbia passato nella mia vita; perch'io, divenuto così inetto all'interno come all'esterno, perdetti quasi affatto ogni opinione di me medesimo, ed ogni speranza di riuscita nel mondo e di far frutto alcuno nella mia vita.
(1.
Dic.
1828.)
Il giovane, per la stessa veemenza del desiderio che ne sente è inabile a figurare nella società.
Non diviene abile se non dopo sedato e pressochè spento il desiderio, e il rimovimento di quest'ostacolo ha non piccola parte nell'acquisto di tale abilità.
Così la natura delle cose porta che i successi sociali, anche i più frivoli, sieno impossibili ad ottenere quando essi cagionerebbero un piacere ineffabile; non si ottengano se non quando il piacere che danno è scarso o nessuno.
Ciò si verifica esattamente: perchè se anco una persona arriva ad ottener de' successi nella prima gioventù, non vi arriva se non perchè il suo animo percorrendo rapidamente lo stadio della vita, [4421]è giunto assai tosto (come spesso accade) a quello stato nel quale i successi sociali si desiderano leggermente, e poco o niun piacere cagionano.
(1.
Dic.
1828.)
Nelle mie passeggiate solitarie per le città, suol destarmi piacevolissime sensazioni e bellissime immagini la vista dell'interno delle stanze che io guardo di sotto dalla strada per le loro finestre aperte.
Le quali stanze nulla mi desterebbero se io le guardassi stando dentro.
Non è questa un'immagine della vita umana, de' suoi stati, de' beni e diletti suoi?
(1.
Dicembre.
1828.
Recanati.)
La Natura è come un fanciullo: con grandissima cura ella si affatica a produrre, e a condurre il prodotto alla sua perfezione; ma non appena ve l'ha condotto, ch'ella pensa e comincia a distruggerlo, a travagliare alla sua dissoluzione.
Così nell'uomo, così negli altri animali, ne' vegetabili, in ogni genere di cose.
E l'uomo la tratta appunto com'egli tratta un fanciullo: i mezzi di preservazione impiegati da lui per prolungar la durata dell'esistenza o di un tale stato, o suo proprio o delle cose che gli servono nella vita, non sono altro che quasi un levar di mano al fanciullo il suo lavoro, tosto ch'ei l'ha compiuto, acciò ch'egli non prenda immantinente a disfarlo.
(2.
Dic.
1828.)
Memorie della mia vita.
- Sempre mi desteranno dolore quelle parole che soleva dirmi l'Olimpia Basvecchi riprendendomi del mio modo di passare i giorni della gioventù, in casa, senza vedere alcuno: che gioventù! che maniera di passare cotesti anni! Ed io concepiva intimamente e perfettamente anche allora tutta la ragionevolezza di queste parole.
Credo [4422]però nondimeno che non vi sia giovane, qualunque maniera di vita egli meni, che pensando al suo modo di passar quegli anni, non sia per dire a se medesimo quelle stesse parole.
(2.
Dicembre.
1828.
Recanati.)
La lingua spagnuola pare e parrà sempre ridicola agl'Italiani per la stessa ragione per cui la scimmia riesce un animale ridicolo all'uomo: estrema similitudine con gravi differenze.
Ma questo ridere dello spagnuolo, assolutamente parlando, è per lo meno così irragionevole come il ridere della scimmia; e di più, è soggetto a reciprocità; giacchè è naturale che l'italiano riesca, e con altrettanta ragione, altrettanto ridicolo agli Spagnuoli.
Lo spagnuolo ci riesce ridicolo nel modo e per la ragione che ci riesce tale un dialetto dell'italiano.
Similmente l'italiano dee riuscire ridicolo agli spagnuoli come un dialetto della lingua spagnuola.
Egli è dunque un vero pregiudizio negl'Italiani il considerar lo spagnuolo come lingua o pronunzia che abbia qualcosa di ridicolo in se, argomentando dall'effetto che essa fa in noi.
(2.
Dic.
1828.).
Vedi la pag.4506.
Alla p.4248.
fine.
I greci molto ragionevolmente, checchè ne dica Cicerone, che preferisce la voce latina convivio, chiamavano il convito simposio, cioè compotazione, perchè in esso non era veramente comune, e fatto in compagnia, se non solo il bere, cosa ragionevolissima, e non il mangiare, come forse tra' Romani ec.
(V.
il luogo di Cic.
nel Forcell.
in Convivium, o Sympos.
o Compotat.
ec.).
(2.
Dic.
1828.)
Guadagnoli recitante in mia presenza all'Accademia de' Lunatici in Pisa, presso Mad.
Mason, le sue Sestine burlesche sopra la propria vita, accompagnando il ridicolo dello stile e del soggetto con quello dei gesti e della recitazione.
Sentimento doloroso che io provo in casi simili, vedendo un uomo giovane, ponendo in burla se stesso, la propria gioventù, le [4423]proprie sventure, e dandosi come in ispettacolo e in oggetto di riso, rinunziare ad ogni cara speranza, al pensiero d'ispirar qualche cosa nell'animo delle donne, pensiero sì naturale ai giovani, e abbracciare e quasi scegliere in sua parte la vecchiezza spontaneamente e in sul fiore degli anni: genere di disperazione de' più tristi a vedersi, e tanto più tristo quanto è congiunto ad un riso sincero, e ad una perfetta gaieté de coeur.
(Recanati.
3.
Dic.
festa di S.
Fr.
Saverio.
1828.)
Io abito nel bel mezzo d'Italia, nel clima il più temperato del mondo; esco ogni giorno a passeggiare nelle ore più temperate della giornata; scelgo i luoghi più riparati, più acconci ed opportuni; e dopo tutto questo, appena avverrà due o tre volte l'anno, che io possa dire di passeggiare con tutto il mio comodo per rispetto al caldo, al freddo, al vento, all'umido, al tempo e simili cose.
E vedete infatti, che la perfetta comodità dell'aria e del tempo è cosa tanto rara, che quando si trova, anche nelle migliori stagioni, tutti, come naturalmente, sono portati a dire: che bel tempo! che buon'aria dolce! che bel passeggiare! quasi esclamando, e maravigliandosi come di una strana eccezione, di quello che, secondo il mio corto vedere, dovrebbe pur esser la regola, se non altro, nei nostri paesi.
Gran benignità e provvidenza della natura verso i viventi!
(3.
Dic.
1828.)
L'esclusione dello straniero e del suddito dai diritti (quantunque naturali e primitivi) del cittadino e della nazion dominante, esclusione caratteristica di tutte le legislazioni antiche, di tutte le legislazioni appartenenti ad una mezza civiltà; esclusione fondata implicitamente in una opinione d'inferiorità di natura delle [4424]altre razze d'uomini alla dominante o cittadina, ed esplicitamente basata sopra questo principio, e ridotta a teoria e dottrina scientifica e filosofica per la prima volta che si sappia (come tante altre opinioni e cognizioni del suo tempo) da Aristotele nella Politica (opera citata spesso da Niebuhr nella Storia Romana come genuina d'Aristotele); questa esclusione, dico, è manifestissima in tutte le legislazioni de' bassi tempi, nelle quali il favor della legge in difesa delle proprietà o delle persone, ed ogni altro diritto, era quasi esclusivamente per li soli nobili.
In Francia un nobile che uccidesse un ignobile, non aveva altra pena che di gettare cinque soldi sulla sepoltura dell'ucciso: tale era la legge.
(Courier.) Così di tutti gli altri diritti.
Ed è ben noto che le legislazioni moderne non sono ancora ben purgate di questo lor vizio originale di distinguere due razze d'uomini, nobili e ignobili ec.
Ora i nobili, com'è osservato da' giurisconsulti e storici, sono per lo più e quasi totalmente, in quelle semibarbare legislazioni, sinonimo di liberi, d'ingenui, di cittadini, di burghers in Germania, (Niebuhr, Stor.
rom.
p.283.) nazionali, appartenenti alla nazion dominante, e per la quale son fatte le leggi; e gl'ignobili non sono in origine che stranieri, sudditi, servi, membri della nazione vinta e conquistata.
Tutte le deplorate perversità delle legislazioni de' bassi tempi e moderne, relative alla nobiltà (sinonimo d'ingenuità, nazionalità) provengono da quel principio di distinzione tra cittadino e straniero relativamente ai diritti dell'uomo, che abbiamo spesso considerata ne' più antichi popoli.
Qua pure appartiene la legislazione turca relativamente ai raja, cioè schiavi, cioè greci, vinti e conquistati, uomini considerati diversi da' turchi.
(4.
Dic.
1828.)
[4425]Conservare la purità della lingua è un'immaginazione, un sogno, un'ipotesi astratta, un'idea, non mai riducibile ad atto, se non solamente nel caso di una nazione che, sia riguardo alla letteratura e alle dottrine, sia riguardo alla vita, non abbia ricevuto nulla da alcuna nazione straniera.
La greca, per una stranissima combinazione di circostanze, si trovò, dopo la formazione della sua lingua e letteratura, per lunghissimo spazio di tempo, nel detto caso.
Essa nazione greca (se non vogliamo associarvi la chinese) è fra le nazioni civili la cui storia sia conosciuta, il solo esempio reale di un caso siffatto, e la lingua greca è altresì la sola lingua colta che abbia per lungo spazio conservata una vera ed effettiva purità.
La lingua latina fu impura tosto che divenne colta e letteraria.
L'italiana fu impurissima nel suo stesso nascere come lingua scritta, piena di provenzalismi e di francesismi: poi, per la rara circostanza che l'Italia, divenuta maestra e lume e fonte alle altre nazioni, si trovò, come la Grecia, nel caso di non ricever nulla di fuori, essa lingua conservò una certa purità; finchè mutata (anzi ridotta all'opposto) la circostanza, essa divenne nuovamente, e rimane, impurissima.
Alle nazioni presenti e future (e all'italiana soprattutto) durando il presente stato reciproco delle nazioni e delle letterature, la purità della lingua, presupposto che di questa lingua le nazioni vogliano far uso, è cosa immaginaria e impossibile.
(5.
Dic.
1828.)
Novem - (noundinae) nundinae: quasi novendiales, mercati o fiere che si tenevano ogni nono giorno, cioè ogni otto giorni (ch'era l'antica settimana degli Etruschi) una volta.
(Niebuhr, Stor.
rom.).
(11.
Dic.
1828.)
[4426]Alla p.4415.
Dante, dal quale egli (il Monti) tolse l'arte di ben fissare la fantasia del lettore sul luogo della scena, verseggiando la Geografia spesse volte assai più maestrevolmente che Dante stesso non faccia; e l'arte più notabile ancora, che in Dante stimava Rousseau, di chiamare le cose coi nomi lor propri.
Antolog.
di Fir.
Ottob.
1828.
vol.32.
num.94.
p.177.
(Recanati 13.
Dic.
1828.)
Un oggetto qualunque, p.e.
un luogo, un sito, una campagna, per bella che sia, se non desta alcuna rimembranza, non è poetica punto a vederla.
La medesima, ed anche un sito, un oggetto qualunque, affatto impoetico in se, sarà poetichissimo a rimembrarlo.
La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro, se non perchè il presente, qual ch'egli sia, non può esser poetico; e il poetico, in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell'indefinito, nel vago.
(Recanati.
14.
Dic.
Domenica.
1828.).
V.
p.
seg.
e p.4471.
Iovis - Iuppiter, cioè Iovis pater (Iouppiter).
L'etimologia data da qualche antico, juvans pater (v.
Forcellini), mostra che già anticamente era poco nota o dimenticata la contrazione dell'ov, o ou, in u, propria dell'antico latino siccome di molte altre lingue.
(21.
Dic.
Domen.
festa di S.
Tommaso.
1828.)
Il fut reçu (M.
Charles le Beau, auteur de l'Hist.
du Bas Empire) à l'académie des belles lettres, en 1759 ayant cette même année remporté le prix, dont le sujet étoit cette question importante et vraiment philosophique: Pourquoi la langue grecque s'est-eile conservée si long-temps dans sa pureté, tandis que la langue latine s'est altérée de si bonne heure.
Encyclop.
méthodique.
Histoire: art.
Beau (Charles le).
(24.
Dic.
Vigil.
di Natale.
1828.)
[4427]Alla p.
preced.
Il piacere che ci danno un certo stile semplice e naturale (come l'omerico), le immagini fanciullesche, e quindi popolari, circa i fenomeni, la cosmografia ec.; in somma il piacere che ci dà la poesia, dico la poesia antica e d'immagini; tra le sue cagioni, ha per una delle principali, se non la principale assolutamente, la rimembranza confusa della nostra fanciullezza che ci è destata da tal poesia.
La qual rimembranza è, fra tutte, la più grata e la più poetica; e ciò, principalmente forse, perchè essa è più rimembranza che le altre, cioè a dire, perchè è la più lontana e più vaga.
(1.
del 1829.)
L'uso, comune a tante antiche (e moderne) nazioni e religioni, di conservare con grandissima gelosia il fuoco ne' templi, e con tanta cura che non si spegnesse mai; non avrebb'egli per sua origine (come tante altre pratiche religiose dell'antichità, derivate, quali evidentemente, e quali in modo che oggi la loro origine appena si può indovinare, da bisogni o utilità sociali, da tradizioni scientifiche ec.) la rimembranza e la tradizione della difficoltà provata primitivamente per accender fuoco al bisogno, per conservarlo o rinnovarlo a piacere; e la tema di non perdere il fuoco affatto, cioè non poterlo riavere, se si fosse lasciato spegnere?
(1.
del 1829.)
Usarono gli antichi latini di aggiungere un d alla fine delle voci per evitare l'iato, o ne' versi l'elisione ec.
Anche nel mezzo delle voci composte; come in prosum: pro-d-es, pro-d-esse ec.
- prodire, prodigere, redire, redigere ec.
ec.
(V.
Forcell.
in D littera).
Così i nostri, specialmente antichi, od, ned, ad, sed, ched ec., uso certamente non derivato da' libri di quegli antichi latini.
Segno che quest'uso conservossi per via del latino volgare ec.
(1.
del 1829.)
[4428]La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l'accusano; ma di sua natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel mal umore, quell'odio, non sistematico, ma pur vero odio, che tanti e tanti, i quali non sono filosofi, e non vorrebbono esser chiamati nè creduti misantropi, portano però cordialmente a' loro simili, sia abitualmente, sia in occasioni particolari, a causa del male che, giustamente o ingiustamente, essi, come tutti gli altri, ricevono dagli altri uomini.
La mia filosofia fa rea d'ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l'odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all'origine vera de' mali de' viventi.
ec.
ec.
(Recanati.
2.
Gennaio.
1829.).
V.
pag.4513.
Quanto male, dal vedere che le radici di certe lingue non hanno somiglianza alcuna con quelle di certe altre, si concluda (come fa il Niebuhr, Stor.
rom.
p.44.
ediz.
ingl.) e contro l'affinità istorica di esse lingue, e contro l'unità di origine dei linguaggi umani; si può raccogliere dal considerare le radici di quelle lingue le cui relazioni ci sono note.
Figuriamoci che la lingua latina e la francese ci fossero quasi sconosciute; che si sapesse però che nell'una di quelle il giorno si chiamava dies, nell'altra jour: vi sarebbe egli alcuno che, non dico scoprisse, ma immaginasse, sospettasse solamente, la menoma analogia fra queste due voci? le quali non hanno comune neppure una lettera? E pur la francese deriva immediatamente dalla latina, essendo una semplice corruzione di diurnus o diurnum (sottinteso tempus), che nel latino basso o rustico si usò in vece della voce originale dies.
V.
p.4442.
E malgrado che il latino e il francese e la derivazione dell'una dall'altra sieno [4429]conosciutissimi, pure è probabile che neppure i dotti avrebbero indovinato l'etimologia della parola jour se non si fosse anche conosciuta la corrispondente e identica parola italiana giorno, che quantunque niente abbia anch'essa di comune con dies, serba però più somiglianza a diurnum (giorno per diorno, come viceversa i toscani diaccio, diacere ec.
coi derivati, per ghiaccio, giacere ec.).
Dimando io: se del francese e del latino non si conoscessero se non queste due voci (che son pure istoricamente quasi identiche), verrebbe egli in mente ad alcuno che quelle due lingue fossero analoghe? che l'una fosse figlia genuina dell'altra? Non si affermerebbe anzi confidentemente che esse lingue fossero di diversissime famiglie ec.? (3.
Gen.
1829.).
Ora se questo ci accade in lingue di cui abbiamo cognizione intera, viventi, derivate immediatamente l'una dall'altra, con milioni di mezzi per iscoprire l'etimologia delle loro radici; che ci accadrà in lingue remotissime, quasi ignote, antichissime, non figlie, non sorelle, ma bisnipoti, parenti lontanissime ec.
ec.? chi ardirà di dire con sicurezza che una tal voce, perchè non ha somiglianza alcuna con un'altra di altra lingua, non abbia con essa niuna affinità istorica? E notate che la voce jour, dies ec.
esprime un'idea quasi delle primitive, e delle più usuali nel discorso ec.
V.
p.4485.
Così, è provato che equus è la stessa voce che (???? (Niebuhr, Stor.
rom.
p.65.
not.223.
t.1.), (???? che somnus, ec.
ec.
Quanto presto e facilmente arrivi il fanciullo a cavar conclusioni dal confronto de' particolari, a generalizzare, ad astrarre, e ad acquistar da se stesso la cognizione di principii e di astrazioni che paiono di acquisto difficilissimo (e certo è mirabile il conseguirlo), si può vedere, fra l'altre, da questa considerazione.
Io ho notato, e tutti possono notare, bambini di due anni, profferire i verbi irregolari della lingua colle inflessioni che essi [4430]avrebbero dovuto avere se fossero stati regolari: p.e.
dire io teno, io veno, io poto, per tengo, vengo, posso.
Certamente, da nessuno sentivano essi dire io teno ec.; non dicevano dunque così per imitazione, ma per riflessione, per ragionamento; concludevano essi che se da sentire p.e.
si fa io sento, da vedere, io vedo, la prima persona di tenere, potere, doveva essere io teno, io poto; di venire, io veno.
E sbagliavano per esattezza di raziocinio e di generalizzazione.
Avevano dunque già trovate da se le regole generali delle inflessioni de' verbi, e formatosi già in mente il tipo, il paradigma, delle loro diverse coniugazioni: ritrovamento che esige tanta infinità di confronti, tanto acume di mente, e che pare uno sforzo dello spirito metafisico de' primi grammatici: ai quali non è punto inferiore un tal bambino.
ec.
ec.
Quest'osservazione merita grand'attenzione dagli psicologi e ideologi.
V.
p.4519.
(4.
del 1829.)
Alla p.4369.
Socrate ancora appartiene a questo discorso.
Dico ciò, avendo riguardo, non tanto ai Dialoghi di Platone, o platonici, ed ai Memorabili di Senofonte, quanto alla gran moltitudine di sentenze, similitudini o comparazioni, apoftegmi e detti morali, che sotto nome di Socrate, tratti da diversi autori e compilatori che li riferivano, si leggono nelle collezioni o florilegii di Stobeo, d'Antonio, di Massimo.
(4.
del 1829.).
V.
p.4469.
fin.
Al nostro da capo è anche analogo il greco (????? per di nuovo, (quasi da cima, che noi diremmo anche appunto da capo).
Socrate, ap.
Stobeo, cap.123.
?????????(: ed.
Gesner., Tigur.
1559.
?????(???????( (??????(??(???????????(???? ?(?(????????(????????(??????(?????(??(? (????(??????????(? ?(?( (???(???? ?(???(???.
Aleae ludo similis est vita: et quicquid evenit, veluti quandam tesseram disponere oportet.
Non enim denuo jacere licet, neque tesseram aliter ponere (versio Gesneri.) Al [4431]qual luogo Io.
Conradus Orellius, Opusc.
Graecorum veterum sententiosa et moral.
t.1.
p.455-6.
Lips.
1819., fa questa annotazione.
(?????? (????(?) (?????, denuo, iterum, wieder von vorne an.
Sic et Paulus Apostolus Gal.
IV.
9.
?(???(??? (questa voce è forse una glossa) (???????????(????(?(????.
et Josephus Antiquitt.
Lib.
I.
Cap.
XVIII.
§.3.
???(???(??????????(??????(???(?(?.
quem locum apposite citat Schleusner.
in Lex.
N.
Test.
h.v.
(5.
del 1829.)
Pitagora ap.
Jamblich.
de vit.
Pyth.
cap.18.
p.183.
ed.
Kiesslingii (editio novissima, la chiama l'Orelli nel 1819): ?????(???(??(???(??(??(?(????(?(??????(????(???????(?.
Benissimo: ma che dire di quella o intelligenza o cieca necessità che ha ordinate così le cose? e a che pro le fatiche, se il piacere, che è il solo fine possibile, è sempre male?
(6, 1829.)
Alla p.4406.
Giuliano, ep.22.
p.389.
B.
Spanhem.
??????????(??(???(???? (Erodoto).
Strab.
l.
XIV.
p.656.
e Diodoro, l.
II p.262 (Fabricius) chiamano Erodoto ???????(?.
- Anche nelle lingue moderne, le prime prose scritte, voglio dire, i primi libri in prosa, sono ordinariamente storici, cioè cronache e simili.
(6, 1829.).
V.
p.4464.
Alla p.4353.
poemata etc.
duntaxat decantata voce, perinde ut: apud veteres Germ.
ac Getas carmina antiqua, quae Tac.
in lib.
de morib.
etc.
et Jornandes cap.4 et 5 de reb.
Geticis, celebrat.
Fabric.
B.
G.
I.
I.
p.3-4.
(6.
1829.)
Digamma.
The history of Rome by B.
G.
Niebuhr, translated by Julius Charles Hare, M.
A.
and Connop Thirlwall, M.
A.
fellows of Trinity college, Cambridge.
the first volume.
Cambridge, 1828.
sezione intitolata : Ancient Italy; p.17.
not.33.
Micali [4432]with great plausibility explains the Oscan Viteliu on the Samnite denary of the same age (the age of the Marsic war) to be the Sabellian form of Italia.
T.
I.
p.52.
The analogy of Latium Samnium, gives Italium, or with the digamma Vitalium, Vitellium; and Vitellio is like Samnio.
Vitalia is mentioned by Servius among the various names of the country: on Aen.
VIII.
328.
- p.18.
In the Tyrrhenian or the ancient Greek (not.36.
In the former, according to Apollodorus Bibl.
II.
5.
10.; in the latter, according to Timaeus quoted by Gellius XI.
1.
Hellanicus of Lesbos cited by Dionysius, I.
35, does not determine the language.
Tyrrhenian however here does not mean Etruscan, but Pelasgic, as in the Tyrrhenian glosses in Hesychius.) italos or itulos meant an ox.
The mythologers connected this with the story of Hercules driving the Geryon's herd (not.37.
Hellanicus and Apollodorus in the passages just referred to) through the country: Timaeus, in whose days such things were no longer thought satisfactory, saw an allusion to the abundance of cattle in Italy.
(not.38.
Gellius XI.
1.
Piso, in Varro de re r.
II.
1, borrowed the explanation from the Greeks.)...
In the Oscan name of the country (dell'antica Italia), which, as we have seen, was Vitellium, there is an evident reference to Vitellius, the son of Faunus and of Vitellia, a goddess worshipt in many parts of Italy.
(not.39.
Suetonius Vitell.
I.) - Altrove l'autore nota che Vitulus, cognome di una famiglia romana, non è che Italus; preso, come tanti altri, dal paese originario della famiglia.
(7.
1829.)
[4433]Ib.
sezione intitolata The Oenotrians and Pelasgians, p.38-9.
l'autore nota e dimostra that, according to manifold analogy, Sikelus and Italus are the same name (not.122.
as (????? and ?????.
Aristot.
Meteorol.
I.
14.
p.33.
Sylb.
(vedi Cellar.
t.1.
p.886.) T and K are interchanged as in Latinus and Lakinius); e che però ugualmente Sicilia ed Italia sono un nome solo e medesimo I Siceli, secondo l'autore, furono Pelasghi, di quelli chiamati Tirreni, che dall'Italia, cioè da quella parte della penisola che allora si chiamava propriamente Italia, cacciati dagli Aborigini, emigrarono in Sicilia, così detta d'allora in poi, dal nome di questi emigranti, Siceli, cioè Itali.
(9.
1829.)
Ib.
p.40.
not.127.
Salmasius saw that Maleventum or Maloentum, in the heart of what was afterward Samnium would in pure Greek have been Maloeis or Malus.
E l'autore lo dimostra con altri esempi di nomi latini neutri in entum derivati da nomi greci mascolini in ?? o ???, genitivo ?????.
Vedi nel Cellar.
e nel Forc.
le sciocche etimologie di Maleventum date dagli antichi latini, le quali dimostrano la loro ignoranza o inavvertenza circa il digamma.
(9.
1829.).
Anzi da tale ignoranza sembra nato il nome di Beneventum dato a quel che prima fu Maleventum.
Ib.
p.50-1.
We may observe a magical power exercised by the Greek language and national character over foreign races that came in contact with them.
The inhabitants of Asia Minor hellenized themselves from the time of the Macedonian conquest, almost without any settlements among them of genuine Greeks: Antioch, though the common people spoke a barbarous language, became altogether a Greek city; and the entire transformation of the Syrians was averted only by their Oriental inflexibility.
Even the Albanians, who have settled as colonies in modern [4434]Greece, have adopted the Romaic by the side of their own language, and in several places have forgotten the latter: it was in this way only that the immortal Suli was Greek; and the noble Hydra itself, the destructions of which we shall perhaps have to deplore before the publication of this volume, is an Albanian settlement...
Calabria, like Sicily, continued a Grecian land, though Roman colonies were planted in the coasts: the Greek language only began to give way there in the 14th century; and it is not three hundred years since it prevailed (dominava) at Rossano, and no doubt much more extensively; for our knowledge of the fact as to that little town is merely accidental: indeed even at this day there is remaining in the district of Locri a population that speaks Greek.
(not.163.
For the assurance of this fact, which is stated in several books of travels in a questionable manner, I am indebted to the Minister Count Zurlo; whose learning precludes the possibility of his having confounded the natives with the Albanian colonies.).
(10.
1829.)
Ib.
sezione intitolata The Opicans and Ausonians, p.57.
Olsi, as it stands in the Periplus of Scylax (not.190.
?????(.
Peripl.
3.), is no errour of the transcriber; it is Volsi dropping the Digamma; hence Volsici was derived, and then contracted into Volsci...
I have no doubt that the Elisyci or Helisyci, mentioned by Herodotus (VII.
165.) among the tribes from which the Carthaginians levied their army to attack Sicily in the time of Gelon, are no other people than the Volsci.
- .
(10.
1829.)
Dispersar spagn.
(Quintana).
[4435]Discorso sopra Omero, ec.
Ateneo, l.14.
p.619.
E.
F.
620.
A.
ricorda certe canzoni ((??() popolari lamentevoli, solite cantarsi da' villani (?(?(?(??(???(???) fra' Mariandini, popolo dell'Asia, che abitò fra la Bitinia e la Paflagonia, sopra un loro antico; canzoni mentovate anche da Esichio voc.
?(????.
- Ib.
620.
b.
c.
parlando dei rapsodi, dice ??????(??????(???(????(?(?????(??????(????(???(???????(? (essere state canatate da' rapsodi) ?(??(?????( '??(?????(??(???(??(?????(??????(???????(???, (????(?????(???????(??????(???.
- Ib., d.
'?(???????(? ??(???????(??(??'???????????(??(? (sacrificiis, Dalechamp.), (???????????(? ???(??(? ?(????(?(???(??(, (????(?????? '????(????(?????(?(???( '????(???, '???(????????(??( '??(???.
Non so poi il come.
Dalech.
traduce historiam Herodoti egisse: Fabric.
in Erodoto, dice in theatro decantata fuisse, citando semplicemente questo luogo, dove però (????(?????? è ben più che decantasse.
Casaub.
qui non ha nulla.
(11.
1829.
Domenica.)
Orelli, loc.
cit.
p.4431.
princip.; p.519.??(?(??.
Exempli gratia, verbi causa, ut saepius.
V.
Ernesti ad Xenoph.
Mem.
IV.
c.7, 2.
Ruhnken.
ad Timaei Lex Plat.
p.56.
ed.2.
et Fischer in Indice ad Aeschin.
Socr.
hac voce.
(11.
1829.)
Considerazioni sopra Omero ec.
Non solo le poesie omeriche, ma molti altri scritti, e forse tutti quelli della più alta antichità, non solo poesie ma prose ancora, esistenti in oggi o perdute, ebbero probabilmente i loro diascheuasti, che ridussero la loro ortografia e dicitura a forma più moderna e meno rozza ed irregolare: e in tal forma soltanto, cioè diascheuasmenoi più o meno, passarono essi scritti alla posterità.
Ed io non posso tenermi dal credere che anche Erodoto, e anche quel che abbiamo di genuino d'Ippocrate, non ci sia pervenuto alterato e riformato da' diascheuasti (che possiamo tradurre riformatori).
[4436]Essi hanno ancora nella sintassi, e nella maniera, molta di quella irregolarità e di quella mancanza d'arte che si può aspettare dal loro tempo, ma non tanta: Senofonte ed altri del buon tempo ne hanno forse non meno: e in genere io trovo la costruzione e la dicitura loro molto più formata ed artifiziale di quel che mi paia verisimile in quell'età.
Non vi è abbastanza visibile l'infanzia della prosa, sì manifesta nei nostri, non dico Ricordano o suoi coetanei, ma i Villani ec.
(Così negli spagnuoli del 13.
sec., ne' francesi ec.) L'infanzia della prosa si vede bensì manifestissima in alcuni dei frammenti che restano di Democrito, contemporaneo all'incirca di Erodoto (morì di più di 100 anni nell'Ol.
94.
Erod.
fiorì Ol.
84.
440 anni circa av.
G.
C.
Ippocrate morì circa l'Ol.
100: ne' suoi scritti è citato Democrito).
Veggansi specialmente nella collezione (manchevole però ed imperfetta) datane dietro Enrico Stefano dall'Orelli (loc.
cit.
p.4431.
princip.) p.91-131.
i frammenti morali 43.
50.
70.
73.
121.
fisici 1.
Una stessa cosa si ripete in uno stesso periodo, non vi è quasi sintassi, parole necessarie, ed intere frasi o periodi, si omettono e sottintendono, l'un membro del periodo non ha corrispondenza coll'altro, il discorso procede per via di quelle forme che i greci chiamano anacoluti (o anacolutie), cioè inconseguenti, che è quanto dire senza forme.
Tali frammenti, cioè luoghi échappés (come di molti è naturale che accadesse) alla diascheuasi, possono servir di saggio della vera prosa di quell'età; sono similissimi al fare p.e.
del nostro Gio.
Villani; e paragonati col dir di Erodoto, possono servir di prova della mia opinione.
Dico échappés ec.
perchè certo, se Erodoto, anche Democrito subì la diascheuasi, e ??????????(??? corse fra gli antichi; negli altri suoi frammenti per la più parte, non si trova niente di simile; e Democrito passò fra gli antichi per egregio anche nello stile.
(Cic.
in Oratore c.20.
(67.) Itaq.
video visum esse nonnullis, Platonis et Democriti locutionem, etsi absit a versu, tamen, quod incitatius feratur, [4437]et clarissimis verbor.
luminibus utatur, potius poema putandum quam comicorum poetar.; ap.
quos, nisi quod versiculi sunt, nihil est aliud quotidiani dissimile sermonis.
De Orat.
I.
11.
(49.) Si ornate locutus est, sicut fertur, et mihi videtur, physicus ille Democr.; materies illa fuit physici, de qua dixit; ornatus vero ipse verbor., oratoris putandus est.) Cicerone lo loda anche di chiarezza.
(de Divin.
II.
64.
(133.) valde Heraclitus obscurus; minime Democritus).
I frammenti sopra notati s'intendono solamente per discrezione.
