[Pagina precedente]...usa, e per causa l'effetto. Poichè se quello fu allora il dialetto attico, ciò venne appunto perch'esso aveva avuto scrittori e letteratura, e così fattosi comune ec., ovvero a causa del commercio e potenza e della coltura degl'ioni, alla qual coltura non avrà poco contribuito la stessa letteratura che n'aveva avuto origine ec. Del resto gli attici erano molto facili ad adottare le voci e modi greci stranieri, e anche i barbari, almeno ne' tempi susseguenti; e lo dice Senofonte in un luogo da me citato e discusso altrove.
(9. Dec. 1823. Vigilia della Venuta della Santa Casa di Loreto.)
[3967]L'infinito per l'imperativo, del che altrove. Hippocrates in fine libri de aere aquis et locis. ???? ?? ??????? ?????????????, ?? ????? ???????????, ??? ??? ????????. Sono le ultime parole del libro. (10. Dec. dì della Venuta della S. Casa. 1823.). Questo modo è frequentissimo in Ippocrate da per tutto, come precettista ch'egli è.
Diminutivi positivati. Taureau. Molti de' diminutivi ch'io chiamo positivati potranno ben trovarsi usati alle volte, più o men sovente, o da' più antichi o da' più moderni ec. ed usarsi ancora, in senso veramente diminutivo, o pur frequentativo ec. ec. E sia anche il più delle volte. A me basta che talora abbiano o abbiano avuto ec. senso positivo, conforme al positivo ec.
(10. Dec. 1823.)
Alla p.3962. È noto che Alboino re de' Longobardi fece del teschio di Comundo (re de' Zepidi, suo nemico) una tazza, con la quale in memoria di quella vittoria (sopra i Zepidi) bevea (Machiav. Istorie fiorent. lib.1. opp. 1550. p.9.), e come da questo ebbe origine la sua uccisione ordinata da Rosmunda sua moglie e figlia di Comundo, per mano di Almachilde (id. ib.). Da ciò si vede che questo costume dovette anche esser proprio de' Longobardi (giacchè io non convengo col Machiavelli che attribuisce questo fatto in particolare all'efferata natura di Alboino), popolo settentrionale e forse non estremamente lontano dagli Sciti, benchè d'altra razza e d'altro genere di lingua a quello ch'io credo. Poichè gli Sciti spettano alla razza slava. I Longobardi, cred'io, alla tedesca.
(10. Dec. dì della Venuta della S. Casa di Loreto. 1823.)
[3968]Alla p.3963. fine. Se i diminutivi in ellus ec. fossero fatti sempre da voci in ulus, lo stesso si dovrebbe dire di quelli in illus, illare ec. Quindi p.e. conscribillo sarebbe da un conscribulo. - Al detto di patella, aggiungi l'ital. padella, positivato (restando patena pel vaso sacro ec.), benchè forse quello che oggi si chiama padella non sia precisamente conforme a quello o quei vasi che si chiamavano in lat. patinae o patenae o patellae, e quindi il significato di tal diminutivo positivato padella non sia forse precisamente il medesimo del suo positivo latino, cosa inevitabile quasi in quelle voci che appartengono a oggetti di usi ec. sempre variabilissimi più d'ogni altra cosa. Ma in tal caso la significazion del diminutivo padella non sarebbe neppur la medesima del diminutivo patella, ch'è pur certamente positivato, e con cui padella è materialmente una stessa voce. Insomma padella è certamente un diminutivo positivato. V. i francesi e gli spagnuoli e il Gloss. ec.
(10. Dec. dì della Venuta. 1823.). V. p.3971.
Al detto altrove del diminutivo o vezzeggiativo ec. positivato figliuolo