È ben vero che questa discrezione tutti l'hanno, e malgrado la forma perplessa e intricata, tutti gl'intendono alla prima.
E in verità son chiari.
Così i nostri antichi, così quasi tutti i libri di siffatti tempi e stili, primitivi, ingenui, con poca arte, quasi come natura détta: natura parla al lettore, come ha dettato allo scrittore; essa serve d'interprete.
Del resto quei costrutti e quella maniera di dire, poichè l'uso dello scrivere in prosa fu divenuto comune, sparirono quasi affatto; non si trovano nè anche nelle scritture greche che si leggono su' papiri venuti d'Egitto, tutte, benchè oscure, intricate, rozze, senz'arte, pure più logiche, più grammaticali, più regolari e formate, benchè fatte da persone ignoranti e prive dell'arte: come tra noi, anche un ignorante notaio, benchè scriva assai male, schiva le sgrammaticature de' nostri storici e filosofi del 200, e 300.
V.
pag.4466.
Nella letteratura (greca) non saprei citarne altri esempi: se non che si trovano in buona parte de' libri de' primi Cristiani, sì de' libri canonici, e sì di quelli detti apocrifi282 e nei frammenti ercolanesi di Filodemo, monumenti d'ignoranza singolare in tal genere, e di negligenza.
V.
p.4470.
- Ma in vero non ci son giunti ??????????(??? in qualche modo tutti, si può dire, i libri antichi? non è provato che Cicerone, p.e., non iscrisse [4438]con quella ortografia colla quale i suoi libri sono stampati? nè con quella de' mss.
che ne abbiamo? la quale è anche diversa da quella usata, e introdotta ne' libri antichi, da' grammatici latini del 4.
secolo? (Niebuhr, Conspectus Orthographiae codicis vaticani Cic.
de repub., in fine) V.
p.4480.
(12.
Gen.
1829.
Recanati.)
Cleobulo (un de' 7.
sapienti) ap.
Stobeo, c.3.
???(?????(???? ed.
Gesn.
Tigur.
1559.
?(?(????(????????( ??(??????(?(????(???(??(??????(??????????????: Sed ?(????(?????? multo est exquisitius: amore alicujus quasi deperire.
Vid.
Hemsterhus.
ad Lucian.
Dial.
Marin.
I.
t.2.
p.346.
ed.
Bipont.
(Orell.
loc.
sup.
cit., p.529.) (15.
Gennaio.
1829.).
alios subsannanti ne subrideas, invisus enim fies quibus illuditur.
Id.
ap.
Laert.
I.
93.
?(?(?????(????(? ???????(????(?(????(????????(????(????.
Per il Galateo morale.
(14.
1829.)
Alla p.4346.
???(??(???????(?(???????( (fratris filio) ?(??( (((?????) ?(?????(?(????(??(??????, (?????(??(????(( ((???), ??(?????(??????(???????((????(?????(?(? (volle che quel ragazzo, cioè il nipote, glielo insegnasse.) Stobeo, c.29.
???(????????(??.
ediz.
Gesn.
Tigur.
1559.
(15.
1829.)
È più penoso il distrarre per forza la mente da un pensiero acerbo o terribile che si presenti, di quello che sia il trattenervisi.
(17.
1829.)
Vivere senza se stesso al mondo, goder cosa alcuna senza se stesso, è impossibile.
Però chi si trova senza speranza, chi si vede disprezzato da' conoscenti e da tutti coloro che lo circondano, e quindi necessariamente è privo della stima di se medesimo, non può provar godimento alcuno, non può vivere, [4439]a dir proprio: perchè questo tale veramente manca di se medesimo nella vita.
(17.
1829.).
V.
p.4488.
N.
N.
legge di rado libri moderni; perchè, dice, io veggo che gli antichi a fare un libro mettevano dieci, venti, trent'anni; e i moderni, un mese o due.
Ma per leggere, tanto tempo ci vuole a quel libro ch'è opera di trent'anni, quanto a quello ch'è opera di trenta giorni.
E la vita, da altra parte, è cortissima alla quantità de' libri che si trovano.
Onde ec.
(17.
1829.)
I forti, i fortunati, sentono e s'interessano per altrui (????(????????( delle loro facoltà e forze: i deboli ed infelici non ne hanno abbastanza per se medesimi.
Il sentimento per altrui non è veramente altro che un superfluo, un eccesso delle proprie facoltà misurate coi bisogni e colle occorrenze proprie.
(17.
1829.)
In questo secolo sì legislativo, nessuno ha pensato ancora a fare un codice di leggi, civile e criminale, utopico, ma in tutte forme, e tale da servir di tipo di perfezione, al quale si dovessero paragonare tutti gli altri codici, per giudicare della loro bontà, secondo il più o meno che se gli assomigliassero; tale ancora, da potere, con poche modificazioni o aggiunte richieste puramente dalle circostanze di luogo e di tempo, essere adottato da qualunque nazione, almeno sotto una data forma di governo, almeno nel secolo presente, e dalle nazioni civili ec.
(17.
Gennaio.
1829.)
Tomber, tumbar (spagn.) - tombolare.
Tumbo (spagn.) tombolo ec.
[4440]Muggine-mugella.
Machiavellismo di società.
Chi si crede un coglione al mondo, lo è, e lo comparisce.
- Le leggi ec.
contenute in questo trattato, non sono già passeggere ec.; sono eterne, almeno quanto le leggi fisiche ec.
(18.
1829.)
Alla p.4370.
Dionysio Halicarnass.
(Caecilius) usus est familiarissime.
V.
Dionys.
Hal.
in Epist.
ad Cn.
Pompeium.
Toup.
ad Longin.
sect.1.
p.153.
Aequalis et amicus (Caecil.) Dionysio Halicarnasseo.
Casaub.
ad Athen.
VI.
21.
init.
- Del resto, è falso però quel che crede l'Amati, che un nome greco unito e preposto ad un cognome romano, come sarebbe in questo caso, Dionisio Longino, sia cosa senza esempio.
Ella non è sì frequente come un nome greco unito e posposto a un nome romano gentile, p.e.
Claudio Tolomeo, Claudio Galeno, Pedanio Dioscoride, Elio Aristide, Cassio Dione ec.; ma nondimeno esempi non ne mancano; e ne abbiamo, fra gli altri, uno famoso, Musonio Rufo, filosofo stoico del tempo di Nerone, del quale v.
Reimar.
ad Dion.
l.62.
c.27.
p.1023.
sq.
§.
(cioè nota) 143.
(18.
Gennaio.
1829.
Domenica.).
E il Lambecio, Commentar.
de Biblioth.
Vindob.
lib.8., congetturava che la traduzione greca che abbiamo del Breviarium d'Eutropio, e che porta nome di Peanio o Peania, fosse chiamato Peania Capitone: il primo nome greco, e l'altro romano.
(19.
1829.).
V.
p.4442.
Come in moltissime altre cose, il nostro tempo si riavvicina al primitivo anche in questo: che esso ha in poco pregio la poesia di stile,283 la poesia virgiliana, oraziana ec., anzi non questa sola, ma anche quella p.e.
del Petrarca, ed ogni poesia che (???? abbia stile e richiede poesia di cose, d'invenzione, d'immaginazione; non ostante che ad un secolo sì eminentemente civile, questa paia del tutto aliena, quella del tutto propria.
(19.
1829.)
[4441]Al discorso della eccellente umanità degli antichi paragonati ai moderni, (del che altrove), appartiene ancora il gius d'asilo che avevano presso loro non pure i templi o altri luoghi pubblici, ma eziandio il focolare d'ogni casa privata; e ch'era tanto più venerato che non è da noi.
Orelli, loc.
sup.
cit., p.542.
'???(????(?? (precetto d'alcuno de' 7.
sapienti ap.
Stob.
c.3.).
Sensus est: Jus foci sanctum haheas, vel: Supplicem honorato qui foco assidet.
('??(????(?(?? supra in Periandro Ald.) De supplicum more assidendi foco vel arulae illi aut larario, quod ad focum excitari solitum erat, ubi jus erat (???(??, v.
Casaub.
ad Dionys.
Hal.
Ant.
Rom.
l.8.
p.1504.
Reisk.
et intpp.
ad Thucyd.
l.1.
c.136.
p.227.
ed.
Bauer.
- Così la misericordia verso i supplichevoli, anche nemici, offensori ec., protetti da Nemesi ec.
e v.
la nota favola delle Preghiere ec.
ap.
Omero.
- Così l'onore singolare che si aveva ai vecchi ec.
- Così il rispetto ai morti, anche nel parlare.
?(????????(???????(?????(??(?????(??.
Legge di Solone, ap.
Plut.
in Solon.
p.89.
ed.
Francof.
- Chi vuol vedere quasi compendiata, e ammirare, l'umanità degli antichi (anche antichissimi), vegga le sentenze e i precetti che correvano sotto nome dei 7.
sapienti, (e sono di grande antichità certamente) e che, raccolti già in antico (ap.
Stob.
si nominano per autori di quelle due collezioni ch'esso riporta, dell'una Demetrio Falereo, dell'altra Sosiade) (19.
1829.) si trovano riportati da Stob.
c.3.
???(?????(????, ed.
Gesn.
Tigur.
1559.
(vedili nell'Orelli l.c., p.138-156.).
(19.
Gen.
1829.)
Alonso, spagn.
moderno - Al-f-ons, spagn.
antico (in una scrittura del 13° sec.
ec.).
(((( - sil-v-a.
(20.
1829.)
[4442]Cerebrum - cervello.
Alla 4440.
Non parlo dei Disticha de moribus assai noti e certamente antichi, che corrono sotto nome di Dionisio Catone; nome che non è fondato in alcuna probabile autorità.
(22.
Gen.
1829.)
Consulere-consilium ec.
Exsul, exsulium-exsilium ec.
Alla p.4428.
fine.
Così matutinum (tempus), il mattino, le matin, per mane; matutina (hora), la mattina, la mañana.
Vespertinum, serum (le soir), sera (la sera), spagn.
la tarde, per vespera.
V.
il Gloss.
E ciò anche presso gli antichi: v.
Forc.
in queste voci.
Così nelle Ore canoniche Matutinum, Prima, Tertia, Sexta, Nona.
Hibernum, l'inverno, l'invierno (spagn.), l'hiver, per hiems.
Aestivum (spagn.
estío), per aestas.
V.
Gloss.
e Forcell.
anche in diurnus.
Similmente Infernus (locus) negli scrittori Cristiani, e forse anche in Varrone.
E tali altri aggettivi sostantivati.
(24.
1829.).
V.
p.4465.4474.
(?????? - Avernus.
Niebuhr (loc.
cit.
p.4431.
fine), sezione intitolata The Opicans and Ausonians, p.55.
Apulus and Opicus are according to all appearance the same name, only with different terminations.
That in ulus acquired the meaning of a diminutive only in the language of later times; in earlier such a sense must be entirely separated from it; as is evident from Siculus and Romulus, as well as from the words uniting the two terminations (quella in icus e quella in ulus), which is the commoner case, Volsculus (contratto da Volsiculus), Aequiculus, Saticulus; and even Graeculus.
- Ib.
sez.
intit.
Iapygia, p.126.
The Poediculians (such was the Italian name of the Peucetians) were etc.
(not.419.
The simpler [4443]forms, Poedi and Poedici, have not been preserved in books.) - Ib.
sez.
intit.
Various traditions about the Origin of the City p.174.
It was natural for them (the inhabitants of Rome) to call the founder of their nation Romus, or, with the inflexion so usual in their language, Romulus.
- Ib.
sez.
intit.
The Beginning of Rome and its Earliest Tribes, p.251.
Romus and Romulus are only two forms of the same name (not.698.
Like Poenus and Poenulus and others mentioned above p.55); the Greeks on hearing a rumour of the legend about the twins (Romolo e Remo), chose the former (cioè 'P(???) instead of the less sonorous name Remus.284 - L'uso di questa terminazione in ulus senza alcuna forza diminutiva, uso proprio del latino sì antico, si è conservato perfettamente (e non men frequentemente) nell'italiano; specialmente in Toscana, e specialmente appresso quel volgo, il quale continuamente, per mero vezzo di linguaggio, aggiunge un lo appiè delle voci italiane, dicendo, p.e.
ricciolo invece di riccio,285 e così mille altre, che con tal desinenza non son registrate nel Vocabolario; oltre le tante registrate.
E che questo medesimo uso (unita anche sovente, come nell'antico, la terminazione in icus a quella in ulus) si conservasse perpetuamente nel latino volgare, apparisce dai tanti e tanti, non solo nomi, ma verbi, della bassa latinità, o derivati evidentemente da essa, da me notati passim, che la portano, senz'ombra di significazione diminutiva; come pariculus (parecchi, pareil ec.), appariculare (apparecchiare, aparejar ec.), superculus (v.
la p.4514.
fin.) ec.
ec.; nomi anche aggettivi ec.
Non ardirei però di affermare col Niebuhr che questa inflessione in origine non fosse punto diminutiva.
Il vederla senza questa significanza, non prova; apparendo da [4444]tanti, quasi infiniti, esempi (sì del greco, sì del latino basso sì dell'antico, sì delle lingue figlie della latina; e in queste, sì in forme venute dal latino, e sì in altre forme diminutive proprie loro e non latine) che sempre fu ed è vezzo di linguaggio, specialmente popolare, il profferire le voci con inflessione diminutiva, quasi per grazia, quantunque il caso sia alieno dal richieder diminuzione, e la significanza diminutiva sia affatto lontana da tal pronunzia.
(25.
Gennaio.
1829.
Domenica quarta.).
Del resto ho notato altrove quando l'ul...
è semplice desinenenza di voci derivative, come in speculum, iaculum ec.
e così ne' verbi, come fabulor ec.
V.
p.4516.
Non solo le storie o storielle d'una nazione furono spessissimo, come ho detto altrove in più luoghi, trasportate ed applicate ad un'altra; ma quelle eziandio d'una nazione medesima, cambiati i nomi delle persone, e le circostanze di luogo, tempo, e simili, furono sovente trasportate e applicate da un'epoca della sua storia ad un'altra.
Questa cosa è notata negli annali di Roma dal Niebuhr in più e più casi; ed egli ripete tale osservazione in più e più luoghi della sua storia.
Fra gli altri, sezione intitolata The War with Porsenna, p.484 seg., dice: It is a peculiarity of the Roman annals, owing to the barren invention of their authors, to repeat the same incidents on different occasions, and that too more than once.
Thus the history of Porsenna's war reflects the image of that with Veii in the year (di Roma) 277, which after the misfortune on the Cremera brought Rome to the brink of destruction.
In this again the Veientines made themselves masters of the Janiculum; and in a more intelligible manner, after a victory in the field: here again the city was saved by a Horatius (come dal Coclite nella guerra con Porsenna); the consul who arrived [4445]with his army at the critical moment by forced marches from the land of the Volscians: the victors, encamping on the Janiculum, sent out foraging parties across the river and laid waste the country; until some skirmishes, which again took place by the temple of Hope and at the Colline gate, checked their depredations: yet a severe famine arose within the city.
(26.
Gen.
1829.)
Niebuhr, ib.
sez.
intit.
The Patrician Houses and the Curies, p.268.
Each house (ciascuno dei ?(?? gentes nei quali era anticamente distribuito il popolo ateniese) bore a peculiar name resembling a patronymic in form; as the Codrids, the Eumolpids, the Butads: which produces an appearance, but a fallacious one, of a family affinity (perchè quelle gentes, come ap.
i Romani, erano una mera divisione politica; ciascuna gens o casa era composta di più famiglie senz'alcun riguardo ad affinità scambievole).
These names may have been transferred from the most distinguished among the associated families to the rest: it is more probable that they were adopted from the name of a hero, who was their eponymus.
Such a house was that of the Homerids in Chios; whose descent from the poet was only an inference drawn from their name, whereas others pronounced that they were no way related io him (not.747.
Harpocration v.
'????(???.
It may be warrantably assumed that a hero named Homer was revered by the Ionians at the time when Chios received its laws.
See the Rhenish Museum (Museo Renano) I.
257.) In Greek history what appears to be a family, may probably often have been a house of this kind; and this system of subdivision is not to be confined to the Ionian tribes alone.
(27.
1829.)
[4446]Ib.
sez.
intit.
Aeneas and the Trojans in Latium, p.166-7.
These wars Virgil describes, effacing discrepancies and altering and accelerating the succession of events, in the latter half of the Aeneid.
Its contents were certainly national; yet it is scarcely credible that even Romans, if impartial, should have received sincere delight from these tales.
We feel but too unpleasantly how little the poet succeeded in raising these shadowy names (degli eroi di quelle guerre), for which he was forced to invent a character, into living beings, like the heroes of Homer.
Perhaps it is a problem that cannot be solved, to form an epic poem out of an argument which has not lived for centuries in popular songs and tales as common national property, so that the cycle of stories which comprises it, and all the persons who act a part in it, are familiar to every one.
V.
p.4475 - Assuredly the problem was not to be solved by Virgil, whose genius was barren for creating, great as was his talent for embellishing.
That he felt this himself, and did not disdain to be great in the way adapted to his endowments, is proved by his very practice of imitating and borrowing, by the touches he introduces of his exquisite and extensive erudition, so much admired by the Romans, now so little appreciated.
He who puts together elaborately and by piecemeal, is aware of the chinks and crevices, which varnishing and polishing conceal only from the unpractised eye, and from which the work of the master, issuing at once from the mould, is free.
Accordingly Virgil, we may be sure, felt a misgiving, that all the foreign ornament with which he was decking his work, though it might enrich the poem, was not his own wealth, and that this would at last be perceived by posterity.
That [4447]notwithstanding this fretting consciousness, he strove, in the way which lay open to him, to give to a poem, which he did not write of his own free choice, the highest degree of beauty it could receive from his hands; that he did not, like Lucan, vainly and blindly affect an inspiration which nature had denied to him; that he did not allow himself to be infatuated, when he was idolized by all around him, and when Propertius sang: Yield, Roman poets, bards of Greece, give way, The Iliad soon shall own a greater lay; that, when death was releasing him from the fetiers of civil observances, he wished to destroy what in those solemn moments he could not but view with melancholy, as the groundwork of a false reputation; this is what renders him estimable, and makes us indulgent to all the weaknesses of his poem.
The merit of a first attempt is not always decisive: yet Virgil's first youthful poem shews that he cultivated his powers with incredible industry, and that no faculty expired in him through neglect.
But how amiable and generous he was, is evident where he speaks from the heart: not only in the Georgics, and in all his pictures of pure still life; in the epigram on Syron's (così, in vece di Sciron's) Villa: it is no less visible in his way of introducing those great spirits that beam in Roman story.
(29-30.
1829.)
Alla p.4316.
Ben d'altra qualità e d'altro peso è la congettura del Niebuhr fondata in profondissima dottrina, e scienza dell'antichità, that the Teucrians and Dardanians, Troy and Hector, ought perhaps to be considered as Pelasgian:...
that they were not Phrygians was clearly [4448]perceived by the Greek philologers, who had even a suspicion that they were no barbarians at all.
(loc.
cit.
p.4431.
fin., sezione intitolata The Oenotrians and Pelasgians, p.28.) Egli reca i fondamenti di questa sua propria e particolare opinione, ib.
Nella sez.
intit.
Conclusion di quella parte della sua storia che concerne gli antichi popoli d'Italia, p.148, ripete questa sua congettura: In the very earliest traditions they (the Pelasgians) are standing at the summit of their greatness.
The legends that tell of their fortunes, exhibit only their decline and fall: Jupiter had weighed their destiny and that of the Hellens; and the scale of the Pelasgians had risen.
The fall of Troy was the symbol of their story.
(L'autore riguarda la guerra di Troia come un mito.
Sez.
intit.
Aeneas and the Trojans in Latium, p.151.
Let none treat this inquiry with scorn, because Ilion too was a fable...
Mythical the Trojan war certainly is...: yet it has an undeniable historical foundation; and this does not lie hid so far below the surface as in many other poetical legends.
That the Atridae were Kings of the Peloponnesus, is not to be questioned.) Altrove (sez.
cit.
nella parentesi qui sopra, p.160-61.) egli reca di nuovo i fondamenti di questa opinione, e mette anco innanzi un'altra sua congettura, che la tradizione della venuta d'Enea nel Lazio, dell'avervi egli fondata una colonia donde Roma derivasse, e dell'essere i romani di origine troiana, non fosse altro che un effetto ed un'espressione della national affinity esistente fra i Troiani e i Romani, in quanto questi erano, secondo l'autore, di origine in parte Pelasgica.
- I Pelasghi, [4449]secondo il Niebuhr (ed una delle parti più insigni ed eminenti e più originali della sua Storia consiste nelle nuove vedute e nei nuovi lumi ch'ei reca sopra questa misteriosa razza, com'ei la chiama; e nella nuova luce in che egli l'ha posta), furono una nazione distinta, e di origine e di costumi diversa, da quella degli Elleni, che noi co' Latini chiamiamo Greci; e nel tempo medesimo grandemente affine: e parlarono una lingua peculiar and not Greek, e nondimeno grandemente affine alla greca; più affine della Latina, il cui elemento affine al linguaggio greco, quello elemento which is half Greek sembra, dice il Niebuhr, unquestionable che sia d'origine pelasgica.
Tuttavia Pelasghi e Greci non s'intendevano insieme, come non s'intendono italiani e francesi ec.
(p.23, e passim).
(31.
Gen.
1.
Feb.
1829.).
V.
p.4519.
A viver tranquilli nella società degli uomini, bisogna astenersi non solo dall'offendere chi non ci offende, cosa ordinaria; ma eziandio, cosa rarissima, dal proccurare (dal cercare) che altri ci offenda.
- Desiderio sincero di viver tranquilli nella società degli uomini, rarissimi sono che l'hanno veramente: avendolo, il conseguire l'effetto è cosa molto più facile che non si crede.
(1.
Feb.
1829.)
Tutti, cominciando dal Pindemonte nella sua Epistola, hanno biasimato l'introduzione di Ettore e delle cose troiane nel Carme dei Sepolcri; e tutti leggono quell'episodio con grande interesse, e segretamente vi provano un vero piacere.
Certo, quell'argomento è rancido; ma appunto perch'egli è rancido, perchè la nostra acquaintance con quei personaggi dàta dalla nostra fanciullezza, essi c'interessano sommamente, c'interessano in modo, che non sarebbe possibile, sostituendone degli altri, [4450]produrre altrettanto effetto.
(1.
Feb.
1829.)
Della lettura di un pezzo di vera, contemporanea poesia, in versi o in prosa (ma più efficace impressione è quella de' versi), si può, e forse meglio, (anche in questi sì prosaici tempi) dir quello che di un sorriso diceva lo Sterne; che essa aggiunge un filo alla tela brevissima della nostra vita.
Essa ci rinfresca, per così dire; e ci accresce la vitalità.
Ma rarissimi sono oggi i pezzi di questa sorta.
(1.
Feb.
1829.).
Nessuno del Monti è tale.
(??(??per (??.
V.
Orelli (loc.
cit.
p.4431.) tom.2.
Lips.
1821.
p.529-30.
Grus (grue) - spagn.
grulla, quasi grucula o gruicula.
- Sol - soleil, quasi soliculus.
- Legnaiuolo, armaiuolo ec.
quasi lignariolus e simili.
(2.
Feb.
1829.)
Mirado (ammirato) per maravigliato; en la noche callada per tacente.
Francisco de Rioja, Cancion (cioè sobre) las ruinas de It lica, strofa ultima.
Chi non sa circoscrivere, non può produrre.
La facoltà della produzione è scarsa o nulla in quell'ingegno dove le altre facoltà sono troppo vaste e soprabbondano.
(3.
Feb.
1829.).
Vedi la pag.4484.
Niebuhr (loc.
cit.
p.4431.
fine) sezione intitolata Beginning and Nature of the Earliest History, p.216.
segg.
The greater is the antiquity of the legends: (dei miti ec.
intorno ai fatti dei re di Roma, e ai primi tempi della città): their origin goes back far beyond the time when the annals (gli annali pontificali di Roma) were restored (furono rinnovati, dopo che gli antichi annali erano periti nell'incendio di Roma al tempo della presa della città fatta dai Galli).
That they were transmitted from generation to generation in lays, that their contents cannot be more authentic than those of any other poem on the deeds of ancient times which is preserved by song, is not a new notion.
A century and a half will soon have elapsed, since Perizonius (not.627.
In [4451]his Animadversiones Historicae, c.6.) expressed it, and shewed that among the ancient Romans it had been the custom at banquets to sing the praises of great men to the flute; (not.628.
The leading passage in Tusc.
Quaest.
IV.
2.
Gravissimus auctor in Originibus dixit Cato, morem apud majores hunc epularum fuisse, ut deinceps, qui accubarent, canerent ad tibiam clarorum virorum laudes atque virtutes.
Cicero laments the loss of these songs; Brut.
18.
19.
Yet, like the sayings of Appius the blind, they seem to have disappeared only for such as cared not for them.
Dionysius knew of songs on Romulus [(??(????(??????(????(?????? (?(?'P???(???(?????(??(? (?????, dice Dionisio 1.
79.
della nota favola circa la nascita di Romolo e Remo, e la vendetta da loro presa di Amulio]) a fact Cicero only knew from Cato, who seems to have spoken of it as an usage no longer subsisting.
The guests themselves sang in turn; so it was expected that the lays, being the common property of the nation, should be known to every free citizen.
According to Varro, who calls them old, they were sung by modest boys, sometimes to the flute, sometimes without music.
(not.629.
In Nonius II.
70.
stessa voce: (aderant) in conviviis pueri modesti ut cantarent carmina antiqua, in quibus laudes erant majorum, assa voce, ei cum tibicine.) The peculiar function of the Camenae was to sing the praise of the ancients; (not.630.
Fest.
Epit.
v.
Camenae, musae, quod canunt antiquorum laudes.) and among the rest those of the kings.
For never did republican Rome strip herself of the recollection of them, any more than she removed their statues from the Capitol: in the best times of liberty their memory was revered and celebrated.
(not.631.
Ennius [4452]sang of them, and Lucretius mentions them with the highest honour.).
We are so thoroughly dependent on the age to which we belong, we subsist so much in and through it as parts of a whole, that the same thought is at one time sufficient to give us a measure for the acuteness, depth, and strength of the intellect which conceives it, while at another it suggests itself to all, and nothing but accident leads one to give it utterance before others.
Perizonius knew of heroic lays only from books; that he should ever have heard of any then still current, or written down from the mouth of the common people, is not conceivable of his days: he lived long enough to hear, perhaps he heard, but not until a quarter of a century had passed since the appearance of his researches, how Addison (sic) roused the stupefied senses of his literary contemporaries, to join with the common people in recognizing the pure gold of poetry in Chevychase (v.
The Speciator's n.70.74.) For us the heroic lays of Spain, Scotland, and Scandinavia, had long been a common stock: the lay of the Niebelungen had already returned and taken its place in literature: (l'autore, p.196.
the German national epic poem, the Niebelungen lay.) and now that we listen to the Servian lays, and to those of Greece, (raccolti da Fauriel, che l'autore cita più volte), the swanlike strains of a slaughtered nation; now that every one knows that poetry lives in every people, until metrical forms, foreign models, the various and multiplying interests of every-day life, general dejection or luxury, stifle it so, that of the poetical spirits, still more than of all others, very few find vent: while on the contrary spirits without poetical genius, but with talents so analogous to it that they may serve as a [4453]substitute, frequently usurp the art; now the empty objections that have been raised no longer need any answer.
Whoever does not discern such lays in the epical part of Roman story, may continue blind to them: he will be left more and more alone every day: there can be no going backward on this point for generations.
One among the various forms of Roman popular poetry was the nenia, the praise of the deceased, which was sung to the flute at funeral processions, (not.632.
Cicero de legib.
II.
24.) as it was related in the funeral orations.
We must not think here of the Greek threnes and elegies: in the old times of Rome the fashion was not to be melted into a tender mood, and to bewail the dead; but to pay him honour.
We must therefore imagine the nenia to have been a memorial lay, such as was sung at banquets: indeed the latter was perhaps no other than what had been first heard at the funeral.
And thus it is possible that, without being aware of it, we may possess some of these lays, which Cicero supposed to be totally lost: for surely a doubt will scarcely be moved against the thought, that the inscriptions in verse (not.633.
On the coffin of L.
Barbatus the verses are marked and made apparent by lines to separate them: in the inscription on his son they form an equal number of lines, and may be recognized with as much certainty as in the former from the great difference in the length of them) on the oldest coffins in the sepulcre of the Scipios are nothing else than either the whole nenia, or the beginning of it [4454](not.634.
The two following inscriptions are of this kind: I transcribe them, because it si probable many of my readers never saw them.
Cornélius Lúcius Scípio Barbátus,
Gnáivo (patre) prognátus, fortis vír sapiénsque,
Quoius fórma vírtuti paríssuma fuit,
Consúl, Censor, Aédilis, qúi fuit apúd vos:
Taurásiam, Cesáunam, Sámnio cépit,
Subicit omnem Lúcánaam, (cioè Lucaniam)
Obsidésque abdúcit.
The second is:
Hunc únum plúrimi conséntiunt Románi
Duonórum optumum fúisse virúm,
Lúcium Scipiónem, fílium Barbáti.
Consúl, Censor, Aédilis, híc fuit apúd vos.
Hic cépit Córsicam, Alériamque úrbem
Dédit tempestátibus aédem mérito.
I have softened the rude spelling, and have even abstained from marking that the final s in prognatus, quoius, and the final m in Taurasiam, Cesaunam, Aleriam, optumum, and omnem, was not pronounced.
The short i in Scipio, consentiunt, fuit, fuisse, is suppressed, so that Scipio for instance is a disyllable; a kind of suppression of which we find still more remarkable instances in Plautus.
In the inscription of Barbatus, v.2, patre after Gnaivo is beyond doubt an interpolation: and in that on his son, v.6, it is to be observed that the last syllable [4455]of Corsicam is not cut off.) These epitaphs present a peculiarity which characterizes all popular poetry, and is strikingly conspicuous above all in that of modern Greece.
Whole lines and thoughts become elements of the poetical language, just like single words: they pass from older pieces in general circulation into new compositions; and, even where the poet is not equal to a great subject, give them a poetical colouring and keeping.
So Cicero read on the tomb of Calatinus: hunc plurimae consentiunt gentes populi primarium fuisse virum: (not.635.
Cicero de Senectute 17.) we read on that of L.
Scipio the son of Barbatus: hunc unum plurimi consentiunt Romani bonorum optumum fuisse virum.
The poems out of which what we call the history of the Roman Kings was resolved into a prose narrative, were different from the nenia in form, and of great extent; consisting partly of lays united into a uniform whole, partly of such as were detached and without any necessary connexion.
The history of Romulus is an epopee by itself: on Numa there can only have been short lays.
Tullus, the story of the Horatii, and of the destruction of Alba, form an epic whole, like the poem on Romulus: indeed here Livy has preserved a fragment of the poem entire, in the lyrical numbers of the old Roman verse.
(not.636.
The verses of the horrendum carmen I.
26.
Duúmviri pérduelliónem júdicent.
Si a duúmviris provocárit,
Provocátióne certáto:
Si víncent, caput óbnúbito:
[4456]Infélici arbore réste suspéndito:
Vérberato íntra vel éxtra pomoérium.
The description of the nature of the old Roman versification, and of the great variety of its lyrical metres, which continued in use down to the middle of the seventh century of the city, and were carried to a high degree of perfection, I reserve, until I shall publish a chapter of an ancient grammarian on the Saturnian Verse, which decides the question.) On the other hand what is related of Ancus has not a touch of poetical colouring.
But afterward with L.
Tarquinius Priscus begins a great poem, which ends with the battle of Regillus; and this lay of the Tarquins even in its prose shape is still inexpressibly poetical; nor is it less unlike real history.
The arrival of Tarquinius the Lucumo at Rome: his deeds and victories; his death; then the marvellous story of Servius; Tullia's impious nuptials; the murder of the just king; the whole story of the last Tarquinius; the warning presages of his fall; Lucretia; the feint of Brutus; his death; the war of Porsenna; in fine the truly Homeric battle of Regillus; all this forms an epopee, which in depth and brilliance of imagination leaves every thing produced by Romans in later times far behind it.
Knowing nothing of the unity which characterizes the most perfect of Greek poems, it divides itself into sections, answering to the adventures in the lay of the Niebelungen: and should any one ever have the boldness to think of restoring it in a poetical form, he would commit a great mistake in selecting any other than that of this noble work (del poema of the Niebelungen).
[4457]These lays are much older than Ennius, (not.637.
-Scripsere alii rem
Versibu' quos olim Fauni vatesque canebant:
Quom neque Musarum scopulos quisquam superarat,
Nec dicti studiosus erat.
Horace's annosa volumina vatum may have been old poems of this sort: though perhaps they are also to be understood of prophetical books, like those of the Marcii; which, contemptuously as they are glanced at, were extremely poetical.
Of this we may judge even from the passages preserved by Livy (XXV.
12.): Horace can no more determine our opinion of them than of Plautus.) who moulded them into hexameters, and found matter in them for three books of his poem; Ennius, who seriously believed himself to be the first poet of Rome, because he shut his eyes against the old native poetry, despised it, and tried successfully to suppress it.
Of that poetry and of its destruction I shall speak elsewhere: here only one further remark is needful.
Ancient as the original materials of the epic lays unquestionably were, the form in which they were handed down, and a great pary of their contents, seem to have been comparatively recent.
If the pontifical annals adulterated history in favour of the patricians, the whole of this poetry is pervaded by a plebeian spirit, by hatred toward the oppressors, and by visible traces that at the time when it was sung there were already great and powerful plebeian houses.
The assignments of land by Numa, Tullus, Ancus, and Servius, are [4458]in this spirit: all the favorite Kings befriend freedom: the patricians appear in a horrible and detestable light, as accomplices in the murder of Servius: next to the holy Numa the plebeian Servius is the most excellent King: Gaia Cecilia, the Roman wife of the elder Tarquinius, is a plebeian, a Kinswoman of the Metelli: the founder of the republic and Mucius Scaevola are plebeians: among the other party the only noble characters are the Valerii and Horatii; houses friendly to the commons.
Hence I should be inclined not to date these poems, in the form under which we know their contents, before the restoration of the city after the Gallic disaster at the earliest.
This is also indicated by the consulting the Pythian oracle.
The story of the symbolical instruction sent by the last King to his son to get rid of the principal men of Gabii, is a Greek tale in Herodotus: so likewise we find the stratagem of Zopyrus repeated (dal figlio di Tarquinio a Gabii): (anche la storia di Muz.
Scev.
è greca, cosa non notata dall'autore neppure a suo luogo, e da me osservata altrove; e greche sono quelle tante raccolte da Plutarco nel libro da me citato altrove in tal proposito) we must therefore suppose some knowledge of Greek legends, though not necessarily of Herodotus himself.
(5-8.
Feb.
1829.)
Alla p.4359.
Niebuhr (loc.
cit.
p.4431.
fin.) sezione intitolata The Beginning of the Republic and the Treaty with Carthage, not.1078.
p.456-7.
This play (the Brutus of L.
Attius) was a praetextata, the noblest among the three kinds of the Roman national drama; all which assuredly, and not merely the Atellana, might be represented by well-born Romans without risking their franchise.
[4459]The praetextata merely bore an analogy to a tragedy: it exhibited the deeds of Roman Kings and generals (Diomedes III.
p.487.
Putsch.); and hence it is self-evident, that at least it wanted the unity of time of the Greek tragedy; that it was a history, like Shakspeare's.
I have referred above (p.431.) to a dialogue between the King (Tarquinio superbo) and his dream-interpreters in the Brutus (dialogo citato da Cic.
de Divinat.
I.
22.), the scene of which must have lain before Ardea: the establishment of the new government (del governo repubblicano a Roma), which must have been the occasion of the speech, qui recte consulat, consul siet (nel Brutus: parlata citata da Varrone de L.
L.
IV.
14.
p.24.), occurs at Rome: so that the unity of place is just as little observed.
The Destruction of Miletus by Phrynichus and the Persians of Aeschylus were plays that drew forth all the manly feelings of bleeding or exulting hearts, and not tragedies: for the latter the Greeks, before the Alexandrian age, took their plots solely out of mythical story.
It was essential that their contents should be known beforehand: the stories of Hamlet and Macbeth were unknown to the spectators: at present parts of them might be moulded into tragedies like the Greek; if a Sophocles were to rise up.
(8.
Feb.
Domenica.
1829.)
Albino, antico autore, ap.
Macrob.
II.
16.
Stultum sese brutumque faciebat.
(Bruto l'antico).
Si faceva, cioè si fingeva.
Vecchissimo italianismo del latino.
V.
Forcell.
ec.
(8.
Feb.
Domenica.
1829.)
Storie o storielle trasportate da una nazione a un'altra.
Vedi la pag.
precedente, lin.10-17.
(8.
Feb.
Domenica.
1829.)
[4460]Affatto greco è l'uso che noi abbiamo di parecchi aggettivi neutri in significato di sostantivi astratti: lo scarso (?(???(????) per la scarsità, il caro per la carestia o la carezza, e simili.
Uso tutto italiano, cioè non comune, che io mi ricordi, alle lingue sorelle; nè potuto derivare dal latino, al quale, pel difetto che ha di articoli, sarebbe mal conveniente.
(11.
Feb.
1829.)
Svariato per vario.
Gnaivus per Gnaeus.
Vedi la pag.4454.
lin.4.
- Achivus p.
Achaeus ((??(??) è certamente da un ????(??, come Argivus da ?????(??.
Sinizesi.
Dittonghi ec.
Elisione dell'm finale in latino.
Vedi la pag.4454.
lin.17.
segg.
V.
p.4465.
Gli antichissimi scrivevano fut, fusse per fuit, fuisse.
Vedi la pag.4454.
lin.20.
Quindi anche fussem ec.
per fuissem.
E certamente così anco pronunziavano.
Or questa antichissima pronunzia si è conservata nell'italiano: fu (fut.
Anche in franc.
fut) fusti, fuste, fummo (fumus per fuimus: franc.
fûtes, fûmes), fussi ec.
pronunzia de' nostri antichi scrittori, ed oggi del popolo di più parti d'Italia, e del toscano costantemente.
(15.
Febb.
Domenica.
1829.)
Alla p.4356.
Dionisio d'Alicarnasso (vedi la p.4451.
lin.9.), chiama inni gli antichi canti epici de' Romani in lode de' loro eroi.
Alla stessa pag.
lin.
ult.
Gli antichi poemi epici de' Romani non consistevano che in pezzi, in canti, di argomenti diversi, benchè coincidenti in un solo fino ad un certo segno.
Così il poema epico antico nazionale tedesco, the lay of the Niebelungen.
Vedi di sopra il pensiero che comincia p.4450.
capoverso ult.
e specialmente le pagg.4455.4456.
[4461]Alla p.4413.
E vedi, a tal proposito, particolarmente la pag.4356.
capoverso 1.
Gli antichi canti nazionali e poemi epici de' Romani, epici per l'argomento e la forma, erano in metri lirici.
Vedi il pensiero citato nella pag.
preced.
capoverso ult., e specialmente la p.4455.
e la seguente.
Anche il poema della guerra punica di Nevio (libri o carmen belli punici) era in versi lirici di diverse misure, come può vedersi ne' frammenti di esso poema appresso Hermann, Elementa doctrinae metricae, III.
9.
31.
p.629.
sqq.
(Niebuhr, Stor.
rom.
p.162.
not.507.
p.176., not.535.).
(16.
Febbraio.
1829.)
Nelle razionali speculazioni circa la natura delle cose, è da aver sempre avanti gli occhi questo assioma importantissimo: che dal vedere che da certe disposizioni poste dalla natura in certi esseri, facilmente e frequentemente (o anche sempre) nascono certe qualità; che certe qualità, pur date dalla natura, facilmente e frequentemente ricevono certe modificazioni; che certe cause facilmente e spesso producono certi effetti; dal vedere, dico, queste cose, non si può dedurre che ciò segua naturalmente; che quelle qualità, quelle modificazioni, quegli effetti sieno voluti dalla natura; che la intenzione della natura sia stata che essi avessero luogo, allorchè ella pose in quegli esseri quelle disposizioni, qualità o cause.
Se uno fa una spada e un altro se ne serve a fettare il pane, non segue che l'intenzione del fabbricatore fosse che quello strumento fettasse il pane, benchè quella spada possa servire, e benchè serva attualmente, a quest'uso.
Infiniti sono i disordini nel corso delle cose, non solo possibili, ma facilissimi ad accadere; moltissimi tanto facili, [4462]che quasi sono certi ed inevitabili: nondimeno son disordini manifesti, nè si possono attribuire ad intenzione della natura.
Per un esempio fra mille: niente è più facile nè più frequente in certe specie di animali, che il veder le madri o i padri mangiarsi i propri figliuoli, bersi le proprie uova o quelle della compagna.
Questo disordine orribile, che fa fremere, tende dirittamente e più efficacemente d'ogni altro alla distruzione della specie: è impossibile attribuire ad intenzione della natura, la cui tendenza continua alla conservazione delle specie esistenti, è una delle cose più certe che di lei si possono affermare, e che in lei sembrino manifestarci un'intenzione; attribuirle dico un disordine per cui il produttore stesso distrugge il prodotto, il generante il generato.
Se la natura procedesse intenzionalmente in tal modo, già da gran tempo sarebbe finito il mondo.
Da queste considerazioni segue, che per quanto il fenomeno dell'incivilimento dell'uomo sia possibile ad accadere; per quanto, considerate le disposizioni e le qualità poste in noi dalla natura e costituenti l'esser nostro, esso fenomeno possa parer facile, inevitabile; per quanto sia comune; noi non abbiamo il diritto di giudicarlo naturale, voluto intenzionalmente dalla natura.
Grandissimi e vastissimi avvenimenti, fecondi di conseguenze sommamente moltiplici, importantissime, possono aver luogo a mal grado, per così dire, della natura.
(16.
Febb.
1829.) V.
p.4467.
4491.
L'autore anonimo della vita d'Isocrate pubblicata dal Mustoxidi nella (?????(?(??????(??(????(???, Venez.
1816.
????(???? (quaderno 3); e ristampata dall'Orelli loc.
cit.
p.4431., t.2.
Lips.
1821.
- p.10.
del ????(????, ed.
Mustox.; p.5.
ed.
Orell.
- ?(???????(?(??(??(??????(???????(????(???????(???(?(? [4463]??(???????( (e' non fa nulla, il ne fait rien) ?(??(??????(??(????????(???(????????(????(??????????(?? ('?????(???).
(???????(???????(??????????.
L'Orelli, l.c., p.525.
fa questa nota: (????(???????(???(?(????(???????( i.e.
hoc nullius fere vel perquam exigui momenti est.
ut nos dicimus: es macht nichts pro es hat nichts zu sagen, es hat nicht viel auf sich.
(17.
Feb.
1829.)
Meride nell'(????????(?.
((?????, ?????(???, (????(?.
????(??, ????????(???, (??????(?.
E così sogliono i grammatici antichi, non solo in generale, ma anche ne' casi particolari, distinguere costantemente dall'attico al greco comune, e riconoscere l'esistenza del secondo.
(17.
Feb.
1829.)
Rufino nella version latina dell'Enchiridion o Annulus aureus che porta il nome di Sesto o Sisto, num.372.
ed.
Orell., loc.
cit.
p.4431., t.
I.
p.266.
Quod fieri necesse est, voluntarie SACRIFICATO.
Nè il Forcell.
nè il Du Cange non hanno esempio di sacrificare, sacrificium ec.
in questo senso metaforico, sì comune nelle lingue figlie, specialmente nel francese.
(17.
Feb.
1829.)
S.
Nilo vesc.
e mart.
???(?????(???????(???? Capita seu praeceptiones sententiosae, num.199., ed.
Orell.
ib.
p.346.
?(???????(???(????(??????(????????(?? (conscientia) ?(??????(??(????(????????(?? (p.
???(?: quali-quali: italianismo) ?(??(???((?(???(? (scil.
??(????), ??(????(??????(??(????(??????.
(17.
Feb.
1829.)
Il medesimo ap.
Io.
Damasc.
Parallel.
Sacr., Opp.
ed.
Lequien.
t.2.
p.419.
et ap.
Orell.
ib.
p.362.
lin.6.
????(?? per ?(???, carne, cioè corpo (???(????, all'uso stoico.).
(17.
Feb.
1829.)
[4464]Lysis in Epistola ad Hipparchum p.52.
edit.
Epistolarum Socratis et Socraticorum, Pythagorae et Pythagoreorum, Io.
Conr.
Orellii, Lips.
1815.
(???????(?(???(???????(??(????(?????(???) ??(?????(?????(???????????(???, ???(?????(????(??????(????(???(???(???(???(???(??? (nemmen per sogno per in niun modo, niente affatto) ?(?????(??????????(???? (Orell.
ib.
p.600.).
(18.
Febbr.
1829.).
V.
p.4470.
Alla p.4165.
Così Callimaco, ?(?????(??(??'?((?, nel noto epigramma sopra il tor moglie di condizione pari, verso ult.
Vedilo nell'Orelli ib.
p.176.
e le note a quel luogo, ib.
p.555., e del Menag.
ad Laert.
ec., e nelle opp.
di Callimaco.
Il luogo di Teone citato nel pensiero a cui questo si riferisce, conferma la lezione ?(??'?((???????(??(??, ed è qui assai notabile e prezioso.
- Così noi diciamo anche andamenti, procedimenti, per azioni, o per modi di operare, di governarsi.
ec.
(18.
Febbr.
1829.)
Gratari - gratulari.
Trembler (tremulare).
Alla p.4431.
Tucidide, nel proemio, chiama gli storici ??????(????????????(? è usato per iscrivere istoria, narrare, raccontare; ????????(? per historiae scriptio; (???????????( da Eustazio per prosa, soluta oratio; ed anche ??????(??? si dice semplicemente per prosatore.
????????? per istorico da Senofonte.
(????(?? pur si dice particolarmente per ?????(????, cioè ne' significati qui sopra detti di ????????(?.
Isocrate nell'epilogo del ??(? ??????(?, distingue espressamente ?(????(???? e ?(??????(????? (?(?????????(????? ??(??(???????(??????(??(? ????????(??? ec.); ed Ammonio de Diff.
Vocab.
definisce il??(??????????????(??(????(??????(???, (???????????(?????????(?.
Appunto come se ?(????(???? non fossero ??????????(??, cioè scritti; o come se ?????(???? non valesse [4465]anche, come vale, semplicemente scrivere, conscribere.
(???????(? per istorico passim: ????????(? poeti e scrittori, cioè prosatori, passim, e in Laerz.
VI.
30.
???????( per istoria, narrazione, opera o composizione istorica, ap.
Pausan.
(?(????(?(??(?????????(?????????(??????(?????) e specialmente Arriano (Alexand.
praef.
5.
???????(: I.
12.
7.
IV.
10.
2.
V.
4.
4.
V.
6.
12.
VI.
16.
7.
VII.
30.
7.
Indic.
19.
8.
???????().
???????(??? prosa oratione, prosaice.
Plutar.
??(??(??(??(??????????(???????(??(?????????(????????????(???: Isocr.
nell'esord.
o ????(???? dell'ad Nicocl..
(Scapula, Tusano, Budeo: i quali non citano Arriano; e il solo Tusano Ammonio, ad altro oggetto, e non riporta le parole.).
(19.
Febbr.
1829.)
Alla p.4440.
(la quale, del resto, è anch'essa d'imaginazione, come ho detto altrove, ec.).
(19.
Feb.
1829.)
?(?????????(??.
Tardivo (ital.) - tardío (spagnuolo.).
Segnalato, señalado, signalé, per degno di essere segnalato, cioè notato; notevole.
Alla p.4460.
In the epitaph of L.
Cornelius Scipio Barbatus, Lucanaa - The doubling the vowel belongs to the Oscan and old Latin: in the Julian inscription of Bovillae we find leege.
Niebuhr, sezione intitolata The Sabines and Sabellians, not.248.
p.72-3.
(24.
Feb.
1829.)
Alla p.4442.
Verano spagn.
non è altro che vernum: verno per verno tempore o vere è assai frequente anche nel buon latino (Forcell.).
Secondo l'Amati, nel Giornale arcad.
tom.39., 3zo del 1828, p.240.
l'appellazione di PREIVERNUM o PRIVERNUM (oggi Piperno, antica città de' Volsci), tiensi per gli uomini più istruiti di fabbrica latina; da PREIMUM, o PRIMUM, e VERNUM, sottinteso TEMPUS: essendo la posizione del paese, in monti aprici e non molto elevati, [4466] attissima ad anticipata primavera.
(24.
Feb.
1829.)
Primavera, cioè primum ver o vernum, pel semplice ver.
Anche questo è d'antichissimo uso latino.
Vedi il pensiero precedente, e il Forcell.
in Ver.
(24.
Feb.
1829.)
Alla p.4437.
Ben sono frequentissimi gli esempi di tal genere, non solo quanto a voci, inflessioni e simili, non proprie della lingua scritta, e solamente volgari, ma quanto a sintassi e dicitura affatto sgrammaticata, anzi strana, nelle iscrizioni di gente popolare, sì greche, e sì massimamente latine; come è fra le mille, quella ritrovata in Ostia, e pubblicata ultimamente dall'Amati.
Giorn.
arcad.
t.39., 3zo del 1828., p.234.
Hic iam nunc situs est quondam praestantius ille
Omnibus in terris fama vitaque probatus
Hic fuit ad superos felix quo non felicior alter
Aut fuit aut vixit simplex bonus atque beatus
Nunquam tristis erat laetus gaudebat ubique
Nec senibus similis mortem cupiebat obire
Set timuit mortem nec se mori posse putabat
Hunc coniunx posuit terrae et sua tristia flevit
Volnera quae sic sit caro biduata marito.
Vivo specchio del dir di Democrito, e di quel che, secondo ogni verisimiglianza, furono le prime prose greche.
E quell'altra, edita dal med.
ib.
p.236-7.
Dis manibus Meviae Sophes C.
Maenius (sic) Cimber coniugi sanctissimae et conservatrici desiderio spiritus mei quae vixit mecum an.
XIX.
menses III.
dies XIII.
quod vixi cum ea sine querella nam nunc queror aput manes eius et flagito Ditem aut et me reddite coniugi meae quae mecum vixit tan concorde [4467]ad fatalem diem.
Mevia Sophe impetra si quae sunt manes ni (cioè ne) tam scelestum discidium experiscar diutius.
Hospes ita post obitum sit tibe terra levis ut tu hic nihil laeseris aut si quis laeserit nec superis comprobetur nec inferi recipiant et sit ei terra gravis.
(24.
Feb.
1829.)
Alla p.4354.
Probabilissimamente nella primitiva e vera scrittura, nella quale le vocali oggi dette lunghe, erano veramente doppie, cioè 2 vocali brevi, in tali casi si scriveva omettendo la 2da breve: p.
es.
in vece d'(?(?(??(??????si scriveva (???(??(?????, ovvero (????(??(?????, giacchè la scrittura ordinaria di (?( era (??(, di (???((??? ec.
In somma le vocali ora dette lunghe, eran veri dittonghi, due suoni brevi; l'uno de' quali si poteva elidere ec.
(25.
Febbr.
1829.).
V.
p.4469.
Alla p.4403.
Senofonte nell'Anabasi, al principio dei libri 2.
3.
4.
5.
7., riepiloga brevissimamente tutto il narrato prima, e dice: queste cose (???(???(???? (lib.2 (???????) ?(?(????(?????, cioè, non già nel libro precedente, il quale non contiene tutta quella narrazione ch'egli dice ed epiloga (e la divisione dell'Anabasi in libri forse è più recente di Senofonte), ma nella parte precedente di questa istoria, appunto come è usato ?(??? da Erodoto.
Il Leunclavio male traduce, lib.2.
e 3.
superiore libro, men male lib.4.
superioribus commentariis, bene lib.5.
hactenus hoc commentario, e lib.7.
superiore commentario.
Il lib.6.
comincia ex abrupto come il primo, e senza epilogo, nè proemio di sorta.
(25.
Feb.
1829.)
Alla p.4462.
E già le destinazioni, le cause finali della natura, in molte anco di quelle cose in cui è manifesta la volontà intenzionale di essa natura come loro autrice, o non si possono indovinare, o sono (se pur veramente vi sono) affatto diverse e lontane da quelle che parrebbono dover essere.
Per un esempio [4468]a che servono in tante specie d'animali quegli organi che i naturalisti chiamano rudimenti, organi imperfetti, incoati solamente, ed insufficienti all'uso dell'animale; in certe specie di serpenti due, in altri quattro piedicelli, che non servono a camminare, anzi non toccano nè pur terra, benchè sieno accompagnati da tutto l'apparato per camminare, cioè pelvi, scapule, clavicole, e simili cose? in certe specie di uccelli, ale che non servono per volare? e così discorrendo.
Il sig.
Hauch, professore di storia naturale in Danimarca, in una sua dissertazione "Degli organi imperfetti che si osservano in alcuni animali, della loro destinazione nella natura, e della loro utilità riguardo la storia naturale", composta in italiano, e pubblicata in Napoli 1827.
(Giorn.
arcad.
t.38., 2do del 1828.
p.76-81.), crede che siffatti organi servano di nesso tra i diversi ordini di animali (p.e.
quei piedicelli, tra i serpenti e le lucerte), di scalino o grado intermedio, per evitare il salto; e che essi sieno quasi abbozzi con cui la natura si provi e si eserciti per poi fare simili organi più sviluppati e perfetti di mano in mano in altri ordini vicini di animali.
Non so quanto quest'oggetto, questa causa finale, possa parere utile, e degna della natura e della cosa.
V.
p.4472.
Ma ricevuta tale ipotesi (ch'è l'argomento e lo scopo di quel libro), vedesi quanto le cause finali della natura sarebbero in tali casi lontane da ogni apparenza, e da tutto il nostro modo di pensare.
Giacchè chi di noi non tiene per evidente che i piedi sono fatti per camminare? (come l'occhio per vedere).
E pure quei piedicelli con tutto il loro apparato da camminare, non sarebbero fatti per camminare, nè poco nè punto; ma per un tutt'altro fine.
E in fatti non camminano; perchè vi sono insufficienti.
E quelle ali non volano, benchè per altro perfettamente organizzate (Hauch: il quale nota ancora che in alcuni di quegli uccelli [4469]esse non bastano nè anche nè servono punto a bilanciarli ed aiutare il corso, come si dice di quelle dello struzzo): and so on.
(26.
Feb.
giovedì grasso.
1829.)
Per un Discorso sopra lo stato attuale della letteratura ec.
- Togliere dagli studi, togliere dal mondo civile la letteratura amena, è come toglier dall'anno la primavera, dalla vita la gioventù.
(6.
Marzo.
1829.)
?(??(??? (Boristenita, filosofo) ????(??(??????(???(??????(???????(??(?(?????, ?(??(??????(???????(????? (?((????.
Dio Chrys.
Orat.
66.
de gloria.
p.612.
ed.
Reisk.
Bione diceva: non è possibile piacere ai più, se tu non divieni un pasticcio o un vin dolce.
(8.
Marzo.
Domenica.
1829.).
Può servire al Galateo morale, o al Macchiavellismo.
Alla p.4245.
Di questi (????? discorre (mi pare) di proposito, e può vedersi, il Coray, Notes sur les Caractères de Théophraste.
(8.
Marzo.
1829.)
Sinizesi.
V.
Forcell.
ec.
in Suavis e simili voci.
Sperno is - aspernor aris.
Contemtus, despectus, neglectus ec.
per contemnendus, contemnibilis ec.
E così in italiano francese e spagnuolo.
- Scitus, scite, scitulus, scitule ec.
saputo, saputello ec.
Alla p.4467.
E così i dittonghi.
I quali altresì, quando eran fatti brevi, si doveano scrivere senza l'ultima vocale: ?(???' (?(??????(??(, per ?(????, come oggi si scrive.
E similmente nel mezzo delle parole, i dittonghi e le vocali dette lunghe, quando eran fatte brevi, doveano scriversi semplici: ? per ?, ?? ec.; ? per ?, ?? ec.
ec.
(8.
Marzo.
1829.)
Alla p.4430.
Similmente quei tanti motti che sotto nome di Diogene cinico si trovano nel Laerzio, e nello Stobeo, Antonio e Massimo, ed altri, raccolti dall'Orelli, loc.
cit.
p.4431., t.2.
Lips.
1821.; moltissimi de' quali si trovano attribuiti in altri luoghi ad altri diversissimi personaggi; mostrano che a Diogene si riferivano popolarmente [4470]tutti i detti mordaci, arguti ec.
non solo morali o filosofici, ma qualunque.
(8.
Marzo.
1829.)
Il luogo del Laerz.
ap.
l'Orelli, loc.
cit.
nel pensiero preced., p.84.
num.111.
da nessuno inteso, e peggio dal Kuhnio (la cui spiegazione è data per ottima dall'Orelli, ib.
p.585-6.
dove chiama questo luogo difficilissimo), secondo il quale (v.
l'Orelli p.586.) avremmo dei galli ?(????????(?(???(?? caduti boccone, cioè sul becco, cosa finora non mai veduta; a me par chiarissimo, e contiene una satira contro i medici (dei quali Esculapio è il dio), che finiscono di ammazzare chi cade malato.
Quel ??(???? non era gallo, ma uomo, un lottatore, non reale, ma figurato, probabilmente in cera, secondo l'uso degli antichi, specialmente poveri, in tali (???(????.
V.
un luogo analogo, e confermante questa spiegazione, ib.
p.102.
n.216.; e la nota, p.595.: anche questo luogo spetta a Diogene.
Il gallo promesso da Socrate ad Esculapio, è venuto in mente al Kuhnio in questo proposito assai male a proposito, e l'ha indotto nell'errore.
(9.
Marzo.
1829.)
Alla p.4464.
Filone giudeo ha un luogo simile (?(???(???) ap.
Orell.
ib.
t.2.
p.116.
num.269.
Del resto, v.
il Forcell.
ec.
(9.
Marzo.
1829.)
Alla p.4437.
fin.
Non per ignoranza nè per negligenza, ma volutamente e a bello studio, si accostò a quel dir perplesso ec.
a quella maniera democritea anzi senz'ordine o regola alcuna di frase, e ciò esageratamente e fuor di misura, l'autore di quelle cinque ????(???? (Orell.
Dissertationes, Fabric.
Disputationes) in dialetto dorico, d'argomento morale, che si trovano appiè di parecchi mss.
delle opp.
di Sesto Empirico, e che furon pubblicate da E.
Stefano, dal Gale, dal Fabricio, e ultimamente da Gio.
Corrado Orelli (loc.
cit.
nella pag.
qui dietro, fin.): il quale autore, certo non molto antico, ma che intese di farsi creder tale, volle usare quel modo per contraffare anche in questo l'antichità.
(10.
Marzo.
1829.).
V.
p.4479.
[4471]Se gli scrittori conoscessero personalmente a uno a uno i lor futuri lettori, è credibile che non si prenderebbero troppa pena di proccurarsi la loro stima scrivendo accuratamente, nè forse pure scriverebbero.
Il considerarli coll'immaginazione confusamente e tutti insieme, è quello che, presentandoli loro sotto il collettivo e indefinito nome e idea di pubblico, rende desiderabile o valutabile la loro lode o stima ec.
(10.
Marzo.
1829.)
Alla p.4426.
Notano quelli che hanno molto viaggiato (Vieusseux parlando meco), che per loro una causa di piacere viaggiando, è questa: che, avendo veduto molti luoghi, facilmente quelli per cui si abbattono a passare di mano in mano, ne richiamano loro alla mente degli altri già veduti innanzi, e questa reminiscenza per se e semplicemente li diletta.
(E così li diletta poi, per la stessa causa, l'osservare i luoghi, passeggiando ec., dove fissano il loro soggiorno.) Così accade: un luogo ci riesce romantico e sentimentale, non per se, che non ha nulla di ciò, ma perchè ci desta la memoria di un altro luogo da noi conosciuto, nel quale poi se noi ci troveremo attualmente, non ci riescirà (nè mai ci riuscì) punto romantico nè sentimentale.
(10.
Marzo.
1829.)
Alla p.4365.
Certo, siccome la letteratura e le scienze greche, la filosofia ec., passando in Italia, furono causa che moltissime parole greche, appartenenti a tali rami, acquistassero cittadinanza latina, e di là sien divenute proprietà delle lingue moderne, non solo scritte, ma eziandio parlate; così anche la religione cristiana: e non dico delle voci tecniche della teologia, ma di tante altre voci proprie del cristianesimo traspiantate nel latino, e di là passate nelle lingue moderne (anche non figlie della latina), e in esse volgarissime d'uso, tanto che molte di loro sono sfiguratissime (o di forma o di significato) e appena lasciano scorgere la loro etimologia: come (in italiano) chiesa, clero, chierico, prete, canonico, vescovo, papa, battesimo, battezzare, cresima, eucaristia, catechismo, parroco, parrocchia, epifania, pentecoste, elemosina (limosina, limosinare ec.), accidia ec.
(10.
Marzo.
1829.), angelo, arcangelo, demonio, diavolo, [4472]patriarca, profeta, profezia, apostolo, martire, martirio, martìre, martoro, martoriare ec., cattolico, eretico, eresia (resia ec.), evangelo (vangelo), monaco, monastico, monasterio, eremo (ermo ec.
eremita, romito, romitorio, ec.) anacoreta, mistero (trasportato anche ad ogni sorta di cose ignote, e fuor della religione), ec.
Molte anche tradotte, come ?????(???, ???(?????, compungo, compunctio, prese nel senso morale; ???????(? tentatio; ed altre tali infinite, non pur voci, ma frasi e frasario della scrittura (gran fonte di grecismo al basso latino e alle lingue moderne) o de' padri greci, passate nelle nostre lingue, e coll'andar del tempo applicate anco a sensi ed usi affatto profani.286
(12.
Marzo.
1829.)
Alla p.4468.
Tale osservazione potrà parere soddisfacente come spiegazione del fenomeno, non del fine di esso.
(12.
Marzo.)
(??(?????( frammento di Archita, o sotto nome di Archita, ap.
Orelli, l.c.
p.4469.
fine, p.248.
lin.13.
- à l'égal de.
La Bruyère, e contemporanei - locuzione avverbiale, in senso di aeque ac.
(12.
Marzo.
1829.)
Galateo morale.
Il y a des ménagements que l'esprit même et l'usage du monde n'apprennent pas, et, sans manquer à la plus parfaite politesse, on blesse souvent le coeur.
Corinne, liv.3.
ch.
I.
5me éd.
Paris 1812.
t.
I.
p.92.
Les Anglais sont les hommes du monde qui ont le plus de discrétion et de ménagement dans tout ce qui tient aux affections véritables.
liv.6.
chap.4.
t.
I.
p.281.
(13.
Marzo.
2do Venerdì.
1829.)
Mille piacer non vagliono un tormento.
Or come può un piacere valer mille tormenti? e pure così è la vita.
(14.
Marzo.
1829.).
Questo verso racchiude una sentenza capitale contro la vita umana, e contro chi consente a vivere, cioè tutti i viventi.
Monosillabi latini.
Nix.
?(?????????(????.
V.
Orelli, loc.
cit.
qui sopra, p.279.
fine, il qual luogo, come si dice nelle note, è copiato da Aristotele.
[4473]?( ?(?? o ?(?(?, come luego, per dunque, però, iccirco, conseguentemente, necessariamente V.
Orelli ib.
p.312.
lin.8-9., e la nota p.697.
Luogo notabile.
Così, spesso, colla negazione: p.e., ?(??(???( ec.
??(???(????(?(????(, ovvero omesso il ??(???(??.
(23.
Marzo.
1829.)
???(????, coi derivati e composti (v.
Scapula in ?(???, e Orell.
ib.
p.752.
fin.) - se moquer coi derivati ec.
E notisi la forma neutra passiva, ossia reciproca, dell'uno e dell'altro verbo ec.
(25.
Marzo.
1829.)
??(????????????????(????.
cauneas-cave ne eas.
Tenebrosus-tenebricosus.
Nel dialetto popolare di Viterbo (Patrimon.
di S.
Pietro), menicare e trenicare, frequentativi di menare e tremare.
(Orioli nell'Antologia di Firenze.)
(??????? per (???.
Procop.
Hist.
arcan.
p.31.
ed.
Alemanni.
(I Lessici e Gloss.
nulla.)
(???? da ?(??(? sembra essere stato considerato, e chiamato così, come un grado, un genere medio tra ?(???, da ?(????, orazione, prosa; e ?(???.
(27.
Marzo.
1829.)
???(, (???(, usati in proposito d'istrumenti musici, ap.
Orell.
ib.
p.292.
lin.3., p.302, lin.13.
18.
23., p.336.
lin.19.
- tocco, toccare, toucher ec.
nello stesso senso.
In generale la forma diminutiva (o disprezzativa o vezzeggiativa ec.) spagnuola in illo, e ico, ecillo, ecico, cillo, cico, e l'italiana in glio e chio (icchio, ecchio, acchio ec.), e la francese in il, ill; ail, aill; eil, eill ec.; sì de' nomi, che de' verbi (ne' quali suol esser chiamata frequentativa), non è altro (anche nelle voci di origine non latina) che la mera latina in aculus, iculus, culus, iculare, culare, uscul.
ec.
contratta prima in clus, clum, iclus, clare ec.
(27.
Marzo.
1829.).
V.
p.4486.
Fama rerum.
Tac.
Vit.
Agric.
in fine.
Frase che desta un'idea [4474]vastissima, o una moltitudine di idee, e nel modo il più indefinito.
Di tali frasi, e, in generale, della facoltà di esprimersi in siffatta guisa, abbondano le lingue antiche; la latina specialmente, anche più della greca: e quindi è che la prosa latina, per l'espressione e il linguaggio (non per le idee, e lo stile, come la francese) è sovente più poetica del verso, non pur moderno, ma greco; benchè il latino non abbia lingua poetica a parte.
(28.
Marzo.
1829.)
Monosillabi lat., opposti alle voci greche corrispondenti.
Do??(??????, dal disusato ?(?.
Sufficiente detto di uomo, sufficienza ec.
- (???(?, (???(??? ec.
Alla p.4442.
Eremo sostant.
da (???(? agg.
sottint.
?(???.
Deserto.
V.
Forcell.
Nulla (res) per nihil.
E per via di tali sottintendimenti, infiniti altri aggettivi, non sol di tempo o luogo, ma d'ogni genere, son passati, in ogni lingua, ad essere sostantivi, in vece de' sostantivi originali loro corrispondenti.
Del resto anche il greco abbonda di tali ellissi negli aggettivi di tempo o luogo.
(28.
Marzo.
1829.)
Error grande, non meno che frequentissimo nella vita, credere gli uomini più astuti e più cattivi, e le azioni e gli andamenti loro più doppi, di quel che sono.
Quasi non minore nè meno comune che il suo contrario.
(28.
Marzo.
1829.)
Tanto, inquit, melius.
Fedro.
- tant mieux, tant pis.
Ce que les intérêts particuliers ont de commun (nella società) est si peu de chose, qu'il ne balancera jamais ce qu'ils ont d'opposé.
Rousseau, Pensées, Amsterdam 1786.
1re part.
p.23.
(28.
Marzo.
1829.)
On n'a de prise sur les passions, que par les passions; c'est par leur empire qu'il faut combattre leur tyrannie, et c'est toujours de la nature elle-même qu'il faut tirer les instrumens propres à la régler.
ib.
p.46.
Strascicare e strascinare, sono certamente frequentativi corrotti da trahere.
[4475]Alla p.4446.
Verissima osservazione, siccome l'altra analoga, p.4459., sopra i drammi.
Ma tali memorie, leggende e canti, non possono trovarsi se non in popoli che abbiano attualmente una vita e un interesse nazionale; dico vita e interesse che risieda veramente nel popolo: e però non possono trovarsi se non che in istati democratici, o in istati di monarchie popolari o semipopolari, (come le antiche e del medio evo), o in istati di lotta nazionale con gente forestiera odiata popolarmente (come, al tempo del Cid, degli spagnuoli cogli arabi), o finalmente in istati di tirannie combattute al di dentro (come nella Grecia moderna, e in più provincie ed epoche della Grecia antica e sue colonie).
Ma nello stato in cui le nazioni d'Europa sono ridotte dalla fine del 18° secolo, stato di tranquilla monarchia assoluta, i popoli (fuorchè il greco) non hanno potuto nè possono avere di tali tradizioni e poesie.
Le nazioni non hanno eroi; se ne avessero, questi non interesserebbero il popolo; e gli antichi che si avevano, sono stati dimenticati da' popoli, da che questi, divenendo stranieri alla cosa pubblica, sono anche divenuti stranieri alla propria storia.
Se però si può chiamare lor propria una storia che non è di popolo ma di principi.
In fatti nessuna rimembranza eroica, nessuna affezione, perfetta ignoranza della storia nazionale, sì antica, sì ancora recentissima, ne' popoli della moderna Europa.
In siffatti stati, gli eroi delle leggende popolari non sono altri che Santi o innamorati: argomenti, al più, di novelle, non di poemi o canti eroici, nè di tragedie eroiche.
Quindi apparisce che il poema epico, anzi ancora il dramma nazionale eroico, di qualunque sorta, e sia classico o romantico, è quasi impossibile alle letterature moderne.
Il vizio notato da Niebuhr nell'Eneide, è comune alle moderne epopee, al Goffredo particolarmente.
Meglio, per questo capo, i Lusiadi; i cui fatti anco, benchè recentissimi, abbondavano di poetico popolare, per la gran lontananza, ch'equivale [4476]all'antichità, massime trattandosi di regioni oscure, e diversisime dalle nostrali.
Meglio ancora l'Enriade, il cui protagonista vivea nella memoria del popolo, non veramente come eroe, ma come principe popolare.
Oltracciò quelle tradizioni di cui parla Niebuhr, dubito che possano aver luogo se non in tempi di civiltà men che mezzana (come gli omerici, quei de' romani sotto i re, de' bardi, il medio evo); nei quali hanno credito i racconti maravigliosi che corrono dell'antichità, e il moderno diviene antico in poco tempo.
Ma in giorni di civiltà provetta, come quei di Virgilio e i nostri, l'antico, per lo contrario, divien come moderno; ed anche tra il popolo non corrono altre leggende che quelle che narransi ai fanciulli, gli uomini non ne hanno più, non pur dell'eroiche, ma di sorta alcuna; e non v'hanno luogo altre poesie fondate in narrative popolari, se non del genere del Malmantile.
(29.
Mar.
1829.)
Da queste osservazioni risulterebbe che dei 3 generi principali di poesia, il solo che veramente resti ai moderni, fosse il lirico; (e forse il fatto e l'esperienza de' poeti moderni lo proverebbe); genere, siccome primo di tempo, così eterno ed universale, cioè proprio dell'uomo perpetuamente in ogni tempo ed in ogni luogo, come la poesia; la quale consistè da principio in questo genere solo, e la cui essenza sta sempre principalmente in esso genere, che quasi si confonde con lei, ed è il più veramente poetico di tutte le poesie, le quali non sono poesie se non in quanto son liriche.
(29.
Marzo 1829.)
- Ed anco [4477]in questa circostanza di non aver poesia se non lirica, l'età nostra si riavvicina alla primitiva.
- Del resto quel che della poesia epica e drammatica, è anche della storia.
Che importerebbe, che impressione, che effetto farebbe al popolo di Milano, di Firenze o di Roma, se oggi un nuovo Erodoto venisse a leggergli la storia d'Italia?
(30.
Mar.)
Alla p.4418.
Anche qui, come in tante altre cose della nostra vita, i mezzi vagliono più che i fini.
(29.
Mar.
1829.)
La felicità si può onninamente definire e far consistere nella contentezza del proprio stato: perchè qualunque massimo grado di ben essere, del quale il vivente non fosse soddisfatto, non sarebbe felicità, nè vero ben essere; e viceversa qualunque minimo grado di bene, del quale il vivente fosse pago, sarebbe uno stato perfettamente conveniente alla sua natura, e felice.
Ora la contentezza del proprio modo di essere è incompatibile coll'amor proprio, come ho dimostrato; perchè il vivente si desidera sempre per necessità un esser migliore, un maggior grado di bene.
Ecco come la felicità è impossibile in natura, e per natura sua.
(30.
Marzo.
1829.)
Alla p.4366.
Quindi l'aridità, il nessun interesse, la noia delle novelle, narrazioni, poesie allegoriche, come il Mondo morale del Gozzi, la Tavola di Cebete ec.
Non parlo delle personificazioni ed enti allegorici introdotti come macchine in poemi, come nell'Enriade: perchè a quelli il poeta mostra di credere veramente, come farebbe ad altri enti favolosi e fittizi, umani o soprumani ec.
(30.
Marzo.
1829.)
Piombato, plombé (del color del piombo), per plumbeo.
Dépiter, se dépiter.
Vouloir per potere e per dovere.
V.
Alberti in vouloir fine.
Errori popolari degli antichi.
- Parlerò di quegli errori che furono, o si può creder che fossero, propri de' volgari, e di quella sorta di persone [4478]che in tutte le nazioni vanno considerate come appartenenti al volgo; non già di quegli errori che il popolo ebbe comuni coi saggi; molto meno di quelli che furono proprii de' saggi; materia che sarebbe infinita.
Gli errori de' saggi, antichi e moderni, sono innumerabili.
Il popolo ha pochi errori, perchè poche cognizioni, con poca presunzion di conoscere.
Oltre che la natura, voglio dir la ragione semplice, vergine e incolta, giudica spessissime volte più rettamente che la sapienza, cioè la ragione coltivata e addottrinata.
E però non è raro che le genti del volgo e i fanciulli abbiano di molte cose opinioni migliori o più ragionevoli che i sapienti; e non è temerario il dire che, generalmente, nelle materie speculative e in tutte le cose il conoscimento delle quali non dipende da osservazione e da esperienza materiale, i filosofi antichi errassero dalla verità, o dalla somiglianza del vero, meno che i filosofi moderni: se non in quanto i moderni, quando scientemente e quando senza avvedersene, sono tornati in queste cose all'antico.
(31.
Marzo.
1829.)
On ne s'égare point parce qu'on ne sait pas, mais parce qu'on croit savoir.
Rousseau, pensées, II.
219.
V.
p.4502.
Il dogma dell'invidia degli Dei verso gli uomini, celebrato in Omero, e soprattutto in Erodoto e suoi contemporanei, sembra essere di origine orientale, o divulgato principalmente in oriente.
Poichè esso tiene alla dottrina del principio cattivo, ed a quelle idee che rappresentavano le divinità come malefiche e terribili; dottrina e idee aliene dalla religione della Grecia a' tempi omerici ed erodotei, come ho osservato altrove.
Ed esso è l'origine de' sacrifizi, e delle penitenze, sì comuni in oriente, quasi ignote in Grecia.
L'atto di Policrate samio (ap.
Erodoto) che getta in mare il suo anello per proccurare a se medesimo una sventura, non è che una penitenza.
(31.
Marzo.
1829.)
[4479]Scherzava sul poetar suo in questa forma: diceva ch'egli seguia Cristofaro Colombo, suo cittadino; ch'egli volea trovar nuovo mondo, o affogare.
Chiabrera, Vita sua.
Questo motto pare oggi una smargiassata, e ci fa ridere.
Che grande ardire, che gran novità nel poetar del Chiabrera.
Un poco d'imitazione di Pindaro, in luogo dell'imitazione del Petrarca seguita allora da tutti i così detti lirici.
E pur tant'è: a que' tempi questa novità pareva somma, arditissima, facea grand'effetto.
Oggi par poco, e basta appena a far impressione poetica tutta la novità e l'ardire che è nel Fausto o nel Manfredo.
- Può servire a un Discorso sul romanticismo.
(1.
Aprile.
1829.)
L'imaginazione ha un tal potere sull'uomo (dice Villemain, Cours de littérature française, Paris 1828.
nell'Antolog.
N.97.
p.125.
in proposito del generale entusiasmo destato dai canti ossianici al lor comparire, ed anco al presente), i suoi piaceri gli sono così necessari, che, anche in mezzo allo scetticismo di una società invecchiata, egli è pronto ad abbandonarvisi ogni volta che gli sono offerti con qualche aria di novità.
- Verissimo.
Il successo delle poesie di Lord Byron, del Werther, del Genio del Cristianesimo, di Paolo e Virginia, Ossian ec., ne sono altri esempi.
E quindi si vede che quello che si suol dire, che la poesia non è fatta per questo secolo, è vero piuttosto in quanto agli autori che ai lettori.
(1.
Aprile.
1829.)
Alla p.4470.
Pur quelle ????(????, così imposture come sono, le quali quantunque non antichissime, pur sono certamente antiche (l'Orelli, al quale però io non consento, nelle note, p.633, le crede anteriori a Pirrone e agli Scettici; e nella pref.
del vol., scritta dopo le note, p.
X.
le stima poco posteriori al filosofo Crisippo, [4480]anzi, p.
XI.
sospetta che sieno più antiche di Crisippo e dello stesso Platone; benchè le riconosca indubitatamente per imposture nelle note, e per opera di un sofista nella pref.: e il Visconti, Mus.
Pio-Clem.
t.3.
p.97.
ed.
Mil., nelle note all'imagine di Sesto Cheronese filosofo del tempo degli Antonini, le fa pluribus seculis antiquiores (Orell.), di esso Sesto), possono ben servire a darci un'idea dell'antichissima prosa greca, a noi necessariamente sì poco nota; poichè quell'impostore, per mentir l'antichità, giudicò servirsi di un linguaggio di quella forma.
Nei frammenti, sì morali e politici, e sì matematici e fisici, che portano il nome di Archita pitagorico (i quali io non so se sieno di Archita (Orell.
pref.
p.
XI.), nè di quale Archita (ib.
p.672.); ma in parecchi di loro credo veder caratteri e segni certi di molta antichità), l'arte dello esprimere i pensieri in prosa, si vede non più bambina; non però adulta; ma quasi ancora fanciulla: un aggirarsi, un confondersi spesso, uno stentare (un sudare in) a darsi ad intendere, a disporre e congiungere insieme gl'incisi e i periodi.
(2.
Aprile.
1829.)
Stentato, stentatamente ec.
Alla p.4438.
E che altro che una diascheuasi era quella onde o libri interi, o passi e frammenti d'autori greci, dal dialetto in che erano scritti originalmente, venivano ridotti al parlar greco comune, e talora anche a qualche altro dialetto? (Orelli, ib.
t.2.
p.720.
fin.) cosa frequentissima.
Così il moderno editore del libro ???(??(????(?????(???(???? che porta il nome di Ocello lucano, Rudolph (Rudolphus), crede quel libro e dorica dialecto in communem conversum (Orell.
ib.
p.670.
fin.
p.671.
lin.9.): e in fatti, che che sia dell'autenticità, certo assai sospetta, di quel libro (Orell.
ib.
Niebuhr Stor.
roman.
ec.), la quale il Rudolph si sforza di sostenere contro il Meiners (che la combatte in Geschichte der Wissenschaften in Griechenland und Rom), certo è che, mentre il libro si legge ora in lingua comune, se ne trovano ap.
Stob.
(colla citazione del titolo di esso libro) alcuni passi in dialetto dorico.
(Libellus ???(??(????(?????(???(???? etiamnum exstat integer: quanquam non Dorica dialecto qualis primum scriptus ab Ocello fuerat, ut ex fragmentis a Stob.
servatis perspicue apparet: sed a Grammatico aliquo ut facilius a lectoribus intelligeretur, in ????(? dialectum transfusus...
Loca ex hoc Ocelli libro ap.
Stob.
Eclog.
phys.
p.44.45.
(lib.
I c.
24., ed.
Canter.).
Vide et p.59.
- Fabric.
B.
G.
t.1.
p.510.
seq.) (2.
Aprile.
1829.).
Così nei florilegi di Stobeo, d'Antonio e di Massimo, e in questi ultimi due specialmente, molti frammenti di diversi autori, sono mutati dall'ionico, o da altro de' dialetti greci, nel dir comune.
(Orell.
ib.
p.729.
[4481]num.6., e t.1.
p.114.
lin.26., p.515.
lin.14-16., ec.) (2.
Aprile.
1829.
Recanati.)
Odio verso i nostri simili.
Galateo morale.
Umanità degli antichi.
- Da che viene quel fenomeno sì incontrastabile, sì universale senza eccezione; che è impossibile essere spettatori di un piacer vivo, provato da altri (non solo uomini, anche animali), massime non partecipandone, senza sperimentare un irresistibile senso di pena, di rabbia, di disgusto, di stomaco? - piaceri sì morali, sì fisici.
- piaceri venerei, insoffribili a vedere in altri, sì uomini, sì anche animali: insoffribili anche agli animali, sì in quei della propria specie, sì in altri.
- Perchè sì spiacevole in natura la vista del piacer d'altri? - Il Casa nel Galateo prescrive che non si mangi o beva in compagnia o presenza altrui con dimostrazione di troppo gran piacere: Cleobulo ap.
Laerz., notato da me altrove, che non si faccia carezze alla moglie in presenza d'altri.
V.
p.
seg.
- In fatto di donne generalmente, in fatto di galanteria, la cosa è notissima; insoffribile non solo la vista, ma i discorsi, i vanti, di fortune altrui.
Il y a toujours dans les succès d'un homme auprès d'une femme quelque chose qui déplaît, même aux meilleurs [4482]amis de cet homme.
Corinne, liv.10.
ch.6., t.2.
p.161.
5me édit.
Paris 1812.
- Può servire anco al Galateo morale - e al Trattato de' sentimenti umani (3.
Apr.
1829.) - e al pensiero sulla monofagia, massime in proposito de' servitori ec.
Alla p.
preced.
(V.
Orell.
Opusc.
graec.
moral.
t.1.
p.138, e le note) e ciò è anche oggi di creanza universale, e quasi naturale.
(3.
Apr.
1829.)
Dal pensiero precedente apparisce (e l'esperienza lo prova) che vera amicizia difficilmente può essere o durare tra giovani, malgrado il candore, l'entusiasmo ec.
proprio dell'età.
E ve ne sono anche altre ragioni.
Più facile assai l'amicizia tra un giovane e un vecchio o un provetto.
- L'odio verso i simili, che essendo di ogni vivente verso ogni vivente, è maggiore verso quei della specie, ancor nella specie stessa è tanto maggiore, quanto un ti è più simile.
- Hanno gli Ebrei in un loro libro di sentenze e detti varii (che si dice tradotto di lingua arabica, ma verisimilmente è pur di fattura ebraica) (Orell.
Opusc.
graec.
moral.
t.2.
Lips.
1821., praef.
p.
XV.), che non so qual sapiente, dicendogli uno: io ti sono amico, rispose: che potria fare che non mi fossi amico? che non sei nè della mia religione, nè vicino mio, nè parente, nè uno che mi mantenga? (sentent.
269.
Apophthegm.
Ebraeor.
et Arabum ed.
a Io.
Drusio: Franequerae 1651.) - Quodam dicente, Amo te, Cur, inquit, me non amares? Non enim es ejusdem mecum religionis, nec propinquus meus, nec vicinus, nec ex iis, qui me alunt.
Orell.
ib.
p.506-7.
(4.
Apr.
1829.)
Il più certo modo di celare agli altri i confini del proprio sapere, è di non passarli mai.
(4.
Apr.
1829.)
Moestus da moereo (moeritus, moesitus, moestus, come torreo - tostus, questus, quaestus ec.) 1.
participio in us con senso neutro e presente.
2.
participio aggettivato.
3.
non più riconosciuto per participio.
Vedi Forcell.
ec.
(4.
Apr.).
Se non è da maereor.
[4483]Alla p.4437.
(dove la sgrammaticatura continua e il balbettare, viene dall'esser gli autori forestieri, grecizzanti non greci, o dall'affettare il dir non greco, l'imitazione del linguaggio scritturale dei 70 ec.).
L'imperfetto indicativo pel congiuntivo.
Se io sapeva (avessi saputo) questo, non andava (non sarei andato) ec.
Ch'ogni altra sua voglia Era (sarebbe stata) a me morte, ed a lei infamia rea.
Petr.
Canz.
Vergine bella.
Anche il più che perfetto.
S'io era ito ec., non mi succedeva ec.
E in francese si j'étais (s'io fossi) ec.
ec.
- Pretto grecismo.
(4.
Apr.
1829.)
Ebbero anche i greci de' libri di Mémoires secrets.
Tali sono gli Aneddoti o Storia Arcana di Procopio, e gli altri mentovati dal Fabric.
a questo proposito.
Vedilo, B.
Gr.
t.6.
p.253.
sqq.
e specialmente p.255.
not.
(n.).
(4.
Apr.
1829.)
Sinizesi.
Dittonghi ec.
Deesse dissillabo.
Cesare ap.
Donat.
Vit.
Terent.
Alla p.4415.
?(?????(???(??(????(???(???(????????(??(??(?(???(??????(??.
gratia carminis Quod nuper in libellis meis (meglio mea, cioè genua) super genua posui.
Batracom.
v.2.
3.
E la Batracomiomachia è pure una parodia omerica.
Eschilo fu nel 5to sec.
av.
G.
C., nato circa il 525.
(4 Aprile.
1829.).
?(???? pugillares qui forma litterae ? plicabantur: postea quivis liber.
Scap.
L'interesse nell'epopea, nel dramma, non nasce dal nazionale, ma dal noto, dal familiare.
Se le cose e le persone antiche e straniere ci sono (come sono in fatti) tuttavia più note, più familiari, più ricche di rimembranze che le nazionali e le moderne, anzi se le nazionali non ci sono nè familiari nè cognite; la conseguenza è chiara, quanto alla scelta dei soggetti, volendo cercare il piacere.
I nazionali nostri sono i Greci, i Romani, gli Ebrei ec.
coi quali siamo convissuti fin da fanciulli.
(5.
Aprile.
Domen.
di Passione.
1829.).
Volendo poi mirare all'utile, è un altro affare; ma in tal caso non bisogna dimenticare quel detto della Staël (Corinne, liv.7.
ch.2): Il (Alfieri) a voulu marcher par la littérature à un but politique: ce [4484]but était le plus noble de tous sans doute; mais n'importe, rien ne dénature les ouvrages d'imagination comme d'en avoir un.
(5me édit.
Paris 1812.
t.
I.
p.317.).
Errori popolari degli antichi.
Parlerò di questi errori leggermente, come storico, senza entrare a filosofare sopra ciascuno di essi e sopra la materia a cui appartengono; cosa che mi menerebbe in infinito, e vorrebbe non un Trattatello, ma un gran Trattato.
In questo secolo, stante la filosofia, e stante la liaison che hanno acquistata tutte le cognizioni tra loro, ogni menomo soggetto facilissimamente diviene vastissimo.
Tanto più è necessario, volendo pur fare un libro, che uno sappia limitarsi, che attenda diligentemente a circoscrivere il proprio argomento, sì nell'idea de' lettori, e sì massimamente nella propria intenzione; e che si faccia un dovere di non trapassare i termini stabilitisi.
(Chi non sa circoscrivere, non sa fare: il circoscrivere è parte dell'abilità negl'ingegni, e più difficile che non pare.
Vedi p.4450.
capoverso 6.) Altrimenti seguirà o che ogni libro sopra ogni tenuissimo argomento divenga un'enciclopedia, o più facilmente e più spesso, che un autore, spaventato e confuso dalla vastità di ogni soggetto che gli si presenti, dalla moltitudine delle idee che gli occorrano sopra ciascuno, si perda d'animo, e non ardisca più mettersi a niuna impresa.
Il che tanto più facilmente accadrà, quanto la persona avrà più cognizioni e più ingegno, cioè quanto più sarà atto a far libri.
(6.
Aprile.
1829.).
- Io non presumo con questo libro istruire, solo vorrei dilettare.
[4485]Alla p.4429.
Però io per me, se uno mi chiedesse p.e.: credi tu che (( abbia a far nulla con dies? risponderei: non so...
Oh come? che nè pure una lettera hanno comune? - Così dies e giorno, replicherei, non han comune una lettera, e pur questa voce nasce da quella.
(6.
Apr.
1829.)
Sinizesi, Dittonghi ec.
Le contrazioni e circonflessioni de' greci, che altro sono che sinizesi ec.
ec.?
(6.
Apr.
1829.)
Penato per penante.
Crus.
volg.
marchegiano.
(????????(????, coi derivati ec.
V.
Scapula ec.
Seccare, seccatore ec.
V.
Scapula in (???(?, coi derivati.
Merlo.
merlotto.
Scricchiolare, scricchiolata.
Rattenuto per cauto ec.
Affermi, mal affermi per fermo, mal fermo.
Del Saggio sopra l'origine unica delle cifre e lettere di tutti i popoli, per M.
De Paravey, Paris, 1826., Dissertazioni tre del P.
Giacomo Bossi.
Torino 1828.
St.
Reale (sic) 8° di p.103.
(11.
Apr.)
Chi ha viaggiato, gode questo vantaggio, che le rimembranze che le sue sensazioni gli destano, sono spessissimo di cose lontane, e però tanto più vaghe, suscettibili di fare illusione, e poetiche.
Chi non si è mai mosso, avrà rimembranze di cose lontane di tempo, ma non mai di luogo.
Quanto al luogo (che monta pur tanto, che è più assai che nel teatro la scena), le sue rimembranze saranno sempre di cose, per così dir, presenti; però tanto men vaghe, men capaci d'illusione, men soggette all'immaginazione e men dilettevoli.
(11.
Apr.
1829.
Recanati.)
La natura, per necessità della legge di distruzione e riproduzione, e per conservare lo stato attuale dell'universo, è essenzialmente regolarmente e perpetuamente persecutrice e nemica [4486]mortale di tutti gl'individui d'ogni genere e specie, ch'ella dà in luce; e comincia a perseguitarli dal punto medesimo in cui gli ha prodotti.
Ciò, essendo necessaria conseguenza dell'ordine attuale delle cose, non dà una grande idea dell'intelletto di chi è o fu autore di tale ordine.
(11.
Aprile.)
Delle cognizioni enciclopediche degli antichi (massimamente greci), e del loro scrivere sopra ogni ramo dello scibile, del che altrove, possono dare un'idea, e sono un esempio, anche gli scritti di Cicerone (fra superstiti e perduti) imitatore in ciò, come in tante altre cose, de' greci: il quale a molte delle sue opere (filosofiche, rettoriche ec.) fu mosso, non da alcuna ispirazione (??( particolare, da impulso, da affezione verso quegli argomenti, da trovarsi aver pensato con particolarità su di essi, ma dalla sola voglia, dal desiderio (che però la morte o gli affari gl'impedirono di soddisfare) di compire il ciclo (come Niebuhr chiama quello delle opere di Aristotele) de' suoi scritti sopra ogni dottrina enciclopedica ec.
V.
la pref.
de Officiis.
(12.
Apr.
1829.)
Alla p.4473.
Così i nostri diminutivi o disprezzativi o frequentativi ec.
in accio acciare287 - uccio, ucciare (succiare - succhiare, per suggere); azzo, azzare - uzzo, uzzare; aglio agliare - uglio ugliare (plebaglia, plebacula, germoglio, germogliare ec.).
Tutti dal lat.
acu - ucu - lus - a - um - lare; ulus, ulare.
Gli spagn.
in illo, illar ec.
(se non forse pochi) non vengono già dal latino in illus (quantillus, tantillus, pusillus, tigillum, pulvillus, catilla, cioè cagnuola), illare (cantillare ec.), nè ci hanno punto che fare.
Anche i greci hanno in ????????????.
Anche i franc.
in ache, acher (s'amouracher, amoraculari) ec.
V.
p.4496.
E in âche ec.
Frequentativi o diminutivi italiani, verbi e nomi.288 V.
il pensiero precedente e suoi annessi prima e poi.
Coccolone, penzolone ec.
ec.
(13.
Apr.)
[4487] Oscillo as.
freq.
- Serva ancora per i miei pensieri sui verbi latini comincianti in sus, essendo da cillo e ob, interposta la s.
Così oscillum ec.
V.
anche Forc.
in obscenus; e in Obs...
Os...
Sus...
Subs...
Alla p.4388.
E pure veggiamo che da 3 secoli che la presente ortografia italiana fu a un di presso introdotta, la pronunzia de' parlanti è ancora la stessa: dico in chi parla bene, e la cui pronunzia fu voluta con siffatta ortografia rappresentare.
Vale a dir che un Toscano parla oggidì e legge la nostra lingua com'ella sta nelle buone stampe del sec.16., e come la scrivevano allora i corretti scrittori; eccetto gli h inutili, e non mai pronunziati, ed altre tali particolarità, che non rappresentavano la pronunzia neppur d'allora.
Del resto, se quel che dice il Foscolo fosse vero, e d'altronde l'ortografia dovesse sempre star ferma, e lasciare andar la pronunzia, ne seguirebbe che prestissimo la lingua parlata e la scritta sarebbero 2.
lingue affatto distinte; e la difficoltà dell'imparare a leggere sarebbe enormissima, come è già grande ai francesi inglesi ec., e maggiore senza comparazione che agl'italiani e spagnuoli.
Non so che popolarità saria questa: la popolarità di quando la lingua scritta era latina, e la parlata volgare.
Fatto sta che non fu ragione, non fu un principio di conservazione di stabilità, di etimologia, quel che produsse e mantenne la pessima e falsissima ortografia francese inglese ec., ma fu solo l'ignoranza e la mala abilità de' primi che posero in iscrittura i volgari, i quali scrissero la lingua più, per così dire, in latino che in inglese ec.; e il non essersi rimediato poi a questo errore in Inghilterra in Francia ec., come si è [4488]fatto in Italia Spagna ec., anzi averlo seguitato.
Le discrepanze delle nostre prime ortografie che Foscolo cita, non provano che l'inabilità di que' primi a rappresentar la parola e la pronunzia stessa d'allora.
(13.
Apr.)
La vera (e naturale) perfezione dell'ortografia è che 1.
ogni segno, come si pronunzia nell'alfabeto, così nella lettura sempre; 2.
e nell'alfabeto esprima un suono solo.
3.
non si scriva mai carattere da non pronunziarsi, nè si ometta lettera da pronunziarsi.
(13.
Apr.)
Alla p.4439.
Quando io mi sono trovato abitualmente disprezzato e vilipeso dalle persone, sempre che mi si dava occasione di qualche sentimento o slancio di entusiasmo, di fantasia, o di compassione, appena cominciato in me qualche moto, restava spento.
Analizzando quel ch'io provava in tali occorrenze, ho trovato, che quel che spegneva in me immancabilmente ogni moto, era un'inevitabile occhiata che io allora, confusamente e senza neppure accorgermene, dava a me stesso.
E che, pur confusamente, io diceva: che fa, che importa a me questo (la bella natura, una poesia ch'io leggessi, i mali altrui), che non sono nulla, che non esisto al mondo? V.
p.4492.
E ciò terminava tutto, e mi rendeva così orribilmente apatico com'io sono stato per tanto tempo.
Quindi si vede chiaramente che il fondamento essenziale e necessario della compassione, anche in apparenza la più pura, la più rimota da ogni relazione al proprio stato, passato o presente, e da ogni confronto con esso, è sempre il se stesso.
E certamente senza il sentimento e la coscienza di un suo proprio essere e valere qualche cosa al mondo, è impossibile provar mai compassione; anche escluso affatto ogni pensiero o senso di alcuna propria disgrazia speciale, nel qual caso la cosa è notata, ma è ben distinta da ciò ch'io dico.
E al detto [4489]sentimento e coscienza, come a suo fondamento essenziale, la compassione si riferisce dirittamente sempre; quantunque il compassionante non se n'accorga, e sia necessaria un'intima e difficile osservazione per iscoprirlo.
Quel che si dice dei deboli, che non sono compassionevoli, cade sotto questa mia osservazione, ma essa è più generale, e spiega la cosa diversamente Ciò che dico del sentimento di se stesso, e della considerazione e stima propria, vale ancora per la speranza: chi nulla spera, non sente, e non compatisce; anch'egli dice: che importa a me la vita? Fate qualche atto di considerazione a chi si trova spregiato, dategli una speranza; una notizia lieta; poi porgetegli un'occasione di sentire, di compatire: ecco ch'egli sentirà e compatirà.
Io ho provato, e provo queste alternative, e di cause e di effetti, sempre rispondenti questi a quelle: alternative attuali, o momentanee; ed alternative abituali e di più mesi, come, da città grande passando a stare in questa infelice patria, e viceversa.
Il mio carattere, e la mia potenza immaginativa e sensitiva, si cangiano affatto l'uno e l'altra in tali trasmigrazioni.
(Recanati.
14.
Aprile.
Martedì santo.
1829.)
Possibilis da possitum, secondo che ho mostrato altrove della formazione in bilis dai supini: nuova prova del sup.
situm di esse.
(14.
Aprile.)
Lattato per latteo.
E simili altri aggettivi di colori.
Lacteolus per lacteus.
aggett.
V.
Forc.
in aureolus, argenteolus ec.
e negli altri aggettivi di colori.
Che l'antico bito sia un continuativo di vio as? onde viator, viaticus ec.
Vinciglio (vinculum), avvincigliare (avvinculare, altrimenti avvinchiare, avvinghiare.).
[4490]Romoreggiare.
Pavoneggiare.
Atteggiare.
Veleggiare.
Il nostro favorare par dimostrato nel latino da favorabilis, favorabiliter, giusta il detto da me altrove della formazione in bilis dai supini de' verbi.
E così, da simili prove d'ogni genere, note generalmente o non note, altre infinite voci.
E certo, che infinite voci volgari, anche radici ec., non superstiti nel latino noto, e che noi non sappiamo donde derivare, e cerchiamo forse nel settentrione ec., sieno pure e prette latine (latino scritto o solamente parlato, voglio dire non letterario), si conferma coll'osservazione d'ogni giorno.
Borghesi ha trovato nelle lapidi (e dee stare nella nuova edizione del Forcell.) la voce drudus i, (17.
Aprile.
Venerdì Santo.
1829.) la cui origine, non che essa medesima, nessuno avrebbe cercato nell'ant.
latino
(18.
Apr.)
Babil, babiller, babillard ec.
Gaspiller, gaspillage ec.
Gazouiller ec.
Plumasserie, plumassier.
Observito as.
Beccare - bezzicare.
Piccare - pizzicare.
Piovizzicare (marchigiano), e pioviccicare (id.).
Piluccare - spilluzzicare.
Appiccare - appicciare, appiccicare.
Scioperato, désoeuvré.
Homme répandu.
(Rousseau, pensées I.
202.).
Dissipé.
Erto (erectus), participio aggettivato.
Perdonare, pardonner, perdonar, voce di forma ed apparenza affatto latina e antica: per, omnino, penitus, ad extremum, come in pereo, perdo, perimo, perdomo, perduro, ec.
ec.
e donare cioè condonare.
I participii in us de' verbi neutri ec.
sono comprovati da quelli di forma e senso corrispondente, che hanno i medesimi verbi in italiano francese spagnuolo.
Ci paiono poetichissime, ed amiamo a ripetere, moltissime frasi scritturali, che non sappiamo che significhino, anzi che rapporto abbiano quelle voci tra loro, (come l'abominazione della desolazione, ec.
ec.): e ciò per quel vago, e perchè appunto non sappiamo precisare a noi stessi, e non intendiamo se non confusissimamente e in generalissimo, che cosa si voglian dire.
(19.
Aprile.
Pasqua.)
[4491]Amitié, amistà, amistad - amicitas, nell'ignoto latino.
V.
Forc.
Gloss.
ec.
Così nimistà ec.
Altra circostanza che muta alternamente il carattere, è il passare da città grande a piccola, da città forestiera alla patria, e viceversa.
In quelle il carattere è più franco, aperto, benevolo; in queste al contrario, per la collisione degl'interessi, invidie de' conoscenti, amor proprio continuamente punto ec.
Esperienza mia propria ec.
Quindi, come per tante altre cagioni (v.
il mio Discorso sui costumi presenti degl'Italiani) più dabbene generalmente i privati nelle città grandi che ne' luoghi piccoli ec.
ec.
Pensiero da molto stendersi e spiegarsi.
(19.
Apr.
Pasqua.
1829.).
V.
p.4520.
Alla p.4462.
Neanche per rapporto allo stato sociale sarebbe possibile di credere che tutte le qualità degli uomini sieno destinate dalla natura a svilupparsi.
Lascio le cattive (come noi diciamo) e visibilmente dannose alia società (che sono infinite): neppur le buone ed utili.
Vedi circa i talenti, Rousseau, Pensées, part.
I.
p.197.
fin.
ep.
198.
Amsterd.
1786.
(19.
Apr.
1829.)
Continuo - continovo, coi derivati e gli altri simili.
Manuale - manovale, Mantua - Mantova.
Altro ostacolo alla durata della fama de' grandi scrittori, sono gl'imitatori, che sembrano favorirla.
A forza di sentire le imitazioni, sparisce il concetto, o certo il senso, dell'originalità del modello.
Il Petrarca, tanto imitato, di cui non v'è frase che non si sia mille volte sentita, a leggerlo, pare egli stesso un imitatore: que' suoi tanti pensierini pieni di grazia o d'affetto, quelle tante espressioni racchiudenti un pensiero o un sentimento, bellissime ec.
che furono suoi propri e nuovi, ora paiono trivialissimi, perchè sono in fatti comunissimi.
Interviene agl'inventori in letteratura e in cose d'immaginazione, come agl'inventori in iscienze e in [4492]filosofia: i loro trovati divengono volgari tanto più facilmente e presto, quanto hanno più merito.
(20.
Apr.
1829.)
L'on n'est heureux qu'avant d'être heureux.
Rousseau, Pensées, I.
204.
Cioè per la speranza.
La seule raison n'est point active; elle retient quelquefois, rarement elle excite, et jamais elle n'a rien fait de grand.
Ib.
207.
Famulus ec.
- familia ec.
Follico as.
Foetus a um, evidente participio senza verbo noto.
V.
Forc.
Da foetus foeto as, evidente continuativo del verbo originale.
Effoetus ec.
Fabula, fabulor ec.
- favella, favellare: diminutivi ec.
Prezzolare.
Il nostro antico fante per parlante, e di qui per uomo, co' suoi diminutivi, come fanciullo (cioè uomicciuolo) che ancor s'usa, senza conoscerne la forza e l'etimologia, fantoccio ec.
ec.
non è egli evidentemente l'antico, e negli scritti perduto o disusato, fans, da for; di cui anche in-fans fa fede, e quasi nello stesso senso? Vedi Forcell.
Gloss.
ec.
e Foscolo sopra l'Odissea di Pindemonte (21.
Apr.).
I marchegiani (gran conservatori del latino) ancor oggi: un lesto fante ec.
in parlar burlesco.
Tympanus - timballo, diminut.
V.
franc., spagn.
La ricordanza del passato, di uno stato, di un metodo di vita, di un soggiorno qualunque, anche noiosissimo, abbandonato, è dolorosa, quando esso è considerato come passato, finito, che non è, non sarà più, fait.
Così o detto altrove del licenziarsi da persone anco indifferenti ec.
(21.
Apr.
1829.)
Specio-speculor.
Alla p.4488.
Ancora: che ardisco io formar de' pensieri nobili, che da tutti son tenuto per uom da nulla.
Il primo fondamento di qualunque o immaginazione o sentimento nobile, grande, sublime (e tali sono i poetici e sentimentali [4493]di qualunque natura: anche i dolci, teneri, patetici ec.: tutti inalzano l'anima), è il concetto di una propria nobiltà e dignità.
Anzi la facoltà e l'efficacia di esse immaginazione e sentimento, sì abitualmente e sì attualmente sono in proporzione sempre del detto concetto, sì abituale, e sì attuale.
Ogni sentimento o pensiero poetico qualunque è, in qualche modo, sublime.
Poetico non sublime non si dà.
Il bello, e il sentimento morale di esso, è sempre sublime.
Ora il concetto di una propria nobiltà, sembra ridicolo, è respinto con dolore, come una illusione perduta, quando uno si trova disprezzato, abitualmente o attualmente, da quei che lo circondano.
Però in questi casi, il provar quella quasi tentazione a sentire ec., è penoso, perchè vi rinnuova il pensiero della vostra abiezione.
Certo, egli è proprietà ed effetto essenziale d'ogni immaginazione e sentimento di natura poetica, l'inalzar l'anima: al che si oppone direttamente quello stato di spregio ec., quel concetto, quel sentimento di se stessa, che la deprime.
(22.
Aprile.
1829, Recanati.).
V.
p.4499.4515.
Indulgenza nelle città grandi verso le persone mediocri in qualunque genere, e verso i difetti e ridicoli (pur d'ogni genere) di queste e delle insigni (difetti che si perdonano in grazia de' pregi, ed anche della semplice compagnia che quelle persone fanno) maggiore assai che ne' luoghi piccoli; appunto al contrario di ciò che in questi si crede.
ec.
ec.
(23.
Aprile)
Affumare, affummare - affumicare.
Arsiccio, arsicciare, abbruciacchiare ec.
Pallare-palleggiare.
Che pallare per quassare, venga da ?(????
Pigna, dialetto marchegiano - pignatta, pignatto, pignattino ec.
V.
la p.4498.
Il diminut.
pignatta dimostra il suo positivo pigna.
Homme ec.
distingué.
Arrondi per rond.
Agli uomini paghi in buona fede e pieni di se, gli altri uomini sono quasi tutti amabili; li veggono volentieri, ed amano la lor compagnia.
Perocchè si credono stimati, ammirati, ?????????(???? generalmente dagli altri; chè senza [4494]ciò non sarebbero nè pieni nè paghi di se.
Ora è naturale che chi è creduto ammiratore, sia amabile agli occhi di chi si crede ammirato.
Perciò questi tali (che parrebbe dovessero essere sommi egoisti) bene spesso sono benevoli, compagnevoli, servizievoli molto, buoni amici.
Talvolta anche modesti, per la piena e tranquilla certezza (la certa e riposata credenza) che hanno del loro merito (o di loro vantaggi qualunque, come nobiltà, ricchezza, potenza e simili.) (Rosini).
(26.
Aprile.)
Coraggio propriamente detto non si dà in natura, è una qualità immaginaria e di speculazione.
Chi nel pericolo non teme, non pensa al pericolo, o abituato a non riflettere, o avvezzo a quei tali casi, o distratto da faccende o da altri pensieri in quel punto.
Chi pensa al pericolo, teme; eccetto se la morte, o quel qualunque danno imminente, nell'opinion sua non è male.
In tal caso, quel pericolo non è pericolo a' suoi occhi.
Ma creder male una cosa, conoscersi in pericolo d'incorrervi, aver presente al pensiero il pericolo, e non temere; questo è il vero coraggio; e questo è impossibile alla natura.
I così detti coraggiosi, rimangono maravigliati quando ne' pericoli veggono altri che temono; e dimandano perchè.
Essi non si erano accorti del rischio, o vi avevano fatto piccolissima attenzione.
V.
un tratto di Carlo 12 re di Svezia, assediato in Stralsund, ap.
Voltaire, liv.8.
ed.
Londr.
1735.
t.2.
p.160-1.
(26.
Aprile.
1829.)
[4495]?????(?????(?????(????????????(?? ec.
Noi non abbiamo che invidiare invidiabile ec.
(e così i francesi porter envie, digne d'envie, ec.), voci assai dure e incivili.
Più umana, o per dir meglio, più civile in ciò, come in tante altre cose, anche la lingua dei Greci.
(26.
Apr.).
Féliciter franc.
si accosta talvolta a ?????(????, per metafora, specialmente nel senso reciproco.
Ventare, sventare - ventolare, sventolare, ventilare (lat.
ventilo), venteggiare.
Pargoleggiare ec.
Vanare - vaneggiare.
Per esser vano v.
vaneggiare anche nel Petr.
Tr.
del Tempo: E vedrai 'l vaneggiar di questi illustri.
(26.
Apr.)
Tinea (noi tigna), teigne, intignare ec.
- tignuola.
V.
Forcell.
Gringotter.
Parlottare.
Cantacchiare.
Vezzeggiare.
Bamboleggiare.
Boursiller.
Acutus da acuo, participio aggettivato, e non più riconosciuto per participio.
Argutus, cioè qui arguit.; e participio aggettivato.
Desolato per solo (uomo o luogo).
V.
Crus., Forcell.
Parvulus, parvolo.
pargolo.
Pluvia, piova - pioggia.
Pargolo è diminutivo.
Pur è già antiquato, e nella prosa non si usa più che il sopraddiminutivo pargoletto.
Tanta è la tendenza del popolo a diminuire.
Così in Toscana oggi non odi più piccolo, ma piccino.
(27.
Apr.).
In lat.
pusillus per l'antiquato pusus.
Pina - pinocchio.
V.
Crus.
Innamoracchiare, innamorazzare, amoreggiare.
Gravato per grave.
Petr.
L'aere gravato e l'importuna nebbia.
Ci piace e par bella una pittura di paese, perchè ci richiama una veduta reale; un paese reale, perchè ci par da dipingerci, perchè ci richiama le pitture.
Il simile di tutte le imitazioni (pensiero notabile).
Così sempre nel presente ci piace e par bello solamente il lontano, e tutti i piaceri che chiamerò poetici, consistono in percezion di somiglianze e di rapporti, e in rimembranze.
(Recanati.
27.
Aprile.
1829.)
Life.
to live.
E simili innumerabili.
[4496]Folâtre, folâtrer.
Folleggiare, pazzeggiare ec.
V.
Crus.
Dives, divitis, divititae ec.
- dis, ditis, Dis Ditis, ditare ec.
Recupero - recipero.
V.
Forc.
Recisamentum par che indichi un recisare.
V.
Gloss.
Trouble, troubler (turbula, turbulare).
Fustigo, remigo, navigo, laevigo, fatigo, litigo.
Remotus, secretus, occultus, riposto ec.
participii aggettivati.
Covaccio - covacciolo (accovacciare ec.).
E simili altri in accio-acciolo, acciare - acciolare.
Così in acchio acchiolo ec.
Vedi la p.4473.
capoverso 9, coi pensieri annessi, anteriori o posteriori al presente.
Notisi che la desinenza in ulus a um, ulare ec.
già era compresa nella forma in accio, acchio, aglio ec.
(come qui in covaccio, che è un cubaculum) acciare ec.; sicchè nella forma in acciolo, acchiolo, acciolare ec.
viene ad essere ripetuta.
Alla p.4486.
Anche la forma in as asse (crevasse crevasser ec.)289 asser (frigo, fricasser)290 ace acer spesse volte, non è altro che la latina in acul..., la nostra in accio acciare, azzo azzare ec.
Così la spagnuola in azo aza azar.
Minae, minor, minaccia, minacciare, menace ec., amenaza ec.
Così fors'anco in êche, eche, ec.
ec.
esse, isse, ec.
oisse, ousse ec.
isser ec.; e in ezo, izo (granizo) ec.
izar ec.
acho, echo ec.
achar ec.
Così talvolta la nostra in asso, assare, esso ec.
Similmente le nostre in olo, olare, olo (gragnòla) ec.
uolo uolare, icciuolo, o a-ucciuolo (filiolus, figliuolo) ec.
tutte dal latino ul..., o talvolta ol...
V.
p.4498.
- Così la francese analoga in eul, euil ec.
ec.
(linceul).
Tutte queste forme vengono, dico, dall'unica latina, o che questa abbia forza diminut.
ec., o che sia semplice desinenza, del che vedi la pag.4442-4.
- V.
ancora il pensiero qui precedente.
(30.
Apr.).
Anche sovente la spagnuola allo allar - ullo ullar; e forse la francese al [4497] alle, aller - uller.
Così forse spesso anche la nostra in allo (timballo per timpano) allare - ullo ullare (culla da cunula, cullare, colla, collare, da chordula, fanciullo (v.
la p.4492.
capoverso 7.), maciulla, maciullare).
Notandum però che anco i latini hanno la forma diminutiva ec.
in ill..., ell...
oll...
(corolla, v.
p.4505.), ull..., fors'anche all..., sì in verbi sì in nomi.
- Mirabil cosa in quante maniere diverse si è corrotta la pronunzia latina, anche dentro una stessa nazione; cosa notabile assai nella scienza delle etimologie.
E da ciò in gran parte deriva la tanta superiorità dell'italiano sul latino in abbondanza e varietà di forme frequentative, diminutive ec., superiorità notata da me altrove, parlando de' frequentativi latini.
- Vedi anche la p.4490.
capoverso 5.
(1.
Mag.).
V.
p.4500.
Piovegginare.
Piovigginare.
Gergo - jargon.
Frego - fregacciolo, sfregacciolo, fregacciolare.
Impiastrare - impiastricciare.
Ram-mentare - di-menticare, s-menticare ec.
Masticare: da un mansitum - mastum (pinsitus - pistus) di mandere, come da mixtum misticare.
Dello stesso secolo è mancare di poesia, e volere nella poesia sopra ogni cosa l'utile, il linguaggio del popolo; bandirne l'eleganza; privarla della maggior parte del bello, ch'è la sua essenza; o, contro la propria natura di essa, subordinare il bello (e quindi il sublime, il grande ec.
V.
la p.4492.
fin.
e sq.) al vero, o al così detto vero.
È naturale e conseguente che un secolo impoetico voglia una poesia non poetica, o men poetica ch'ei può; anzi una poesia non poesia.
(2.
Mag.)
Alla p.4273.
Così gli stranieri, dopo avere snaturata la loro scrittura per voler esprimer con essa piuttosto la pronunzia latina che la volgare, abituati poi a questo snaturamento, anzi dimenticatolo, e pigliando [4498]per naturale e per logico il loro modo di scrivere, vengono a snaturare la pronunzia latina, facendo dal latino scritto al pronunziato quella differenza che sono usati e necessitati a fare dalla pronunzia alla scrittura de' loro volgari.
(2.
Mag.
1829.
Recanati.).
È naturale e conseguente, che chi scrive male la propria lingua, legga male le altre.
Massime quelle che non gli sono note se non per iscrittura.
(2.
Mag.)
Alla p.4496.
Come parvolus per parvulus: e regolarmente dopo vocale, come lacteolus, flammeolus, bracteola, lanceola, Tulliola, filiolus ec., e così ne' verbi.
- Fors'anche la nostra forma in atto attare (attolo attolare), probabilmente da acchio ec.
piuttosto che da asso.
E quindi anche la diminuzione ec.
in etto ettare, otto, utto ec.
ec.
E quindi anco la francese in et ette etter eter, ot ote (barbote) otte otter oter ec.
(becqueter, piquer - picoter.): e la spagnuola in ito ecito ec.
oto ec.
Certo poi la spagnuola in ico ecico ec.
ec.
(3.
Maggio.
1829.)
Che libertar sia un liberatare o liberitare (meritare - mertare), è provato anche da libertus, participio aggettivato, mera contrazione di liberatus.
L'assenza di ogni special sentimento di male e di bene, ch'è lo stato più ordinario della vita, non è nè indifferente, nè bene, nè piacere, ma dolore e male.
Ciò solo, quando d'altronde i mali non fossero più che i beni, nè maggiori di essi, basterebbe a piegare incomparabilmente la bilancia della vita e della sorte umana dal lato della infelicità.
Quando l'uomo non ha sentimento di alcun bene o male particolare, sente in generale l'infelicità nativa dell'uomo, e questo è quel sentimento che si chiama noia.
(4.
Maggio.
1829.)
[4499]Al detto altrove delle bestie e de' pazzi, che metton fuori tutte le loro forze per ottenere i loro fini, a differenza degli uomini, aggiungi i fanciulli, i quali perciò alle volte vincono di vera e viva forza gli uomini fatti ec.
(4.
Maggio.
1829.
Recanati.)
Alla p.4493.
Nessuna dolce e nobile ed alta e forte illusione può stare senza la grande illusione dell'amor proprio, l'illusione della stima di se stesso e della speranza.
Togliete via questa, tutte le altre verranno meno immantinente, e potrete conoscere allora che questa era il fondamento e la nutrice, per non dir la radice e la madre di tutte l'altre.
- Supponete uno nella più profonda estasi di sentimento o di entusiasmo: fategli un motto, un gesto solo di spregio, o ch'egli interpreti come tale; o ponete che qualche cosa gli richiami alla mente alcun dispregio sofferto altra volta: tutte le illusioni di quel punto spariscono come un lampo, l'entusiasmo si spegne, la persona resta di ghiaccio.
(5.
Mag.
1829.)
Scheda.
schedola.
V.
Crus.
Forcell.
Viola, lat.
ital.
ec.
- violette, franc.
Vos - os, spagn.
Pluvia - pluie.
Esca - vescor, vescus ec.
Vedi Forcell.
Homme outré, soumis.
Sommesso.
Rimesso.
Rassegnato ec.
Talus - talon, tallone.
Cipolla, cebolla, forse da cepucula o cepulla (v.
la p.4497.
princip.), diminutivo come tanti altri nomi d'erbe, piante, animali ec.
del che altrove.
Anche in francese ha forma diminutiva oignon: anche ciboule, ciboulette, cive (cepe), civette.
V.
Forcell.
ec.
Ceniza spagn.,291 cinigia (v.
Alberti),292 e noi marchigiani ciniscia, o ceniscia: forse da ciniscula o cinisculus, come pulvisculus.
(6.
Maggio.).
V.
Forc.
ec.
[4500]Alla p.4497.
Fors'anche talvolta le nostre forme in a-u-gio, ggio, cio-are.
Corrottamente scio ec.
Forse talvolta dal lat.
ascul....
- uscul...
Cinigia.
V.
la p.
qui dietro, fin.
V.
p.4504.
Si la tristesse attendrit l'ame, une profonde affliction l'endurcit.
Rousseau, pensées, II.
205.
Le pays des chimeres est en ce monde le seul digne d'être habité, et tel est le néant des choses humaines, que hors l'être existant par lui-même, il n'y a rien de beau que ce qui n'est pas.
ib.
206-7.
La stupenda conformità radicale tra i nomi della più parte de' 10 primi numeri nelle lingue le più disparate, sembra provare unità d'invenzione e d'origine de' nomi numerali, e conseguentemente della numerazione.
(7.
Maggio.)
La formazione incoativa de' verbi, sì bella, e di tanto uso in latino, manca essa pure alla lingua greca.
(7.
Mag.)
Aisé, agiato, agiatamente ec.
per agevole, agibilis.
Falcato, quadrato, carré, quadratus ec., e simili altri participii aggettivati o aggettivi di forma participale, senza verbo; come saranno forse altri dei notati da me in tal proposito esprimenti figura.
Uomo ec.
ordinato.
(7.
Mag.).
Prolongé.
Bacherozzo-bacherozzolo.
E simili infiniti in azzo-uzzo.
Les anciens politiques parloient sans cesse de moeurs et de vertus; les nôtres ne parlent que de commerce et d'argent.
Rousseau, pensées, II.230.
Plus le corps est foible, plus il commande; plus il est fort, plus il obéit.
Rousseau, ib.
223.
Il n'y a point de vrai progrès de raison dans l'éspece humaine, parce que tout ce qu'on gagne d'un côté, on le perd de l'autre; que tous les esprits partent toujours du même point, et que le temps qu'on [4501]emploie à savoir ce que d'autres ont pensé, étant perdu pour apprendre à penser soi même, on a plus de lumieres acquises, et moins de vigueur d'esprit.
Nos esprits sont comme nos bras exercés à tout faire avec des outils, et rien par eux-mêmes.
ib.
221.
V.
p.4507.
Machiavellismo di società.
La véritable politesse consiste à marquer de la bienveillance aux hommes.
(ib.222.) Ma con questa non fate che evitare di procurarvi la malvolenza loro.
Per affezionarveli bisogna la falsa e finta politezza, che consiste in mostrare a tutti della stima.
Un uso ordinario e mediocre di questa politezza vi fa gli altri benevoli, un uso eccellente e più che ordinario ve li fa amanti.
Gli uomini si curano assai meno di essere benvoluti che stimati, ed hanno più gratitudine e più amore a chi gli stima, che, non solamente a chi gli ama, ma a chi li benefica.
On peut résister à tout hors à la bienveillance, et il n'y a pas de moyen plus sûr d'acquérir l'affection des autres que de leur donner la sienne.
(ib.
224.) Questo detto è molto più vero, applicato alle dimostrazioni di stima.
La benevolenza, l'affetto, l'amore stesso, non che sieno sempre corrisposti, spessissimo generano noia, nausea, avversione verso l'amante.
Gli esempi ne sono frequentissimi, non solo tra' due sessi, ma tra padri e figliuoli, e tra altri parenti, massime di età e di generazioni diverse: tra' quali non è raro trovare amore da una parte, vero odio costante, invincibile, dall'altra.
Ma non è possibile conservare avversione nè indifferenza, resistere, non riconciliarsi, non voler bene a chi mostra di stimarci; massime se costui (cosa facilisima) ce lo persuade.
(8.
Maggio.)
[4502]Alla p.4478.
marg.
Pour ne rien donner à l'opinion il ne faut rien donner à l'autorité, et la plupart de nos erreurs nous viennent bien moins de nous que des autres.
ib.
228.
Machiavellismo sociale.
Tout est plein de ces poltrons adroits qui cherchent, comme un dit, à tâter leur homme; c'est-à-dire à découvrir quelq'un qui suit encore plus poltron qu'eux et aux dépens duquel il puissent se faire valoir.
ib.
227.
(Condulmari.
Galamini.) Oggi, e in Italia, che tutti sono poltroni, qui consiste tutta la società, e la vita sociale, e il mio Machiavellismo.
(8.
Mag.)
Je n'ai jamais vu d'homme ayant de la fierté dans l'ame en montrer dans son maintien.
Cette affectation est bien plus propre aux ames viles et vaines.
ib.
232.
Manuale di filosofia pratica.
Par-tout où l'un substitue l'utile à l'agréable, l'agréable y gagne presque toujours.
ib.
231.
Serva a que' miei pensieri ove dico che le occupazioni ec.
il cui fine è il solo piacere, non danno mai piacere ec.
(9.
Mag.)
Alla p.4418.
L'existence des êtres finis est si pauvre et si bornée, que quand nous ne voyons que ce qui est, nous ne sommes jamais émus.
Ce sont les chimeres qui ornent les objets réels, et si l'imagination n'ajoute un charme à ce qui nous frappe, le stérile plaisir qu'on y prend se borne à l'organe, et laisse toujours le coeur froid.
ib.
242
Guardare per aspettare ec.
del che altrove.
Aguato, agguato, aguatare, agguatare ec.
per insidiare, vagliono propriamente aspettare al passo, e in proprio senso equivalgono all'aguardar spagnuolo.
Navita - nauta; navis - naufragium ec.; e simili.
[4503]Forma diminutiva italiana in astro.
Pollastro, vincastro ec.
Disprezzativa.
Giovinastro, medicastro, poetastro.
ec.
Fors'anche frequentativa, e in astrare.
Così in francese: folâtre, folâtrer ec.
(9.
Maggio.).
Verdastro, verdâtre per verdigno; e simili.
Padrastro ec.
Torreo-tostum-tostar, spagn.
Elixus, assus, forse participii; e quindi assare, elixare, forse continuativi.
Livio VII.
10.
linguam exserere, laddove l'antico annalista Quadrigario, ap.
Gell.
IX.
13., al quale allude lo stesso Livio, linguam exsertare: benissimo Quadrigario: e non è frequentativo, ma continuativo, perchè, come ho detto altrove, il frequentativo indica il soler fare (a non certi intervalli e tempi) una cosa, e il non farla continuamente di séguito e ripetutamente in un dato e piccolo spazio di tempo.
Così considerati, anche i verbi in ico, e gli altri che si chiamano frequentativi, oltre quelli in ito, si vedranno essere più propriamente continuativi.
(10.
Maggio.
1829.)
Dal detto altrove sulla poesia di stile, quanta immaginazione richieda ec., apparisce che i veramente poeti di stile, sarebbero stati poeti d'invenzione, o per meglio dire, d'invenzion di cose, in altri tempi; e ch'essi sono i veri poeti de' loro secoli.
ec.
(10.
Mag.)
Per molto che uno abbia letto, è ben difficile che al concepire un pensiero, lo creda suo, essendo d'altri; lo attribuisca all'intelletto, all'immaginazione propria, non appartenendo che alla memoria.
Tali concezioni sono accompagnate da certa sensazione che distingue le originali dalle altre; e quel pensiero che porta seco la sensazione, per così dire, dell'originalità, verisimilissimamente non sarà stato mai concepito ugualmente da alcun altro, e sarà proprio e nuovo; dico, non quanto alla sostanza, ma quanto alla forma, che è tutto quel che si può pretendere.
Giacchè è noto che la novità della più parte de' pensieri [4504]degli autori più originali e pensatori, consiste nella forma.
(10.
Mag.)
Similis - simulare, ec.
ec.
Carduus, cardo ital.
- chardon franc., cardone ec.
Juillet.
Debolezza amabile al più forte (come la forza al debole, il maschio alla femmina).
Su ciò è fondata in gran parte la tenerezza naturale de' genitori verso i figliuoli, la quale negli animali finisce affatto colla debolezza di questi.
Anche l'amabilità de' fanciulli agli uomini, delle femine ai maschi, degli animaletti piccini e teneri, (uccelli ec.), di tutto ciò (anche piante ec.) dove il senso o l'immaginazione percepisce un'idea di tenerezza, debolezza, inferiorità di forze ec.
Anche la malattia, il pallore; e poi l'infelicità ec.
ec.
e tutto quel ch'è oggetto di compassione, si può ridurre a questo capo.
La compassione è fonte d'amore ec.
ec.
V.
p.4519.
fine.
(11.
Mag.)
Nel secolo passato le scienze si collegarono alle lettere; il secolo ebbe una letteratura filosofica (vera letteratura, e veramente propria di esso): nel nostro le hanno ingoiate; letteratura del secolo 19°, a parlar propriamente, non v'è.
Non è l'Italia sola che patisca oggi questo difetto di letteratura contemporanea; esso è comune a tutte le nazioni colte.
Solo la Grecia, ed altri tali paesi ancor mezzo civili, avranno forse una letteratura del secolo 19°: se l'influenza inevitabile delle nazioni convicine non uccide le lettere ancor presso quelli, e prima che si maturino.
(11.
Mag.)
Alla p.4500.
Calderugio per calderino, diminutivo di carduelis (chardonneret), del che altrove.
- Raperugiolo - raperino.
Fors'anco in cco-are.
Piluccare, éplucher.
Badalucco.
Balocco.
E simili disprezzativi o frequentativi - E in onzo-are, dal lat.
unculus-are (avunculus, homunculus, latrunculus).
V.
p.4513.
Mediconzo-lo (quasi medicunculus), ballonzare, (ballonzìo, volg.
tosc.) ec.
E similmente in oncio-are.
Baroncio ec.
E in agno-ugno are, dal lat.
nulus, o ngulus, o unculus, o simili.
Verdognolo, (viridunculus), verdigno, rossigno, vecchigno ec.
V.
Crus.
Ugna - ungula.
E così in ñ...
spagnuolo [4505].
E così le forme francesi e spagnuole analoghe a ciascuna di queste italiane.
- Senza poi contare le desinenze in cui l'ul...
lat.
si trasforma nei volgari, e che in questi non hanno nessun valore diminutivo disprezzativo ec.
ec.
Come (oltre alcune forse delle sunnotate) la nostra in io, iare (unghia, nebbia, bacchio ec.
ec.), e in lo, lare (isola, manipolo, accumulare, tumulo ec.
ec.) la francese in ...
le ...ler (combler, comble, accumuler, île, disciple, ridicule, oncle, ongle, fable ec.); la spagn.
in lo, lar (habla, hablar, isla ec.
ec.).
Dico l'ul...
lat., o che questo sia diminutivo o no, o che il diminutivo latino sia noto o no; come piaggia, spiaggia, dall'ignoto plagula per plaga, trembler da un tremulare ec.
Del resto, tutte queste desinenze sono notabili per l'osservazione etimologica fatta a p.4497.
lin.5.
7.
(11.
Mag.).
V.
p.
seg.
Ala, mala, velum, palus - axilla, maxilla, vexillum, paxillus.
Di questi forse diminutivi positivati, e loro simili, v.
Forcell.
in dette voci, e in X littera.
Similmente paucus - paulus, o paullus-pauxillus.
Alla p.4497.
Contrazione di coronula, come patena - patella, catena - catella, catinum, catinus - catillum, catillus; e come appunto il nostro culla per cunula.
Anche paullus o paulus a um, per pauculus-pauclus, se non è contrazione di pauxillus.
V.
il pensiero precedente.
Audeo ausum - osare, oser ec.
Pulso as, detto di porte, strumenti ec., è ancora continuativo, al modo spiegato p.4503.
capoverso 2: pello sarebbe affatto improprio.
La facoltà di sentire è ugualmente e indifferentemente disposta a sentir piaceri e dolori.
Or le cose che producono le sensazioni del dolore, sono incomparabilmente più che quelle del piacere.
Dunque la facoltà di sentire è un male, per lo stato esistente delle cose, quando pur nol fosse per se.
E quanto essa è [4506]maggiore, nella specie o nell'individuo, tanto quella o quello è più infelice: e viceversa.
Dunque l'uomo è l'ultimo nella scala degli esseri, se i gradi si calcolano dall'infelicità ec.
ec.
Becqueter.
Picoter.
Pulta, lat.
polta, ital.
- poltiglia.
V.
Forc.
ec.
Pungere - punzecchiare, marcheg.
puncicare.
Sputacchio, sputacchiare.
Alla p.4505.
Fors'anco in co-are, e que quer franc.
(claquer ec.).
Anche in ico icare, se lungo (perchè nelle nostre pronunzia l'icul...
lat.
è lungo nell'i); massime contratto in icl...
ec., come sarebbe in questi casi se breve, è dal lat.
ico as ec.
V.
p.4509.
Parole greche possono esser venute in italiano ne' bassi tempi, pel commercio e le conquiste de' Veneziani, le Crociate, i Greci del Regno di Napoli e di Sicilia, e simili altri mezzi (esse sono, del resto, anteriori molto alla presa di Costantinopoli); ma non già le frasi, i costrutti, gl'idiotismi, vere proprietà di lingua, comuni all'italiano e al greco, da me spesso notate.
(13.
Mag.)
Una cosa, fra l'altre, che rende impossibile agli stranieri il gustar la poesia delle lingue sorelle alla loro propria, o affini (come sarebbe l'inglese alle nostre che vengono dal latino), si è che il linguaggio poetico di tali idiomi essendo, come il prosaico, composto di voci e modi che si ritrovano ancora nelle lingue sorelle, moltisime di tali voci e maniere che lo compongono, e che sono poetiche in quel tale idioma, cioè nobili, eleganti, pellegrine, e così discorrendo; nell'idioma dello straniero che legge, sono o basse, o familiari, o triviali, o prosaiche almeno, spesso ridicole e da beffe; hanno significati analoghi ma diversi; richiamano idee alienissime dalla poesia generalmente, o dal soggetto in particolare.
Ciò è soprattutto notabile fra italiani e spagnuoli (v.
la p.4422.).
(Un qualunque pezzo di poesia spagnuola potria servirmi di esempio chiarissimo).
Ed è applicabile anco alla prosa elevata, oratoria, storica e simili.
(13.
Mag.)
[4507]Alla p.4501.
Non solo della ragione, ma anche del sapere, della dottrina, della erudizione, delle cognizioni umane, si può dubitare se facciano progressi reali.
Pel moderno si dimentica e si abbandona l'antico.
Non voglio già dir l'archeologia, ma la storia civile e politica, la letteraria, la notizia degli uomini insigni, la bibliologia, la letteratura, le scoperte, le scienze stesse degli antichi.
Si apprende, si sa quel che sanno i moderni; quel che seppero gli antichi (che forse equivaleva), si trascura e s'ignora.
Nè voglio dir solo i greci o i latini, ma i nostri de' secoli precedenti, non escluso pure il 18°.
Guardate i più dotti ed eruditi moderni: eccetto alcuni pochi mostri di sapere (come qualche Tedesco) che conoscono egualmente l'antico e il moderno, la scienza degli altri enciclopedica, immensa, non si stende, per così dire, che nel presente: del passato hanno una notizia sì superficiale, che non può servire a nulla.
In vece di aumentare il nostro sapere, non facciamo che sostituire un sapere a un altro, anco in uno stesso genere (senza che poi uno studio prevale in una età a spese degli altri).
Ed è cosa naturalissima; il tempo manca: cresce lo scibile, lo spazio della vita non cresce, ed esso non ammette più che tanto di cognizioni.
Anche le scienze materiali non so quanto progrediscano, a ben considerare la cosa.
Bastando appena il tempo a conoscere le innumerabili osservazioni che si fanno da' contemporanei, quanto si può profittare di quelle d'un tempo addietro? I materiali non crescono, si cambiano.
E quante cose si scuoprono giornalmente, che i nostri antenati avevano già scoperte! non vi si pensava più.
Ripeto che non parlo solo degli antichissimi; anco de' recenti.
Un'occhiata a' Dizionarii biografici, agli scritti, alle osservazioni, alle scoperte, alle istituzioni di uomini ignoti o [4508]appena noti, e pur vissuti pochi lustri o poche diecine d'anni sono: si avrà il comento e la prova di queste mie considerazioni Gli uomini imparano ogni giorno, ma il genere umano dimentica, e non so se altrettanto.
(13.
Mag.)
Ciondoli, ciondolare ec., dondolare, cinguettare, linguettare, bredouiller, barbouiller, barboter, imbrodolare ec.
Trebbiare (tribulare.
V.
Forc.
Gloss.
ec.) - ??(????.
Un mio fratellino, quando la Mamma ricusava di fare a suo modo, diceva: ah, capito, capito; cattiva Mamà.
Gli uomini discorrono e giudicano degli altri nella stessa guisa, ma non esprimono il loro discorso così nettamente ((??(().
(14.
Mag.)
Quanto può l'autorità (come in ogni altra passione, p.e.
la tristezza, la speranza, il timore, così) nel piacere! Dico ne' piaceri realistici ec.
In galanteria: donne amate da qualcun altro, famose per bellezza, spirito ec., quantunque a voi d'altronde non piacerebbero.
In letteratura: se leggete un libro che il pubblico vi dica esser bello, classico ec., ci provate incomparabilmente maggior piacere, che se da voi stesso dovete avvedervi de' suoi pregi.
Il piacer dell'inaspettato, che si può provare in questo secondo caso, non ha nulla di comparabile a quello che nel primo caso ci deriva dall'autorità degli altri.
Nè trattasi qui di rimembranze, lontananza, antichità venerabile, voto di secoli ec.; anche un libro nuovo, uscito pur ora ec.
Il credito poi dell'autore, benchè vivente, quanto importa al piacere! È classico il detto di La Bruyere: è molto più facile il far passare un libro mediocre al favor di una riputazione già fatta, che acquistarsi una riputazione con un libro eccellente.
Ed io ardisco dire che piace veramente più a leggere un libro mediocre (nuovo o antico) d'autor famoso, che un libro eccellente di scrittore non rinomato.
(14.
Mag.)
[4509]Barbio, barbo (Alberti) - barbeau.
Tâtonner, ec., bourdonner.
Brontolare ec., ?????? ec.
- brontolare.
Alla p.4506.
Nutricare però è da nutrico.
Mendicare da mendico as ec.
Del resto, anche le forme in chio chiare, co care, cio-zo-are, precedute da consonante (mischiare, bufonchiare, ballonchio anche questi, e simili, dal lat.
uncul...
ec.
ec.).
E così dicasi delle altre sunnotate forme italiane, ed anche francesi e spagnuole, ed anche latine: non solamente precedendo vocale.
La forma in onzo, di cui sopra, è veramente in onzo (onzare ec.), e non solamente in onzolo (v.
la Crusca in Romitonzolo), ed è corrotta da quella in oncio, e però, come questa, racchiude tutta intera la forma lat.
in unculus.
(Vedi la pag.4496.
capoverso 8.
e la p.4443.) Rapulum (cioè piccola rapa, parvum rapum) - raperonzo, raperonzolo - raiponce.
V.
spagn.
ec.
Raponzolo o ramponzolo; volg.
marcheg.
e Fr.
Sacchetti nella Caccia.
- E la forma franc.
in ce cer, je jer, ye yer (côtoyer, guerroyer antico, ec.), in ie ier ec.
ge, ger (bagage-bagaglio), precedendo consonante o vocale.
Raiponce.
V.
qui sopra.
(15.
Maggio.).
Sucer (succiare), della 1a coniug., mentre sugo is è della 3a.
E in bro, brare, e simili, cangiata la l lat.
in r.
Sembrare da simulare o similare.
Assembrare (assembler) assimulare, da simul.
Così anche in ispagnuolo ec.
- E in a-u-io-iare.
(16.
Mag.).
V.
p.4511.
Odio verso i nostri simili.
È proprio ancora, ed essenziale a tutti gli animali.
Non si può tenerne due d'una stessa specie (se non sono di sesso diverso) in una medesima gabbia ec., che non si azzuffino continuamente insieme, e che il più forte non ammazzi l'altro, o non lo strazi.
Uccelli, grilli ec.
E v.
il detto altrove, degli animali che si specchiano.
(15.
Mag.)
Ballonzare ballonzolare (Alberti.).
Buffoneggiare.
Bucacchiare.
Bucherare.
Fo-sfo-racchiare.
Lampeggiare.
Torreggiare.
Criailler.
Rimailler.
Rioter.
Aguzzo - auzzo ec., sciaura, reina, reine franc.
ec.
magister-maestro ec.
Manco-mancino, diminut.
aggett.
Pisello.
Fagiuolo.
V.
lat.
franc.
spagn.
Asio, lat.
- assiuolo.
[4510]Quel che si dice degli stupendi ordini dell'universo, e come tutto è mirabilmente congegnato per conservarsi ec., è come quel che si dice che i semi non si depongono, gli animali non nascono, se non in luogo dove si trovi il nutrimento che lor conviene, in luogo che loro convenga per vivere.
Milioni di semi (animali o vegetabili) si posano, milioni di piante o d'animali nascono in luoghi dove non hanno di che nutrirsi, non posson vivere.
Ma questi periscono ignorati; gli altri, e non so se sieno i più, giungono a perfezione, sussistono, e vengono a cognizione nostra.
Sicchè quel che vi è di vero si è, che i soli animali ec.
che si conservino, si maturino, e che noi conosciamo, sono quelli che capitano in luoghi dove possan vivere ec.
Ovvero, che gli animali che non capitano, ec.
non vivono ec.
Questo è il vero, ma questo non vale la pena di esser detto.
Or così discorrete del sistema della natura, del mondo ec.
ap.
a poco secondo le idee di Stratone da Lampsaco.
(16.
Mag.)
Trève-tregua.
Continuato, continuatamente ec.
per continuo ec.
V.
franc.
spagn.
lat.
ec.
Homme, ne cherche plus l'auteur du mal; cet auteur c'est toi-même.
Il n'existe point d'autre mal que celui que tu fais ou que tu souffres, et l'un et l'autre te vient de toi.
Le mal général ne peut être que dans le désordre, et je vois dans le système du monde un ordre qui ne se dément point.
Le mal particulier n'est que dans le sentiment de l'être qui souffre; et ce sentiment, l'homme ne l'a pas reçu de la Nature, il se l'est donné.
La douleur a peu de prise sur quiconque, ayant peu réfléchi, n'a ni souvenir ni prévoyance.
Ôtez nos funestes progrès, ôtez nos [4511]erreurs et nos vices, ôtez l'ouvrage de l'homme, et tout est bien.
Rousseau, pensées, II.
200.
- Anzi appunto l'ordine che è nel mondo, e il veder che il male è nell'ordine, che esso ordine non potrebbe star senza il male, rende l'esistenza di questo inconcepibile.
Animali destinati per nutrimento d'altre specie.
Invidia ed odio ingenito de' viventi verso i loro simili: v.
la p.4509.
capoverso 4.
Altri mali anche più gravi ed essenziali da me notati altrove nel sistema della natura ec.
Noi concepiamo più facilmente de' mali accidentali, che regolari e ordinarii.
Se nel mondo vi fossero disordini, i mali sarebbero straordinarii, accidentali; noi diremmo: l'opera della natura è imperfetta, come son quelle dell'uomo; non diremmo: è cattiva.
L'autrice del mondo ci apparirebbe una ragione e una potenza limitata: niente maraviglia; poichè il mondo stesso (dal qual solo, che è l'effetto, noi argomentiamo l'esistenza della causa) è limitato in ogni senso.
Ma che epiteto dare a quella ragione e potenza che include il male nell'ordine, che fonda l'ordine nel male? Il disordine varrebbe assai meglio: esso è vario, mutabile; se oggi v'è del male, domani vi potrà esser del bene, esser tutto bene.
Ma che sperare quando il male è ordinario? dico, in un ordine ove il male è essenziale?
(17.
Mag.)
Amaricare, ital.
V.
Forc.
Amareggiare.
Armeggiare.
Pareggiare.
Corteggiare.
Cumbo is, conservato ne' suoi composti - cubo as, coi composti ec.
Posticipare.
Alla p.4509.
fin.
Alla forma in olo, olare ec.
aggiungi in giolo, ggiolo, ccolo, colo, e specialmente in ucolo (carrucola ec.).
Anche occo ec.
di cui sopra, è per lo più dal lat.
ucul...
(anitrocco, anitroccolo, bernoccolo, bernoccoluto ec.) siccome occhio (ranocchio, ginocchio ec.).
V.
p.4513.
In franc.
cle, cler, gle, gler ec.
E in ispagnuolo ec.
- Aggiungi pure in giuolo, ggiuolo, zuolo ec.
- La forma in ezzo [4512]ezzare può essere non solo da ecci..., ma da eggi...
Careggiare carezzare.
V.
Crus.
in amarezzare, marezzare ec.
E così l'altre in zo ec.
Libycus - libyculus - libeccio (Lebesche franc.); corticula - corteccia, scortecciare ec.; cangiato l'i lat.
in e al solito, e come in tante altre diminuzioni (orecchia, pecchia ec., oveja ec.
abeille ec.
ec.), frequentazioni ec., nominatamente quella in ecchi...
(e le corrispondenti franc.
e spagn.) sì abbondante.
Così, e secondo il detto a p.4500.
princ., la nostra forma frequentativa ec., sì usitata, in eggio eggiare sarebbe pur dalla forma latina.
- In tutte tali forme, se esse comprendono intera la forma latina, il lo lare, se vi si trova, è una giunta toscana.
- Del resto, per forme ed esempi ec.
v.
l'indice di questi pensieri in Frequentativi, Diminutivi ec.
(17.
Magg.)
In una lingua assai ricca, non solo è povera, o limitata, quella di ciascuno scrittore, come dico altrove, ma anche quella del popolo, e generalmente la parlata.
P.e.
l'italiano parlato, ancora in Toscana, non è punto più ricco del francese, nominatamente in fatto di sinonimi ec.
(18.
Mag.)
A rivederla: solito saluto de' Toscani, anche passando, senza punto fermarvi, o da lungi.
Assurdità di queste nostre adulazioni dette complimenti.
(18.
Maggio.)
Troppe cure assidue insistenti, troppe dimostrazioni di sollecitudine, di premura, di affetto, (come sogliono essere quelle di donne), noiosissime e odiose a chi n'è l'oggetto, anche venendo da persone amorosissime.
?(???(???????????(??????(??(???I???(?????(???(????.
- Galateo morale.
(18.
Mag.)
Pullus - pollone; rejet - rejeton; surgeon (surculus).
Poulet.
Poitrine.
Vagolare, svagolare (v.
Alberti).
Guerreggiare, gareggiare, serpeggiare, tratteggiare (v.
Alberti), pennelleggiare, parteggiare, costeggiare, pompeggiare, pavoneggiare, patteggiare, osteggiare, campeggiare, aspreggiare, mareggiare.
Recondito.
Uomo onorato, disonorato; azione disonorata ec.
Verbi in to da nomi femin.
in tas.
Nobilitas - nobilito.
Debilito, mobilito.
Morve - morveau.
Spia - espion, spione (la Crus.
lo crede accrescitivo: male: e [4513]così d'altri tali, ec.
ec.)
Misceo - mixtum - mestare, coi composti ec.
Aggiungasi al detto altrove di meschiare ec.
Canto as, nel Forc., potrà somministrare esempi di uso continuativo.
Il detto intorno ai verbali in bilis, dicasi ancora circa quelli in ivus (nativus ec.), e gli altri tali.
Alla p.4511.
marg.
- e in occio: figlioccio (filiuculus, non filiolus), moccio (muculus), bamboccio, femminoccia, fantoccio, santoccio, casoccia, ec.
- Filleul (filiolus, in altro senso.).
Certe idee, certe immagini di cose supremamente vaghe, fantastiche, chimeriche, impossibili, ci dilettano sommamente, o nella poesia o nel nostro proprio immaginare, perchè ci richiamano le rimembranze più remote, quelle della nostra fanciullezza, nella quale siffatte idee ed immagini e credenze ci erano familiari e ordinarie.
E i poeti che più hanno di tali concetti (supremamente poetici) ci sono più cari.
V.
p.4515.
Analizzate bene le vostre sensazioni ed immaginazioni più poetiche, quelle che più vi sublimano, vi traggono fuor di voi stesso e del mondo reale; troverete che esse, e il piacer che ne nasce, (almen dopo la fanciullezza), consistono totalmente o principalmente in rimembranza.
(21.
Mag.)
Alla p.4428.
Chi pratica poco cogli uomini, difficilmente è misantropo.
I veri misantropi non si trovano nella solitudine, si trovano nel mondo.
Lodan quella, sì bene; ma vivono in questo.
E se un che sia tale si ritira dal mondo, perde la misantropia nella solitudine.
(21.
Mag.)
Alla p.4504.
Furunculus, carbunculus (carbonchio, carbunco, carboncolo, carbuncolo, carbunculo: in una sola terminazione d'una sola voce, quanta varietà di pronunzie! escarboucle) ec.: per lo più da voci che abbiano la n, nel nominativo o nel genitivo, se sono nomi.
(21.
Mag.).
- Del [4514]resto, la contrazione di cul...
in cl..., deve estendersi a tutte l'altre desinenze in ul..., specialmente in gul...
ec.
Dico, quanto alla corruzione subìta da tali desinenze nelle forme volgari.
(22.
Maggio.
1829.
Recanati.).
- Vannozzo, Vannoccio.
Cerviatto, o cerbiatto.
- Le voci in cul..., specialmente precedendo consonante, sono contratte da icul..., come tuberculum da tubericulum, laterculus da latericulus, onde lo spagn.
ladrillo; mangiata la i come in tanti altri casi.
- Che la desinenza acul...
particolarmente, nel latino basso, o volgare ec., avesse forza disprezzativa, come accio acciare, as asse asser franc., azo azar spagn., rilevasi non solo dal consenso di queste 3 lingue figlie circa cotal forma e significato, ma anche dai nostri collettivi disprezzativi in aglia (marmaglia, plebaglia, canaglia, ciurmaglia, giovanaglia ec.), e così, mi pare, spagnuoli; e dalle voci francesi pur disprezzative in ail aille ailler (canaille, rimailler, rimailleur ec.).
Non a caso queste 2 forme in aglio ed accio (e lor corrispondenti), che d'altronde nei nostri idiomi considerati da se non hanno niente di comune, si abbattono ad essere ugualmente disprezzative: esse derivano da una stessa forma latina la loro origine grammaticale: è naturale che da questo principio comune derivino anche la loro significazione disprezzativa.
(23.
Mag.).
- Vittuaglia ec.
Foraggio-are, fourrage-er: v.
spagn.
Bitorzo (bitorcio, quasi bitorculus), bitorzolo ec.
Santocchieria.
Foeniculum - (foenuculum) - finocchio - fenouil.
- La desinenza in gn...
ñ ec.
è per lo più da neus ec.; p.e.
castanea-castagna.
- Aveugle, aveugler - aboculus.
Muraglia.
Pagliuca (Alberti).
Molliccio, molliccico.
v.
p.4515.
Minuto, participio aggettivato, coi derivati ec.
V.
lat.
franc.
spagn.
Soperchio soperchiare, superculus superculare: dello stesso genere che parecchio apparecchiare, pariculus appariculare, di cui altrove; dove la desinenza in cul...
è semplice desinenza e non diminuzione.
Puoi vedere la p.4443.
ec.
Ruina-rovina ec.
[4515]Alla p.4513.
Similmente molte immagini, letture ec.
ci fanno un'impressione ed un piacer sommo, non per se, ma perchè ci rinnuovano impressioni e piaceri fattici da quelle stesse o da analoghe immagini e letture in altri tempi, e massimamente nella fanciullezza o nella prima gioventù.
Questa cosa è frequentissima: ardisco dire che quasi tutte le impressioni poetiche che noi proviamo ora, sono di questo genere, benchè noi non ce ne accorgiamo, perchè non vi riflettiamo, e le prendiamo per impressioni primitive, dirette e non riflesse.
Quindi ancora è manifesto che una poesia ec.
dee parere ad un tale assai più bella che un'altra, indipendentemente dal merito intrinseco.
ec.
ec.
Zoppicare.
Medeor - medico as.
Alla p.4493.
Com'è notato, una gran parte del piacere che i sentimenti poetici ci danno e ci lasciano, consiste in ciò, ch'essi c'ingrandiscono il concetto, e ci lasciano più soddisfatti, di noi medesimi.
Appunto come i sentimenti, come le azioni, nobili, magnanime, pietose; come i sacrifizi ec.
(e come la conversazione di chi ha la vera arte di esser amabile).
E appunto come questi non cadono se non in chi sia felice, contento di se, in chi si stimi ec., così nè più nè meno i sentimenti poetici.
(24.
Mag.)
Alla p.4514.
Lucigno-lo.
- In uomicci-uolo, omici-atto, omici-attolo, e simili, la solita moltiplicazione della forma latina in ulus.
- Coraggio, per cuore (corazon, coraje, courage): v.
Crus., quasi coraculum.
Incorare-incoraggiare.
Visage, envisager, ombrage, ombrager, language, usage, ouvrage ec.
ec.
Questa forma in age ager, è tutta francese, provenzale ec.
Di là la nostra, sì abbondante anch'essa, in aggio, aggia, aggiare; e grandissima parte almeno delle voci che hanno questa desinenza (viaggio-are ec.
Piaggia non è, come dico altrove, [4516]da plagula, ma da plage; e così spiaggia.) Però in ispagnolo tali nomi finiscono per lo più in e (viaje, mensaje ec.
ec.).
- V.
ancora il pensiero seg.
- V.
p.4518.4521.
Alla p.4444.
Vedi nella p.4473.
capoverso penult.
e suoi annessi, l'immenso e svariatissimo uso fatto nel latino volgare o de' bassi tempi, di questa medesima forma in icul...
cul...
ul...
or con forza diminutiva frequentativa ec., or positivata, or come semplice desinenza.
(25.
Mag.).
V.
qui al fine della p.
uso manifesto per le quasi infinite forme che ne derivarono nei nostri volgari.
Dal che si vede che l'uso antichissimo di quella forma, non cessò mai, nè fu men frequente negli ultimi tempi del latino che nei primitivi.
Il detto altrove dell'incontrastabilmente maggior numero di suoni nelle lingue settentrionali che nelle nostre, causa, in parte della lor mala ortografia, per la scarsezza dell'alfabeto latino da loro adottato; è applicabile ai dialetti dell'Italia superiore, perciò difficilissimo ancora a bene scriversi.
Mezzofanti diceva che al bolognese bisognerebbe un alfabeto di 40 o 50 o più segni.
Non è questa la sola conformità che hanno que' dialetti colle lingue settentrionali.
Del resto, i dialetti generalmente sono più ricchi che l'alfabeto comune.
Il toscano parlato ha anch'esso un po' più suoni che le lettere, ma pochi più.
Il marchigiano e il romano quasi nessuno: esse sono veramente (in ciò come in mille altre cose) l'italiano comune e scritto, o il volgare più simile a questo, che sia possibile.
(25.
Mag.)
Gracchiare (da gra gra: v.
Forc.
in graculus), scorbacchiare, scornacchiare, spennacchiare.
Gorgheggiare.
Al capoverso 1.
Anche qui i toscani abbondano più che gli altri, e spesso dove questi usano il positivo (nome o verbo), essi il diminutivo [4517]o frequentativo ec., benchè senza differenza di senso.
Noi amiamo p.e.
spennare, i toscani spennacchiare ec.
ec.
(26.
Mag.)
La natura non ci ha solamente dato il desiderio della felicità, ma il bisogno; vero bisogno, come quel di cibarsi.
Perchè chi non possiede la felicità, è infelice, come chi non ha di che cibarsi, patisce di fame.
Or questo bisogno ella ci ha dato senza la possibilità di soddisfarlo, senza nemmeno aver posto la felicità nel mondo.
Gli animali non han più di noi, se non il patir meno; così i selvaggi: ma la felicità nessuno.
(27.
Mag.)
Bollito per bollente.
Patito.
Indigesto per non digeribile, e per che non ha digerito.
Umanità degli antichi ec.
Vecchi.
Cosa lacrimevole, infame, pur naturalissimo, il disprezzo de' vecchi, anche nella società più polita.
Un vecchio (oggi, in Italia, almeno) in una compagnia, è lo spasso, il soggetto de' motteggi di tutta la brigata.
Nè solo disprezzo: trascuranza, non assisterli, non prestar loro quegli uffizi, quegli aiuti, il cui commercio è il fine e la causa della società umana, de' quali i vecchi hanno tanto più necessità che gli altri.
I giovani sono serviti, i vecchi conviene che si servan da se.
In una medesima stanza, se ad una giovane cadrà di mano il fuso, il ventaglio, sarà pronto chi lo raccolga per lei; se ad una vecchia, a cui il levarsi in piedi, l'incurvarsi, sarà penoso veramente, la vecchia dovrà raccorselo essa.
E così ancora in casi di malattie ec.
ec.
Spesso i vecchi, anco in uguaglianza di condizione, hanno ad [4518]aiutare e servire i giovani.
E parlo d'aiuti e di servigi corporali.
Ci scandalizziamo di quei Barbari che si fanno servir dalle donne: ma il fatto nostro è lo stesso, se non peggiore.
E viene dallo stesso spietato e brutale, ma naturale principio, che il forte sia servito, il debole serva.
(27.
Mag.)
Alla p.4516.
La forma aiuolo e aiólo in legnaiuolo, erbaiuolo, vignaiuolo, stufaiuolo o stufaiolo, fruttaiuolo o fruttaiolo, calzaiuolo, pesciaiuolo, armaiuolo e simili, è altresì originariamente diminutiva da ariolus (lignariolus ec.).
Così in aruolo, arólo (che è di noi marchegiani), eruolo: pizzicaruolo, pizzicarolo, (Alberti), pizzicheruolo.
- Inguina - (inguinacula plural.).
anguinaglia, anguinaia.
V.
franc.
spagn.
Ventraia.
Tombereau.
Doucereux.
Fiocco - flocon.
Manuale di filosofia pratica.
Memorie della mia vita.
Come i piaceri non dilettano se non hanno un fine fuori di essi, secondo dico altrove, così neanche la vita, per piena che sia di piaceri, se non ha un fine in totale ec.
Bisogna proporre un fine alla propria vita per viver felice.
O gloria letteraria, o fortune, o dignità, una carriera in somma.
Io non ho potuto mai concepire che cosa possano godere, come possano viver quegli scioperati e spensierati che (anche maturi o vecchi) passano di godimento in godimento, di trastullo in trastullo, senza aversi mai posto uno scopo a cui mirare abitualmente, senza aver mai detto, fissato, tra se medesimi: a che mi servirà la mia vita? Non ho saputo immaginare che vita sia quella che costoro menano, che morte quella che aspettano.
Del resto, tali fini vaglion poco in se, ma molto vagliono i mezzi, le occupazioni, la speranza, l'immaginarseli come gran beni a forza di assuefazione, di pensare ad essi e di procurarli.
L'uomo può ed ha bisogno di fabbricarsi esso stesso de' beni in tal modo.
(31.
Mag.)
[4519]Sfilare - sfilacciare - sfilaccicare (v.
Crus.
in Spicciare): filaccica (plural.).
Anche i verbi lat.
in urio si formano da' supini.
Alla p.4449.
Per altro, la conformità di costumi, governo, religione, riti, lingua ec.
fra troiani e greci, che apparisce nelle poesie omeriche, nelle tradizioni ec.
(e che par favorire la congettura del Niebuhr, la quale ha però altri fondamenti), può essa ancora essere ingannevole, e non significare che la poca arte e istruzione di que' vecchi poeti, come dico altrove.
Simili a quei pittori o artefici de' tempi bassi, e ad alcuni anche de' buoni secoli, che rappresentavano personaggi antichi e stranieri vestiti all'uso moderno e nazionale.
Fra' moderni, il Pontedera (Julii Pontederae Antiquitatum lat.
graecarumque enarrationes atq.
emendatt.
praecipue ad veteris anni rationem attinentes; Patav.
1740.; praefat.
libro che mi pare non conosciuto dal Niebuhr), fondandosi parte in detta conformità, parte in altri argomenti, congetturò Trojanos Graecorum quondam fuisse coloniam.
(2.
Giugno.)
Pésolo, pesolone.
(pensulus per penzolo, pendulo ec.).
Sentito per sensibile, vivo; o per sensato.
V.
Crus.
Lego is - lego as, coi composti.
Spigolare, ruzzolare.
Mugolare, mugghiare.
Alla p.4430.
Di tal genere è anco una grandissima parte degli errori e sgrammaticature (sien d'uso generale o individuale) del parlar plebeo, rustico, de' dialetti ec.
Monofagia.
Convivium, ????(????, coena (se è vera l'etimologia da ????(), tutti nomi significativi di comunanza.
ec.
Alla p.4504.
marg.
Anche il nemico, l'offensore, ridotto all'inferiorità all'impotenza, è, non pur compassionevole, ma amabile, allo stesso offeso.
[4520]Par che la natura abbia dato alla debolezza l'amabilità come una sorta di difesa e d'aiuto.
(17.Giugno.)
Beatus, participio aggettivato.
Trambasciato, trangosciato ec.
Trasognato.
Moderato ec., smoderato, immoderato ec.
Invisus per odioso.
(???( ozio chiamavano gli antichi i luoghi, i tempi ec.
degli studi, e gli studi medesimi (onde ancora diciamo, senza intendere all'origine, scuola, e scolare per istudente, e gl'inglesi scholar per letterato, che dall'etimologia sonerebbe ozioso) che per gran parte di noi sono il solo o il maggior negozio.
(7.
Luglio.)
Succhio (succulus) per succo.
?(??, dius-divus.
Ieiunus 1.
participio contratto, a quanto pare, da ieiunatus (così fors'anche festinus); 2.
in senso di qui ieiunavit o ieiunat.
Delirus.
Mordeo, morsum - morsicare, (corrottamente mozzicare, smozzicare), morsecchiare.
Simus costantemente per sumus.
Augusto ap.
Sveton.
in Aug.
c.87.; Messala, Bruto ed Agrippa ap.
Mario Vittorino de Orthographia p.2456.
Manibiae per manubiae pur costantemente nelle iscrizioni Ancirane composte pur da Augusto.
Contibernali in un antico monumento ap.
Achille Stazio ad Sveton.
de Cl.
Rhetoribus.
Bubulcitare.
Alla p.4491.
In un luogo piccolo vi sono partiti, amicizia non v'è.
Vale a dire, che delle persone, per trovarsi ciò convenire ai loro interessi, saranno unite e collegate insieme per certo tempo (per lo più contro altre); ma non mai amiche.
Amicizia non può essere che in città grandi, o pur fra persone lontane.
(8.
Luglio.).
V.
p.4523.
[4521].
Alla p.4512.
La forma in accio acciare, azzo azzare, e le corrispondenti francesi e spagnuole (e così in eccio, iccio ec.), vengono veramente, almeno per lo più, dalla latina in aceus, iceus ec.
Gallinaceus, gallinaccio.
Che fosse proprio del volgare latino il dar questa desinenza ai positivi, nomi o verbi, e ciò senz'alterazione di significato, e che da ciò venga il tanto uso della forma in accio ec.
nelle lingue figlie, massime dove essa non altera la significazione (come in minae minacce, minari minacciare), può congetturarsi, fra l'altro, dal riferito da Svetonio (Aug.
c.87.) che Augusto soleva scrivere pulleiaceus in vece del positivo pullus.
Augusto nelle singolarità delle sue voci ed ortografia riferite da Svetonio (ib.
et c.88.), si accostava al dir volgare: il suo baceolus è il nostro baggeo.
Quest'osservazione dunque serva particolarmente pel Tratt.
del Volg.
lat.
- La forma in ezzare, onde (e non viceversa) eggiare, e le corrispondenti francesi e spagnuole, sono dalla greca frequentativa in (????, e dalla lat.
issare, che di là viene.
Il betissare di Augusto ap.
Sveton.
(87.), da noi si direbbe bietoleggiare.
Cambiato, al solito l'i in e.
(9.
Luglio.)
- Se però ezzare è per ecciare, allora apparterrà al detto qui sopra.
E viceversa se azzo, izzo ec.
è per aggio ec., allora non cadrà sotto il qui sopra detto.
(10.
Luglio.)
- Incumulare - encumbrar - ingomberare.
Molti avverbi e preposizioni delle lingue nostre sono fatte coll'aggiunta di un de affatto pleonastico alle corrispondenti latine.
De retro: diretro, dirietro, dreto, dietro (il volgo marchegiano appunto latinamente: de retro); e poi, [4522]raddoppiato ancora il di, di dietro; derrière, detras.
De ubi: dove.
De unde: donde.
De ante: delante, dianzi, dinanzi, davanti, devant.
De post: di poi, dopo, da poi, depuis, despues.
De mane: dimani ec.
demain.
(11.
Lugl.)
Così di sopra, di sotto, da presso, da lungi, da vicino, da o di lontano.
Quest'uso par fosse proprio del volgar latino 1° perchè comune a tutte 3 le lingue figlie, 2° perchè si trova già in parte nel latino scritto.
Desuper, desubito, derepente; dove il de ridonda: dehinc, deinde; dove il de (come in donde) è ripetuto; perchè già il semplice hinc vale de hic, inde è de in (dein).
Iuvi per iuvavi, ad-iutum ec.
per ad-iuvatum.
La prosa in verità, parlando assolutamente, precedette da per tutto il verso, come è naturale; ma il verso conservato precedette quasi da per tutto la prosa conservata.
(11.
Luglio.)
L'uso degli antichi filosofi greci, di abbracciar col circolo dei loro Trattati tutte le parti dello scibile (uso notato da me altrove), onde esso circolo veniva ad essere un'enciclopedia, fu seguito anche, ne' bassi tempi, da' latini: dico da quelli che scrissero, o in più opere separate o in una sola, de 4r o de 7m disciplinis (come Boezio, Cassiodoro, Marziano Capella, Beda, Alcuino) ec.; piccole enciclopedie, dove però si copiavano per lo più tra loro.
E dico tra loro: i più antichi o non conoscevano, o non avevano, o non leggevano, o non potevano intendere.
(11.
Lugl.)
[4523]Alla p.4520.
fin.
Chi non è mai uscito da luoghi piccoli, come ha per chimere i grandi vizi, così le vere e solide virtù sociali.
E nel particolare dell'amicizia, la crede uno di quei nomi e non cose, di quelle idee proprie della poesia o della storia, che nella vita reale e giornaliera non s'incontrano mai (e certo egli non si aspetta d'incontrarne mai nella sua).
E s'inganna.
Non dico Piladi e Piritoi, ma amicizia sincera e cordiale si trova effettivamente nel mondo, e non è rara.
Del resto, i servigi che si possono attendere dagli amici, sono, o di parole (che spesso ti sono utilissime), o di fatti qualche volta; ma di roba non mai, e l'uomo avvertito e prudente non ne dee richiedere di sì fatti (di tal fatta).
(21.
Luglio.)
Insatiatus per insatiabilis.
Citus, particip.
aggettivato.
Naevus-neo.
Frigus - frio (spagn.).
Ragunare - raunare.
Nego - nier.
Raggi - rai.
Il vescovo Ulfila, se non fu il primo introduttore dell'alfabeto presso la sua nazione (i Goti), gli diede almeno quella forma che noi conosciamo.
Castiglioni ap.
la B.
Ital.
Maggio 1829.
t.54 p.201.
Non solo noi diveniamo insensibili alla lode, e non mai al biasimo, come dico altrove, ma in qualunque tempo, le lodi di mille persone stimabilissime, non ci consolano, non fanno contrappeso al dolore che ci dà il biasimo, un motteggio, un disprezzo di persona disprezzatisima, di un facchino.
(29.
Lug.)
In un trattenimento, chi si vuol divertire, propongasi di passare il tempo.
Chi vi cerca e vi aspetta il divertimento, non vi trova che noia, e passa quel tempo assai male.
(29.
Lug.)
[4524]Est Dicaearchi liber de interitu hominum, Peripatetici magni et copiosi, qui collectis ceteris causis, eluvionis, pestilentiae, vastitatis, beluarum etiam repentinae multitudinis, quarum impetu docet quaedam hominum genera esse consumta; deinde comparat quanto plures deleti sint homines hominum impetu, id est bellis aut seditionihus, quam omni reliqua calamitate.
Cic.
de Off.
II.
5.
(16.).
(5.
Sett.
1829.)
Luccicare.
Albico as.
Rue - ruga (ital.
antico).
Despicere - despicari: e simili.
Burrone, burrato, borro, botro - ?(????.
(12.
Aprile.
1830.
Lunedì di Pasqua.)
È curioso a vedere, che gli uomini di molto merito hanno sempre le maniere semplici, e che sempre le maniere semplici sono prese per indizio di poco merito.
(Firenze 31.
Maggio 1831.)
Eccellente umanità degli antichi.
Quid enim est aliud, erranti viam non monstrare, quod Athenis exsecrationibus publicis sancitum est, si hoc non est? etc.
Cic.
de off.
l.3.
alquanto innnanzi il mezzo.
(Roma 14.
Dic.
1831.)
??(???? l'ubbriaco, appellativo di un Sileno in un vaso antico.
Muséum étrusque du prince de Canino, n.1005.
(Roma 14.
Dic.
1831.)
(?????(???(????(??(?? (vada, cioè eveniat) (?????(???(??(???.
Plat.
Apolog.
Socr.
haud procul ab init.
ed.
Ast.
opp.
t.8.
p.102.
(in marg.
19.
A.) nel Critone (init.
p.164.
in marg.
43.
D.) dice pur Socrate: ?(???(??????(?????(????(???, ??(????(???.
??(?????(????(????(????(?(???? (tutto il contrario).
ib.
138.
(34.
A.) e così altrove nella medesima Apologia.
?(??(????(????(??????(?(??????(????(????????????(????(? ec.
[4525](in vece di ?(????????(), ib.
144.
(36.
D.) - nessuna cosa più...
quanto ec.
idiotismo nostro, usato anche da' buoni e antichi.
(?????(???????(??(?(???(??(???(???(????(????.
ib.
148.
(38.
C.) avrete nome di avere ucciso Socrate.
(Roma 6.
Gennaio 1832.)
Uomini originali men rari che non si crede.
Gli uomini verso la vita sono come i mariti in Italia verso le mogli: bisognosi di crederle fedeli benchè sappiano il contrario.
Così chi dee vivere in un paese, ha bisogno di crederlo bello e buono; così gli uomini di credere la vita una bella cosa.
Ridicoli agli occhi miei, come un marito becco, e tenero della sua moglie.
(Firenze 23.
Maggio.
1832.)
Cosa rarissima nella società, un uomo veramente sopportabile.
Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla.
Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte.
Grande studio (ambizione) degli uomini mentre sono immaturi, è di parere uomini fatti, e quando sono uomini fatti, di parere immaturi.
(16.
Settem.
1832.)
La cosa più inaspettata che accada a chi entra nella vita sociale, e spessisimo a chi v'è invecchiato, è di trovare il mondo quale gli è stato descritto, e quale egli lo conosce già e lo crede in teoria.
L'uomo resta attonito di vedere verificata nel caso proprio la regola [4526]generale.
(Firenze.
4.
Dic.
1832.)
FINE
1 Vedi a questo proposito la pag.
3441.
2 Non ha niente, e però questo significato è nuovo e da aggiungersi ai vocabolari latini, cioè rodere per pruire.
(non è neutro però giacchè n'abbiamo veduto il passivo) quantunque si potrebbe disputare pro e contra.
Nota ancora che rodere per erodere è bensì raro, appo Celso, pur si trova l.
7.
c.
2.
verso il fine.
Nel lib.
7.
c.
23 c'è il vocabolo rosio che non ha significato chiaro e si può spiegare in un modo e nell'altro, sebbene appena si può prendere anzi non si può per l'azione del corrodere, ma per il senso di ciò, vale a dire di un prurito veemente: fereque a die tertio spumans bilis alvo cum rosione redditur.
E questo mi pare anzi il significato suo certo in questo luogo, come apparisce dal contesto dove nè prima nè dopo non si parla punto nè d'effetti nè di rimedi o altro analogo a corrosione.
Rodere si trova anche in significato dubbio 3.
volte nel l.
7.
c.
26.
sect.
4.
circa il fine e c.
27 dopo il mezzo.
3 ??????? strano.
V.
le mie osserv.
sui Taumasiografi greci.
Mirum hoc videri potest, quod etc.
4 ?????????Dabbene, uomo probo.
5 ??????????? Calunniatore, delatore, spione.
Non sono nomi propri.
6 Osservate in questo proposito che essendo certo non potersi perfezionare il corpo dell'uomo, anzi deperire nella civiltà, e quindi non darsi perfettibilità dell'uomo in quanto al corpo, (la quale infatti niuno asserì nè asserirebbe), tuttavia si sostiene la sua perfettibilità infinita in quanto all'animo (quanto intorno al corpo, volendo anche prendere per perfezioni quelle che oggi si credono tali, e in natura sono la maggior parte il contrario, certo però la perfettibiltà sarebbe finitissima).
7 Articolo del Monthly Magazine nello Spettatore di Milano 15.
Ottob.
1816.
Quaderno 62.
p.
78-79.
intitolato Lingua Persiana.
Parte Straniera.
8 Intorno a Marcaurelio puoi vedere la p.
2166.
fine.
9 Intorno ai participi in tus de' verbi neutri o attivi latini, come essendo di desinenza passiva, avessero spesso la significazione attiva o neutra, v.
le note del Burmanno al Velleio l.2.
c.97.
sect.4.
Infatti il lat.
secondo l'opin.
volgare mancherebbe di participi passati significanti azione, fuorchè deponenti.
V.
Forcellini voc.
Musso.
fine.
e v.
Partusa a um, e Pransus, e Coenatus, e p.
2277.2340.
10 V.
in questo proposito p.
1240-42.
e nota che i verbi in eggiare, par che almeno talvolta abbiano un valore effettivamente continuativo, come fronteggiare, scarseggiare e molti, ma molti altri, e in diversi sensi continui, ben distinguibili dal frequente e dal diminutivo: biancheggiare, rosseggiare, neutri ec.
11 Secondo il Forcellini il verbo obligari si trova in Ovidio nel significato espresso di cogi iuberi, come in italiano si dice essere obbligato a fare ec.
Ma il Forcellini s'inganna.
Ecco il passo di Ovidio con necessario accompagnamento de' versi circostanti, laddove il Forcellini riporta un verso solo (Trist.
1.
el.
2.
v.
81.
seqq.)
Quod faciles opto ventos, (quis credere possit?)
Sarmatis est tellus quam mea VOTA petunt.
OBLIGOR, ut tangam laevi fera litora Ponti;
Quodque sit a patria tam fuga tarda queror.
Obligor qui non significa cogor, iubeor come dice il Forcellini.
e come pare, se si recita questo verso solo, conforme fa egli; ma vuol dire fo voti, mi obbligo io stesso con voti, e non già sono costretto; ed è come dire obligor votis (giacchè questo apparisce dal contesto, e dalla parola vota del verbo antecedente), locuzione dello stesso genere di quelle di Cic.
obligare militiae sacramento, obligare sempiterna religione, obligare scelere; e di Livio obligari foedere; e di Orazio obligare caput suum votis.
in Oraz.
però la significazione di devovere ec.
Vedilo 2.
8.
v.
5.
Od.
V.
p.
2246.
12 Notate in questo proposito che da principio si contrastarono la preminenza il dialetto Veneziano e il Toscano, appunto perchè Venezia era pure insigne pel commercio.
V.
Monti, Proposta ec.
vol.
2.
par.
1 p.
191.
ed anche p.
168.
fine.
13 Altri meglio, flumine.
14 Quasi si verifica in questo senso e modo ciò che quel vecchio disse a Pico, della stupidità dei vecchi stati spiritosi straordinariamente da fanciulli.
15 Si può qui recare l'es.
del verbo sustentare vero continuativo, non di tenere (onde il continuativo tentare) ma del suo composto sustinere.
V.
il Forc.
in sustento.
ex meis angustiis illius sustento tenuitatem, egestatem lenocinio sustentavit ec.
ec.
Non avrebbe potuto dire sustineo, sustinuit.
Sostentar la vita in italiano va benissimo; non però in vece sostenere per mantenere, evidente azione continuata.
16 Il fine della letteratura è principalmente il regolar la vita dei non letterati; è insomma l'utilità loro, ed essi se n'hanno a servire.
Ora io non ho mai saputo che la condizione di chi è servito, fosse peggiore e inferiore che non quella di chi serve.
17 Contrariamente.
Non si trovano forse mille contrarietà fra le indoli, opinioni, costumi, di diversi tempi, nazioni, climi, individui, popoli civili fra loro, e rispetto ai non civili, e questi fra se medesimi, ec.? Pur tutti hanno i medesimi principii elementari costituenti la natura umana.
18 Puoi vedere la p.
3075.
19 V.
p.
3469.
20 Le scienze al tutto esatte nel loro modo di dimostrare e nelle loro cognizioni, proposizioni, parti e dogmi, insegnam.
soggetti ec.
come sono le matematiche, lo Speroni (Dial.i Ven.
1596.
p.
194.
mezzo) le chiama scienze certe.
Generalmente però quelle che io qui intendo, le chiama dimostrative (p.
160.
mezzo.
161 princ.
ec.
e così ragioni dimostrative p.
181.
opposte alle probabili persuasive o congetturali); il qual nome abbraccia sì le esatte sì le men certe, speculative e morali o materiali ec.
che sieno.
21 Veggasi la p.
3673-5.
22 Forse a questo discorso appartengono eziandio suspicor o suspico, ed auspico o auspicor, da specio, seppur quello non viene piuttosto da suspicio onis, e questo da auspicium o da auspex auspicis.
Forse ancora, qua si dee riferire plico da plecto, de' quali verbi mi pare aver ragionato altrove in altro modo.
Da plecto-plexus si fanno anche i continuativi amplexor o complexo.
E notare che si trova anche amplector aris in luogo di amplector eris, il che per altra parte confermerebbe che plecto is fosse in continuat.
anomalo di plico, come mi pare aver detto altrove.
V.
p.
2903.
23 Salvo ne' continuatt.
d' temi monosill.
p.
e.
dato, flato, nato ec.
come altroveA questo proposito molto che betere o bitere o bitire sia in continuat.
anomalo (come viso is) di un bo dal gr.
???, come no da ???, do da ???, e altri tali temi monosill.
latt.
fatti da tali verbi greci così contratti.
Ebito sarebbe ??????? ex-eo.
V.
Forc.
in Beto.
V.
p.
3694.
24 Chi sa che lo stesso stipare non venga appunto da ????? piuttosto che da ??????? V.
Forcellini in stipa, stipo, stuppa ec.
Certo s'egli ha che fare con stupa o stipa, esso viene da questa voce, e non al contrario come vuol Servio.
25 Anche gli antichi e primi scrittori latini hanno sapore e modo tutto familiare, sì poeti, come Ennio e i tragici, di cui non s'hanno che frammenti, Lucrezio ec.; sì prosatori, come Catone, Cincio ed altri Cronichisti, di cui pur s'hano frammenti, ec.
26 V.
p.
3351.
27 Seppure però la lingua ebraica ha genio, o altra indole come quella di non averne veruna.
E certo la lingua ebraica per essere informe, può forse esser bene rappresentata e imitata con una traduzione in qualsivoglia lingua, che per esser troppo esatta sia anch'essa informe.
Il che non accadrebbe in verun caso.
Vedi la pag.
2909.2910 fine-2913.
Vedi anche una giunta a questa pagina nella p.
2913.
28 V.
p.
2989.
29 Veggasi la p.
2929.
30 Così Virg.
Georg.
4.
116.7.
31 Veggasi la p.
2998.
e 3007.
32 Non solo gli scrittori ebraici o le varie materie in lingua ebraica, ma neppur essa la lingua ha uno stile, cioè un modo determinato, come l'ha bene, anzi troppo determinato, la francese: perocchè la lingua ebraica è troppo informe per avere uno stile proprio; e precisamente ella è l'estremo contrario della francese quanto all'informità.
V.
la p.
2853.
margine.
V.
p.
3564.
33 V.
la pag.
2841.
fine.
Potus us è da po, non da poto, come motus us è da moveo, non da moto as, e puoi vedere in questo proposito la p.
2975.
principio.
34 Lo comprova anche il significato rispettivo, sì per l'affinità, sì per la continuità ec.
Similm.
da sello muovere, senso analogo a quel di veho, si fa procello, onde procella, che è quasi vexo, e percello; ec.
ec.
ec.
35 Similmente noi figgere-fisso e fitto, del che puoi vedere p.
3284.
e p.
3283.
dove hai fixare affatto analogo di vexare.
Veggasi la p.
3733.
seg.
36 Veggasi la p.
3035.
segg.
37 Parlo di quelle idee che avanzano decisamente lo spirito umano e l'intelletto.
Avvi molte idee nuove, che non son tali se non perchè nuovamente composte d'altre idee già note (al contrario delle idee nuove di cui qui si parla).
Ma queste appartengono la più parte all'immaginazione, e spetta al poeta il proccurarcele.
E l'intelletto non ci guadagna.
Altre nuove idee vengono dirittamente dai sensi, quando vediamo o udiamo ec.
cose non più vedute o udite, le quali idee non si può ora determinare quando siano più semplici e quando più composte delle già possedute.
Ma queste nuove idee non derivano dall'intelletto, del quale adesso ragioniamo.
38 Notisi che i nomi delle lettere ebraiche (onde derivano quei delle greche, che in greco non significano niente) hanno tutti una significazione indipendente affatto dal suono della rispettiva lettera, e son parole della lingua, né hanno relazione alcuna tra loro, né colla rispettiva lettera altro che il cominciare appunto per essa, come alèf, dottrina; beth, casa ec.
39 Da queste osservazioni si deduce quanto la natura e l'ingegno son più ricchi dell'arte e come l'imitatore è sempre più povero dell'imitato.
V.
Algarotti Pensieri.
Opp.
Cremona, t.8.
p.79.
40 V.
Chateaubriand, Génie.
Paris 1802.
Par.
2.
l.2.
ch.10 fin.
t.2.
p.
105-6.
41 Si può vedere la p.
3252.
sg.
3400 sgg.
42 Appo Oraz.
Sat.
II.
I.
V.
ult.
tu missus abibis è lo stesso che missus, cioè absolutus eris, cioè mitteris o absolveris.
I greci ???????? con participio: uso analogo al nostro ec.
ec.
43 Si può vedere la p.
3036.
44 Disguisare mi par nostro antico V.
Crus.
45 Come fornicare da fornix fornicis, ad altri assai; duplico da duplex, triplico ec.
frutico da frutex, rusticor da rusticus.
Veggasi la p.
3752-4.
46 Propago as da pango is.
Vedi la p.
3752-3.
47 Vedi p.
3041.
48 Veduto sarebbe appunto il regolarissimo viditus, secondo il detto a pag.
3074.
sqq.
3362-3.
Così da fundo regolarm.
funditus dimostrato da funditare; da medeo, meditus dimostrato da meditare, come altrove dico, cioè p.
3352-60.
49 Censeo-censitus e census a um, onde census us, secondo l'osservaz.
da me fatta circa tali verbali della 4a.
Notabile è che censitus intero negli scrittori latt.
è più raro e più moderno che il contratto census.
Cosa simile alla presente di visus p.
visitus.
V.
p.
3815.
fine.
50 Notate però che similim.
si dice populus (onde populo o populor) e popellus.
In Fedro IV.
7.
V.
22.
fabella è vero diminutivo di fabula, come popellus lo è di populus.
In tal caso favella e favellare che i lat.
dicevano fabula e fabulare.
appartengono alla classe de' nostri diminutivi presi in vece de' positivi.
Abbiamo anche favola positivo, ma in altro senso, pur latino però.
V.
p.
3062.
51 Spagn.
asar.
It.
lessare ec.
52 V.
p.
3816.
53 Parido o parida partic.
di terminaz.
passiva, s'usa dagli spagn.
attivam.
p.
che ha partorito.
Estar parida, esser puerpera, ec.
54 Così l'h è accidentale in dich'io in giuochi ec.
ec.
55 Puoi vedere la p.
3544.
56 Veggasi la p.
3452 fine-58.
57 V.
la p.
3448.
segg.
e in particolare 3450-1.
58 Veggasi la p.
3451-2.
59 Petr.
Tr.
della Fama cap.
2.
terzina 48.
60 Erano allora i politici privati più di numero in Italia che altrove, l'opposto appunto di oggifì, perchè pure al contrario di oggidì, era in quel secolo maggiore in Italia che altrove e più comune e divulgata nelle diverse classi, la coltura, e l'amor delle lettere e scienze ed erudizione per una parte (le quali cose tra noi si trattavano in lingua volgare, e tra gli altri p.
lo più in latino, fuorchè in Ispagna), e per l'altra una turbolenta libertà fomentata dalla molteplicità e piccolezza degli Stati, che dava luogo a poter facilmente trovar sicurezza e impunità, col passare i confini e mutar soggiorno, chi aveva o violate le leggi, o troppo liberam.
parlato o scritto, o offeso alcun principe o repubblica nello stato italiano in ch'ei dapprima si trovava.
61 Nótisi che il Tasso proccurò eziandio di render nazionale l'argomento della Gerusalemme col dare tra' Cristiani le maggiori parti del valore a due italiani; Tancredi di Campagna nel Napoletano il qual era patria del Tasso, e Rinaldo d'Este progenitore del Duca a cui il Tasso indirizzava il poema.
E Rinaldo si è propriamente, non pure il secondo, ma l'altro Eroe della Gerusalemme con Goffredo, come ho detto a suo luogo, e, secondo l'intenzione del Tasso, a parti uguali, ma in effetto e' riesce maggior di Goffr.
62 V.
p.
3173.
Vedi ancora particolarm.
lo Speroni Oraz.
Ven.
1596.
p.
23.
e p.
56.
109.
e Castiglione, Cortegiano e.
Ven.
1541.
carta 173; ed.
Ven.
1565.
p.
423-24, libro 4.
63 Veggasi la p.
3451-2.
64 p.
3125.
65 Argante, Clorinda, Solimano.
Questi ed Argante sono anche espressam.
emuli, ma tutti tre pari di valore.
Altri eroi degl'infedeli non v'ha nella Gerus.
V.
p.
3535.
66 Di questi interessi accidentali vedi la pag.
2645-8.
67 Anche Omero e Dante hanno assai che fare per ridestar la nostra immaginaz.
Contuttociò, quantunque la fantasia di L.
Byron sia certo naturalm.
straordinaria, nondimeno è pur vero che anch'ella è in grandiss.
parte artefatta, o vogliamo dire spremuta a forza, onde si vede chiaram.
che il più delle poesie di L.
Byr.
vengono dalla volontà e da un abito contratto dal suo ingegno, piuttosto che da ispiraz.
e da fantasia spontaneam.
mossa.
68 Veramente di tutti i poemi epici, il più antico, cioè l'Iliade, è, quanto all'insieme, allo scopo totale e non parziale, al tutto e non alle parti, all'intenzion finale e primaria, non episodica, addiettiva e secondaria e quasi estrinseca, accidentale ec.; è, dico il più sentimentale, anzi il solo sentimentale; cosa veramente strana a dirsi, e che par contraddittoria ne' termini, ed è infatti mostruosa ed opposta alla natura de' progressi e della storia dello spirito umano e degli uomini, e delle differenze de' tempi, alla natura rispettivamente dell'antico al moderno, e viceversa ec.
È anche il poema più Cristiano.
Poichè interessa pel nemico, pel misero ec.
ec.
69 Veggasi la p.
3289-91.
70 V.
Tasso, Gerus.
17.
93-4, dove parla d'Alfonso II.
di Mod.a e confrontalo coi luoghi dello Speroni da me notati p.
3132.
marg.
princip.
V.
p.
4017.
71 Può vedersi la p.
3491-4.
circa la timidità che è propria di questo secondo genere e che affatto impedisce di essere stimato nella società, distrugge qualunque stima si potesse esser conceputa di un individuo prima di conoscerlo ec.
Ella è sovente comune anche al primo genere, ma solo con quelli di cui hanno soggezione, laddove nel secondo con tutti, perchè questi tali hanno soggezione di se stessi.
Ella è affatto esclusa dal genere intermedio, e questo è il solo che ne sia sempre esente e al tutto sicuro.
72 L'abitudine di sempre pensare, e di poco parlare; di raccor tutto dentro e poco versar di fuori; di trattenersi con se stesso, di stare raccolto come un devoto, di poco agire, poco conversar nelle cose del mondo, poco trattare, per attendere agli studi; spendere tutte le sue facoltà nel proprio interno ec.
ec.
tutte queste cose rendono l'individuo incapace di portarsi bene nella società quanto un altro che sia pur di molto meno talento; perocchè a lui manca l'esercizio dell'operare, del conversare, di parlare (massime di cose frivole, come bisogna ec.) e le dette sue qualità ed abitudinipositive escludono anche positivamente la capacità di contrarre le abitudini e di aquistare le qualità sociali.
Così la gravità a cui un tale individuo è neccessariam.
abituato, la serietà, il pigliar le cose per l'importante, e se non importano lasciarle, esclude la possibilità di aquistar la leggerezza, l'abito di dar peso naturalm.
alle cose minime, di scherzare, d'interessarsi con verità p.
le bagattelle, di trovar materia di discorso dove assolutam.
non ve n'ha ec.
ec.
tutte cose necessarissime in società: pigliar le cose, le materie, anche importanti e serie, da lato non importante e non serio, o trattarle non seriamente, superficialmente, scherzevolmente ec.
ec.
e come bagattelle ec.
ec.
e le profonde a fior d'acqua ec.
ec.
73 V.
p.
3386.
fine.
74 Maggiormente sconvenevole però si è questo nella musica che nella poesia.
Perocchè la scienza musicale, in ordine alla musica è di più basso e ben più lontano rango, che non è la poetica in ordine alla poesia.
Il contrappunto è al musico quel che al poeta è la grammatica.
La musica non ha un'arte che risponda a quel ch'è la poetica alla poesia, la rettorica all'oratoria.
Ben potrebbe averla, ma niuno ancora ha pensato a ridurre a principii e regole le cagioni degli effetti morali della musica e del diletto che da lei deriva, e i mezzi per produrli ec.
75 Vedi la pref.
di Timeo al suo Lessico Platonico appo il Fabric.
B.
G.
edit.
vet.
9.419.
76 Così anche parecchi inglesi, e generalmente tutti coloro che non sono assuefatti e non conoscono altro che studi e cose esatte.
Ma certo è che di tali filosofi, metafisici, politici-matematici, ed aridi, ve n'ha più copia fra' ted.
e dipoi fra' gl'ingl.
che altrove, come in Francia o in Italia.
77 Similm.
dicasi di nex, onde neco, eneco ec.
78 Puoi vedere le pagg.
3084-90.
79 Pendendo però più al sud.
80 Puoi vedere la p.
2989-91.
81 Veggansi le pagg.
3765-8.
82 Ciò per la varietà de'dialetti, o per altro, in modo però che le voci formate per tali alterazioni sono generalmente proprie degli scrittori greci o de' poeti; onde a noi partoriscono la stessa difficoltà, qual se ne fosse la cagione e l'origine e quando questa pur fosse particolare, la difficultà che a noi viene è ordinaria e generale ec.
83 Da ((( o da ((?????(????????, doppia alterazione.
84 Che l'amor proprio sia maggiore ne' fanciulli e ne' giovani che nell'altre età, segno n'è quella infinita e sensibilissima tenerezza verso se stessi, e quella suscettibilità e sensibilità e delicatezza intorno a se medesimi che coll'andar degli anni e coll'uso della vita proporzionatam.
si scema, e in fine si suol perdere.
85 Da queste teorie séguita che le bestie, avendo meno vita dell'uomo, perocchè hanno meno spirito e più del materiale, e di ciò ch'esiste e non vive ec., debbano aver meno amor proprio, e più egoismo; e così è infatti: e che tra loro la specie men viva, come il polipo, la lumaca ec.
dev'esser la più egoista: e che scendendo ai vegetabili e quindi per tutta la catena delle creature, si può dir che più scema la vita più cresca l'egoismo, onde l'éssere il più inorganizzato, sia in certo modo il più egoista degli esseri.
ec.
86 Anche i climi, anche le stagioni, come influiscono sul più e sul meno della vita o vitalità, attività interna o esterna ec.
debbono anche influire sul più e meno dell'amor proprio, e quindi anche dell'egoismo, e quindi anche della disposizione naturale alla misericordia, alla benevolenza ec.
Veggansi le pagg.
2752.-5, 2926.
fine-28.
87 Secondo questi discorsi una donna vecchia, massime vivuta nella gran società, dev'essere la più egoista persona umana (p.
natura, e regolarmente parlando) che possa concepirsi.
88 Puoi vedere il Dialogo Delle Lingue dello Speroni dalla p.
121.
in poi, cioè tutto il discorso tra il Lascari e il Peretto, sino alla fine del Dialogo.
89 Perocchè anche altri istituti egli seguì, ed altri fini si propose, tutti bellissimi e savissimi, ma che non appartengono al nostro proposito.
90 Osservisi che instigo propriam.
è continuativo p.
la significaz., perocchè instinguo propriamente significa l'atto del pungere, e quindi dello spingere, dell'indurre, ma instigo significa lo stimolare, lo stare attorno, il far ressa p.
indurre.
L'instinguere è lo scopo dell'instigare.
91 È però più verosimile che venga insidiare (cui v.
p.
3350.).
Altrimenti farebbe piuttosto insidor aris, come sedo as da sedeo (o da sido is) del che altrove.
92 Lo dice Svetonio nello stesso cit.
luogo: vulgo canebantur.
93 Nel freddo si ha la forza di agire, ma non senza incomodo.
La temperatura dell'aria che vi circonda, opponendosi à ce que voi possiate uscir di casa e di camera senza patimento, vi consiglia l'inazione e l'immobilità nel tempo stesso che vi dà la forza dell'azione e del moto.
Si può dir che se ne sente la forza e la difficoltà nel tempo stesso.
Nel caldo tutto l'opposto.
Si sente la facilità dell'azione e del moto nel tempo stesso che se ne scarseggiano le forze.
L'uomo prova espressamente un senso di libertà fisica che viene dall'amicizia dell'aria e della natura che lo circonda, un senso che lo invita al movimento e all'azione, ch'egli talora confonde con quello della forza, ma che n'è ben differente, come l'uomo si può avvedere, quando cedendo all'inquietezza che quel senso gl'ispira, e dandosi all'azione, la totale mancanza di forze che gli sopraggiunge, gli toglie quel senso di libertà, e l'obbliga a desiderare e cercare il riposo.
Anche per se medesima la debolezza e il rilasciamento prodotto da causa non morbosa, come dal caldo, dà una certa facilità di determinarsi all'azione al movimento al travaglio, più che la tensione prodotta dal freddo.
Può parere un paradosso, ma l'esperienza anche individuale lo prova.
Pare che il corpo rilasciato sia più maneggiabile a se medesimo.
Bensì la sua capacità di travagliare è poco durevole.
ec.
94 Si trova anche ????????? e ???????????.
95 Il detto passaggio è direttam.
contrario all'imitazione, che dev'essere l'immediato scopo e l'ufficio della musica, come dell'altre belle arti e della poesia, che dovrebb'essere inseparabile dalla musica (e così viceversa), e tutt'una cosa con essa ec.
Di ciò di altrove.
96 Il latino si stabilì in Inghilterra a un di presso come il greco nell'alta Asia, e l'italiano in Dalmazia, nell'isole greche e siffatti dominii de' Veneziani: cioè come lingua di qualunque persona colta e della scrittura, ma non parlata dal popolo, benché fosse intesa.
Così il turco in Grecia ec.
97 Vell.
II.
90.
2.
3.
Flor.
II.
17.
5.
Liv.
28.
12.
98 Petr.
Son.
La gola, il sonno.
99 Puoi vedere le pagg.
2979-80.
e 3717-20.
100 V.
p.
3728.
101 Massimam.
modi e significati.
102 La storia offrirà molte prove di fatto della conformità fra l'indole spagnuola e italiana (e greca).
Fra l'altre cose, l'abuso pubblico e privato della religion cristiana fatto nella Spagna, non ha nella storia moderna altro più simigliante che quello fatto in Italia, e quanto all'opinioni, e quanto alle azioni, e quanto alle istituzioni, leggi, usi, costumi ec.
e tutto ciò ch'è influito dalla religione.
Veggansi le pp.
3572-84, e massime dalla 3575.
in poi.
103 Veggasi fra l'altre, la p.
2906.
segg.
104 Massime ne' prosatori: quanto a' poeti vedi la p.
3419.
105 Veggasi la p.
2989.
106 Molto meno io vorrei consigliare che la lingua o lo scrittore italiano si modellasse sulla lingua spagnuola, molto alla nostra inferiore in perfezione, benchè conforme in carattere.
Oltre che una lingua già perfetta non si dee modellare, anzi dee fuggir di modellarsi sopra alcuna altra, sia quanto si vuole perfettissima.
E così a proporz.
discorrasi della letteratura ec.
107 Questo viene a essere, se così vogliamo chiamarlo, un latinizzare, grecizzare ec.
l'italiano, ma affatto insensibilmente, e indistinguibilm.
dall'italianizzare; un latinizzare non diverso dall'italianizzare ec.
108 V.
p.
3738.
109 Intendo per occupaz.i gli spassi ec.
110 V.
p.
3561.
111 V.
p.
3428.
112 Puoi vedere la pag.
3429.
113 Secondo il detto a p.
3397-9.
e 2906.
114 Veggasi a questo proposito la Parte de la Chronica del Peru di Pedro de Cieça de Leon.
e Anvers 1554.
8.vo piccolo.
cap.
53.
fine.
a car.
146.
p.
2.
cap.
62.
63.
100.
101.
principio.
115 V.
ancora la Correspond.
du Prince royal de Prusse et de Voltaire dans le oeuvres complettes du Roi de Prusse 1790.
t.
10.
lettre 96.
de Voltaire p.
422.
et suiv.
116 Quel che si è detto della durevolezza, dicasi ancora della grandezza e magnificenza.
117 A pag.
30-1.
118 Veggasi la pag.
3122.
119 O sistemi di repubblica o di legislazione, praticabili o non praticabili, ma certo non praticati, e solo immaginati e composti da' rispettivi autori.
V.
Aristot.
Polit.
1.
2.
p.
74.
171.
179.
fine.
116.1.4.
p.
289-92.
p.
358.
fine.
120 Pare che anche Eraclide Pontico scrivesse de optimo statu civitatis, senza però aver mai trattato le cose pubbliche.
V.
Cic.
ad Quint.
fratr.
3.
ep.
5.
Victor.
ad Aristot.
Polit.
p.
171.
Meurs.
t.
5.
p.
114.
B-C.
t.
6 p.
270.
F.
121 Così le ????????? di Diogene Cinico e di Zenone.
V.
il Laerz.
e la pref.
del Vettori alla politica d'Aristot.
p.
3.
verso il fine.
Qua spettas ancora la Ciropedia.
V.
ivi.
p.
5.
122 Ed Aristotele era pur de' più devoti all'osservazione, tra' filosofi antichi.
123 Aristotele p.e.
non la cercò, ne Teofrasto ec.
124 Esempi analoghi di frasi vediki nell'Alberti in faillir.
125 Veggansi le pagg.
3186-91.
126 ????????, genii, lares, penates, manes ec.V.
Forcell.
in tutte queste voci.
127 V.
p.
3544.
128 L'uomo non desidera la felicità assolutamente, ma la felicità umana (così gli altri animali), nè la felicità qualch'ella sia, ma una tale, benchè non definibile, felicità.
Ei la desidera somma e infinita, ma nel suo genere, non infinita in questo senso ch'ella comprenda la felicità del bue, della pianta, dell'Angelo e tutti i generi di felicità ad uno ad uno.
Infinita è realmente la sola felicità di Dio.
Quanto all'infinità, l'uomo desidera una felicità come la divina, ma quanto all'altre qualità ed al genere di essa felicità, l'uomo non potrebbe già veramente desiderare la felicità di Dio.
L'uomo che invidia al suo simile un vestito, una vivanda, un palagio, non è propriamente mai tocco nè da invidia nè da desiderio dell'immensa e piena felicità di Dio, se non solo in quanto immensa, e più in quanto piena e perfetta.
Veggasi la p.
3509.
massime in margine.
129 Nella rimembranza è molte volte il contrario, che più corto pare il tempo passato senza occupazione e uniformemente, perchè allora nella memoria l'una ora l'un dì si confonde e quasi sovrappone coll'altro, in modo che ,olti paiono un solo, non avendovi differenza tra loro, nè moltitudine di azioni o passioni che si possa numerare, l'idea della qual moltitudine si è quella che produce l'idea della lunghezza del tempo, massime passato ec.
Ma di questo pensiero altrove s'è scritto.
130 Se non è, può essere, e al nostro caso tanto è il poter essere quanto l'essere in fatto.
Immaginiamo, se non è, che sia, e come di un'ipotesi discorriamo di quello che necessariam.
seguirebbe se così fosse.
Essendo l'ipotesi possibiliss.a e similiss.a al vero, l'argomento avrà la medesima forza, e tanto nel caso presente varrà e proverà l'immaginazione e la supposizione, quanto la verità, tanto il supposto e l'immaginato quanto il vero ed effettivo.
131 V.
p.
3989.
132 Parecchi, pareil, onde appareiller, sono da pariculus ec.
V.
Gloss.
ec.
parejo (cioè par) parejura ec.
Pelleja, pellejo, pellico; pelliccia; pelisse; spag.
mod.no pellìz, da pellicula ec.
Lo spag.
ha anche il positivo, piel.
Semilla.
Soleil, Ouaille da ovicula ec., come oveja spag.
133 Puoi vedere la p.
3846.
134 V.
p.
3571.
135 Di un'altra qualità che sommamente contribuisce allo stesso effetto vedi le pagg.
3564-8.
136 P.
3074 segg.
137 ???? propriam.
è gustare facio.
Trovasi però in Erodoto p.
gusto ch'è (o dicesi da' Lessicografi) il proprio ???????.
Così ??? e ????? co' composti loro, che propriam.
sono attivi, e valgono sedere facio ec.
s'usano a ogni tratto in senso neutro, p.
sedere ec.
che è proprio de' loro passivi.
E così, credo, avviene in altri tali verbi.
Onde guo in lat.
potè bene essere propriam.
gusto neut.
138 Puoi vedere la p.
2814-5.
e 3715-7.
139 Manuarius, Manuatus sum (da manuo o manuor), Mortualia, Mortuarius, Mortuosus, Flexuosus, Flexuose.
Portuosus, saltuosus, flatoso.
140 Anche ne' nostri antichi scrittori questo uso di sperare ec.
non sembra esser che volgare.
141 Altrettanto dicasi del greco, lat.
spagn.
franc.
antico nelle quali lingue altresì sperare ec.
non istà mai propriam.
per temere, come dicono, ancorchè sia detto di male, ma solo p.
aspettare.
V.
Forcell.
in Spero.
142 V.
p.
3818.
143 È naturale agli organi degli spagn.
di non amare la pronunzia del t, onde nelle voci venute dal lat.
spessissimo lo mutano in d ch'è più dolce (come fanno anche gl'italiani in alcuni luoghi intorno alle voci italiane), spessissimo lo tralasciano, come in questo nostro caso fanno, in parte anche gl'ital.
e i franc.
144 Sicchè amamos p.
amamus non si dee neppure chiamar mutazione quanto allo spagnuolo, non essendo stata fatta da esso ma nel latino medesimo, anzi non essendo stata neppur in latino altro che un accidente, una qualità, una maniera di pronunzia.
Insomma amamos è latino; e lo spagn.
in questa voce è puro (ed antico e non men che moderno) latino conservato nel lat.
volgare.
ec.
145 V.
p.
3638.
146 Divenire-diventare fa a questo proposito.
147 Dicono i precettisti che le persone d'ugual merito possano esser più, purchè l'interesse sia un solo (così ne' drammi, così nell'epopea ec.).
E si pregiano molto di questa distinzione, come acuta e sottile e ben giudiziosa.
Ora i due suddetti termini non possono stare insieme.
148 Certam.
l'eccesso della pazienza, massime nella conversazione e nelle tenui relazioni giornaliere degli uomini si può dir che sia odiosa, o certo dispiacevole, o almen dispregevole, e lo spregevole è non solo inamabile, ma quasi odioso, e chi è disprezzato, oltre che non può essere amato nè interessare, difficilmente è senza un certo odio o avversione.
La pazienza è di tutte le virtù forse la più odiosa o la meno amabile, e ciò massimamente doveva essere presso gli antichi, e presso noi ancora, quando la consideriamo in personaggi e circostanze antiche, come in Ulisse.
149 Queste considerazioni hanno tanto maggior forza in favore di Omero, e in favore della nostra opinione che vuol che si segua il suo esempio, quanto che è natura della poesia il seguir la natura, e vizio grandiss.
e dannosiss.
anzi distruttivo d'ogni buono effetto, e contraddittorio in lei, si è il preferire alla nat.
la ragione.
La mutata qualità dell'idea dell'Eroe perfetto ne' poemi posteriori l'Iliade, proviene da quello stesso principio che poi crescendo, ha resa la poesia allegorica, metafisica ec.
e corrottala del tutto, e resala non poesia, perchè divenuta seguace onninam.
della ragione, il che non può stare colla sua vera essenza, ma solo col discorso misurato e rimato ec.
Puoi vedere la p.
2944.
sgg.
150 Minutus a um particip.
tanto aggettivato che se n'è fatto anche il diminut.
minutulus ec.
Quietus.
Lautus il quale ha anche variato la significaz.
in modo che in questa non si potrebbe mai riconoscere p.
partic.
ed essa è diversiss.
da quella che lautus ancora ha, propria sua, come participio.
Certus.
V.
Forc.
151 V.
p.
3635.
152 Exerceo, coerceo ec.
es ui itum.
Mentre che arceo, ch'è il semplice di questi verbi, fa arctum, come si dimostra dall'aggett.
arctus, secondo il detto altrove in proposito.
placeo-taceo-noceo es ui itum.
Perchè nocitum e non docitum? Se non per pura casualità d'uso nel pronunziare?
153 Fromba e frombola, coi derivati dell'uno e dell'altro.
Puoi vedere la p.
3968-9.
3992.
capoverso 1.3993.
capov.
ult.
3994.
fin.
4000.
fin.
- 4001.
4003.
pauget empaqueter ec.
Noi volgarm.
pacco e pacchetto.
V.
l'Alberti e gli spagnuoli.
154 Perocchè amor vero cioè che abbia effettivamente per proprio fine l'oggetto amato, o vogliamo dire il suo bene e la sua felicità, non si dà in alcuno essere, neppure in Dio, se non verso lo stesso amante.
155 Questo suppone lo stato di società ch'io combatto.
156 V.
p.
3811.
157 V.
p.
3708.
158 Secondo ch'e' sono neutri o attivi ec.
di senso, e così i rispettivi verbi originali ec.
159 Posco ha poposci, cioè, tolta la duplicazione (ch'è un accidente), posci, regolare, e non povi.
Perchè dunque nosco novi? Posco non ha il supino oggidì.
Perchè scisco scivi, suesco evi, e non suesci, nosci ec.?
160 Che novi novisti spetti ad altro verbo che a nosco, provasi e dal suo significato del presente (or perchè ciò s'e' fosse il proprio perfetto di nosco? il quale ha pure il presente ec.) e dell'imperf.
nel piuccheperf.
ec.; e dal vedere che i grammatici, sebbene da un lato l'appropriano a nosco, dall'altro lato tutti, antichi e mod.ni lo considerano e chiamano difettivo, come memini, nè più nè meno.
Dunque gli suppongono un altro tema, e questo ignoto, come a memini, odi ec.
161 V.
p.e.
la definiz.
di tremisco nel Forcell.
162 Vi sono anche molti altri esempi simili di molti generi di verbi che p.
negligenza degli scrittori, o per dimenticanza del loro primo destino ec.
escono sovente de' termini del modo e proprietà generali del loro significato ec.
ec.
163 V.
Forc.
in oleto.
164 Neo-nevi, flevi ec.
ec.
165 V.
p.
3708.
166 Tutti i nostri perf.
in etti sono primitivam.
e veram.
in ei, quando anche questa desinenza in molti verbi non si possa più usare, e sia divenuta irregolare, perchè posta fuori dall'uso, da quell'altra benchè corrotta e irregolare in origine, come appunto lo fu evi introdotta p.
evitar l'iato, come etti.
E qui ancora si osservi la conservaz.
dell'antichissimo e vero uso fatta dal volgar latino sempre, sino a trasmettere a noi i perf.
della 2.a in ei.
Puoi vedere la p.
3820.
167 Impleo (compleo ec.) - deleo (v.
la p.
3702) es evi etum.
Perchè dunque p.e.
dolui e non dolevi? come delevi che v'è sola lettera di svario.
Perchè dolitum e non doletum? O se dolui, perchè delevi e non delui? (v'ha però forse abolui, ed anche adolui ec.
p.
3702.
e ivi marg.) V.
p.
3715.
168 Suo is ha sui, e non ha che questo.
Abluo-Diluo ec.
lui.
Veggasi la p.
3732.
Assuo assui ec.
e gli altri composti di suo.
169 V.
p.
3885.
170 Puoi vedere il pensiero seg.
e p.
3710.
capoverso 1.
ec.
ec.
171 Così sutum da suo è contraz.
di suitum.
V.
la fine del pensiero precedente.
Ablutum da abluo.
Dilutum ec.
Lautum (onde lotum) è contraz.
di lavitum, e dimostra quel che ho detto della confusione tra l'u e 'l v.
V.
p.
3731.
172 Fors'anche da quei della prima, come p.e.
se consanesco fosse fatto da consano as neutro (v.
Forc.
in consano) nel qual caso anche sanesco sarebbe fatto da un sano neutro.
173 Puoi vedere p.
2814-5.
e 3570.
174 V.
p.
3723.
175 Certus: qui crevit.
Certa mori: quae crevit, cioè decrevit, mori, senso attivo, anzi in certo modo, transitivo ec.
E qui in simili moltiss.
casi, certus è adoperato in senso di participio, non di aggettivo, come in altri molti casi, massime quando si dice di cose.
Ma quando di persone, dubito ch'e' sia mai altro che participio, onde anche certior può forse fare al caso nostro ec.
ec.
176 Anzi gli u in iuvavi sarebbero tre, giacchè tanto era p.
gli antt.
l'u che il v ec., onde p.
es.
in pluvi si chiamava duplex u ec.
V.
Forc.
in Luo fine, in U ec.
e l'Encyclopédie in U ec.
e l'Hofman in U ec.
177 P.
2928-30.
178 V.
p.
3736.
179 Gli spagn.
hanno veram.
anche pujante.
Hanno pure potente, potencia, potentem.
ec.
ma questi probabilm.
sono tolti poi dal latino: pujante e pujanza ec.
sono i propri spagnuoli: bensì torti alquanto di significaz.
cioè usati, almeno comunem., p.
forte, robusto, forza, robustezza ec..
180 Nomenclator p.
nominclator ec.
non è che l'alteraz.
di pronunzia, e così mille casi simili.
(come quello di cui nel marg.
della pag.
seg.
cioè imaguncula).
181 Imaguncula, incuncula, homuncio, homunculus, latrunculus è lo stesso che imagincula (v.
la p.
3007.
fra l'altre), e però fatto dagli obliqui d'imago, e non dal retto, come parrebbe a prima vista.
E così dicasi dell'altre simili voci.
182 Agnomen, agnomentum ec.
cognomen ec.
ignotitia (p.
innotitia), tutti derivati da noo.
Ignoro ec.
183 Ne' composti notum o gnotum si cambia in gnitum (cognitum ec.) fuorchè in ignotus nome, e in ignotus partic.
e supino.
V.
anche agnotus ec.
184 V.
p.
3851.
185 V.
p.
3071.
186 Come il suicidio, o il tormentar se stesso per odio, quello è, questo, se potesse essere, sarebbe evidentemente contro natura, così la guerra tra gl'individui d'una specie medesima, le uccisioni scambievoli, e i mali qualunque proccurati da' simili ai simili, sono cose evidentemente contro natura, mentre pur sono assolutamente inevitabili, e non accidentali (se non a una per una, non generalmente e tutte insieme), ma essenziali e costanti in qualsivoglia società stretta.
V.
p.
3928.
187 Vedi la pag.
3813.
188 Terminò questa prima parte nel Perù l'anno 1550, in età d'anni 32.
de' quali n'avea passati 17.
nell'Indie meridionali, come dice nell'ultime linee del tomo.
189 L'antropofagia era e fu p.
lunghissimi secoli propria di forse tutti i popoli barbari e selvaggi d'America, sì meridionale che settentrionale (escludo il paese comandato dagl'incas, i quali tolsero questa barbarie, e l'impero messicano e tutti i paesi un poco colti ec.) e lo è ancora di molti, e lo fu ed è di moltissimi altri popoli selvaggi affatto separati tra loro e dagli americani.
L'antropofagia fu ben conosciuta da Plinio e dagli altri antichi ec.
ec.
E forse tutti i popoli ne' loro principii (cioè p.
lunghissimo tempo) furono antropofagi.
V.
p.
3811.
190 Puoi vedere la p.
3891.
191 Fuseau.
Figliuolo (filiolus), figliuolanza ec.
Al detto altrove di scabellum, sgabello ec.
aggiungi il franc.
escabeau ed escabelle.
192 Sellula.
Asellulus.
193 Anche in adbito (che veggasi) il Forc.
ha adbito is con questo solo es.
di Plauto.
194 Anche tra noi ramoscello ec.
molte volte è positivato, massime nel dir moderno.
195 Puoi vedere la p.
3842.
seg.
196 V.
p.
3905.
197 V.
la pag.
3835.
seg.
e 3846.
fine-8.
198 V.
la p.
seg.
199 Vedi la pag.
3520-5.
200 Puoi vedere p.
3835.
seg.
3842.
seg.
201 Avisado p.
prudente, accorto, e anche dello spagn.
ma dubito che in ispagn.
avisar abbia quel tal senso attivo analogo a questo di accorto ec., il quale egli ha tra noi.
V.
p.
3899.
202 V.
p.e.
Forcell.
in fruniscor p.
fruiscor, qualunque de' due sia anteriore.
E chi sa che prima non fosse sio, interposta poscia la n p.
evitare l'iato, come in greco nel fine delle voci, e come forse v'hanno altri es.i in latino, e fra questi forse il predetto fruniscor.
203 Detonat uit.
Intono avi ed ui ec.
204 Vedi la pag.
3871.
205 V.
p.
3900.
206 V.
p.
3875.
fine.
207 Se non in quanto essi sono più capaci di occupazione e distrazion forte dell'animo, e quando essi si trovano attualmente in tale stato (che accade loro più frequentem.
che agli altri p.
molte ragioni) del che vedi la pag.
3878.
principio.
208 Puoi vedere la p.
3885.
209 Questo però, se non viene da gesticulus /ch'è voce moderna e solo di Tertulliano) può essere piuttosto frequentativo che diminut.
o un misto dell'uno e dell'altro, come tanti nostri verbi italiani, di cui altrove ex professo.
210 Puoi vedere le Lettere di Federico II.
e d'Alembert, Lett.
49.
p.
125.
seg.
paragonandola colla lett.
45.
p.
117.
e lettera 47.
p.
120.
fine - 121.
e lett.
53.
p.
135.
fin e lett.
70.
p.
185.
fine.
211 Ne quidem p.
nec quidem, nequam ec.
dove il ne è privativo, ec.
212 Anche abbiamo accettare (accepter ec.) da acceptare, ma non di capto bensì di accipio-acceptus ec.
213 Veggasi la pag.
3921-27.
214 L'ubbriachezza accrescendo la vita e il sentimento di essa, fa nel med.
tempo che l'individuo non rifletta (naturalmente), non consideri questa vita e questo sentimento, che il suo spirito consideri e s'interessi a questo sentimento accresciuto, assai meno ancora ch'ei non suole al sentimento ordinario e minore, e tanto meno quanto egli è più cresciuto.
V.
p.
3931.
215 Puoi vedere a questo proposito le pagg.
3797-802.
e sopra alcune anche più orribili barbarie, uno o due de' luoghi del Cieça citati a p.
3796.
216 V.
p.
3945.
217 V.
p.
3938.
218 V.
p.
3932.
219 V.
Forc.
fisus, confisus, diffisus, ec.
220 Impercettibile ec.
(da perceptum) -concepibile ec.
da concepitum.
221 Puoi vedere la p.
3986.
222 Chi sia accorto, facilmente distingue e nella speculazione e nella pratica, e in ciascuna persona e caso particolare, e nel generale, il carattere e costume puntiglioso, e i fatti puntigliosi, dal carattere ec.
ch'io qui descrivo (il quale non è neppur lo stesso che quello del Burbero benefico di Goldoni) che certo in realtà sono cose molto diverse e distinte.
223 Puoi ved.
La lett.
101 del Re di Pruss.
a d'Alembert, onde apparisce che il Metastasio s'avea fuor d'Italia pel principale ingegno italiano di que' tempi.
224 Vedi la pag.
3963.
lin.
18.
3980.
lin 3.4.
225 Purulentus, purulentia ec.; esculentus, virulentus, vinolentus v.
la pag.
3968-9.
3992.
temulentus ec.
nidulor, se non è freq.
o frequen-dimin.
226 V.
il Saggio di Algarotti sugl'Incas.
227 V.
il Gloss.
ec.
Ramentevoir franc.
Antico.
228 Puoi ved.
la p.
3988.
Si può applicare al discorso sopra le barbarie della società umana ec.
(p.
3797-802.).
229 Capsula, parva capse; capsella, parva capsula.
Forc.
Pare che, se non altro, il Forc.
creda che il diminut.
in ellus ec.
dinoti maggior diminuz.
che quello in ulus ec., quando anche ei non lo creda sempre o non mai un sopraddiminutivo.
Oculus-ocellus (oculus, come dico altrove, non è diminut.
come altrove io aveva detto, o è positivato ec.
sicchè ocellus non è sopraddiminutivo ec.).
230 V.
p.
3982.
231 V.
p.
3982.
232 Del resto l'uso dell'ionico fatto anticam.
dagli non ionici prova con certezza che il ionico o era il greco comune, o il più comune, o il solo o il più applicato e quindi atto alla letteratura e al dir colto ec.
o il più famoso ec.
V.
p.
3991.
233 V.
p.
seg.
234 V.
p.
3990.
235 Diminutivo non in franc.
Ma fatto da una forma non diminut.
lat.a Vedi però la p.
3991.
capoverso 1.
e 3985.
princip.
236 P.
e molti verbi in ailler, come ferrailler, tirailler, rimailler, grappiller, folâtrer ec.
(puoi ved.
la p.
3980.
capoverso 1.) babiller.
237 mungo, pungo, iungo ec.
-nctum.
238 Così in latino: p.e.
v.
Forcell.
in Dium.
E certo da ???? dev'essere divus; e v.
Forc.
in Divus.
239 V.
ancora i derivati ec.
di ungula, unghia, ongle.
240 Puoi ved.
la p.
3992.
capoverso 3.
e la p.
3753.
marg.
241 Così è infatti: advertid que ec.
D.
Quijote.
242 V.
il pens.
precedente e p.
3996.
capoverso 1.
2.
e ult.
ec.
questa desin.
in on è comune cioè tanto masc.
che fem.
o l'uno e l'altro insieme ec.
Se il nome in on, essendo aggettivo ha il femm.
in one o onne, non è diminut.
anzi dubito che un aggett.
in on sia mai de' diminut.
- Compagnon (fem.
compagne) sostantivo.
243 Dubito però che in franc.
la desinenza in in ine ec.
nè abbia ora, nè abbia mai avuto la forza diminutiva in nessun modo.
V.
la pag.
3993.
capoverso 4.
marg.
244 In simil senso di verbigrazia ec.
o analogo a questo, mi par che si usi eziandio lo spagn.
luego.
245 Altra volta ve lo trovo per benigno, favorevole (fue mas agradecida y liberal la natura que la fortuna).
Desagradecido p.
ingrato.
D.
Quij Leido p.
che ha letto, alletterato (ib.
leido en cosas de Caballeria andantesca, cioè, che ha letto romanzi di Cavalleria, come quivi si vede).
246 Così grappo e grappolo, di cui altrove; e v.
il Gloss.
247 Seggia, seggio e seggiolo, co' derivati ec.
del che altrove.
Cuccio e cucciolo, ciotto e ciottolo coi derivati, composti ec.
Ciccia e cicciolo o sicciolo.
Chiappole, bruscoli, pappolate, ec.
Frotta e frottola.
Tetta e tettola: v.
la pag.
4007.
248 Così scrive l'Alberti, nócciolo.
Così da cochlea, chiócciola: noi marchegiani cuccióla.
249 Voltolare, rivoltolare, avvoltolatamente.
Vagellare (Crus.), vagolare e avagolare (Alberti), da vagari.
250 Morchia (noi marchigiani morca) - amurca.
251 Veggasi la p.
4014.
capoverso 4.
252 Conocido, desconocido, p.
conoscente, cioè grato, e sconoscente, come diciamo noi l'uno e l'altro, come anche disconoscente.
V.
la Crusca in disconosciuto esempio 2.
dove vale che non conosce, ch'è privo di conoscimento, e nota ch'è di Guittone, cioè antichissimo.
253 ((((( p.
falso, frusta in luogo di Alessi Comico ap.
Ateneo l.
13.
p.
562.
D.
fin.
male inteso dal Dalechampio.
254 V.
Ancora lo stesso Luc.
l.
178.
lin.
25.26.
dove pur sottintendesi ?? o ????.
255 Desaguisar, desaguisado, aguisado ec.
256 Pregiato p.
prezioso o pregevole, immensus p.
immetibilis.
257 Veggasi la p.
4026.
capoverso 5.
258 P.
3827.
259 Così diciamo l'amicizia altrui, la conoscenza altrui, le offese altrui e simili frasi dove l'altrui ha relazione a colui solo di cui si parla, sia persona o cosa, cioè in somma ridonda.
E così mill'altre frasi.
260 V.
per es.
Lucrez.
l.
2.
v.
9.
261 Certo la puniz.
porta seco più infamia che la colpa.
262 Spagn.
gloton, glotoneria, glotonear ec.
263 Anche Cesare Dittat.
fu divinizzato, con flamine ec.
ec., dopo la morte almeno.
V.
gli storici e Sveton.
in fine della sua vita.
264 V.
Saavedra Idea de un Principe politico Christiano, Amst.
1659.
ap.
Iansson Iuniorem.
empresa 25.
p.
225-6.
265 Similm.
discorrasi delle donne, in proporzione ec.
266 Neo nes nevi netum.
267 Farneticare.
268 V.
Hist.
de l'Acad.
des Sciences, an.
1734.
p.
20-23.
t.
1.
ed.
d'Amsterdam in 12.°
269 V.
Creuzer, Meletemata, dov'è il framm.
di Dicearco.
270 Così appunto la pensavano gli antichi.
V.
Casaub.
ib.
l.
8.
c.
14.
init.
271 V.
anche Eliano Var.
Ist.
272 Non bisogna tuttavolta usar le figure a man piena: gosa goffa e che ec.
273 Inconsideranza e spensieratezza del futuro.
274 Ministro, funzionario qualunq.
275 V.
p.
4256.
fin.
276 Scriveva il Chester.
quelle cose circa il 1750: il Tradutt.
ital.
del Maff.
furon pubblicati del 1720.
277 (M.
Schubarth n'a donc par remarqué qu'Homère ne chante qua la colère d'Achille et non la guerre entière de Troie? N.
du R.)
278 V.
p.
4388.
279 V.
p.
4431.
280 V.
la pag.
4408.
capoverso 2.
281 V.
p.
4483.
282 V.
p.
4483.
283 V.
p.
4465.
284 Fauto e Faustolo, il pastore che salvò Romolo e Remo bambini.
285 Così anco de' verbi in are, alla qual terminaz.
aggiungono un ol.
(sfondare- sfondolare, sfondolato).
V.
la pag.
4496.
capoverso 8.
e 4509.
capoverso 3.
e 4512.
286 Prossimo (? ???????, ? ?????), p.
simile ec., viene anche dal greco p.
mezzo del Cristianes., quantunq.
in Forc.
abbia qualcosa di simile in qutori pagani.
287 Pare che i lat., almeno de' bassi tempi, usassero come disprezzativa la forma in Acul.
288 I verbi, tutti della Ia.
289 Crever, se crever, - crevasser.
290 Intrico as, tricae-tricasserie, tracasser, tracas ec.
(tricaculae) coutelas, freddiccio, rossiccio, e simili aggettivi.
291 V.
la p.
4496.
capoverso 9.
292 V.
il pensiero seg.
...
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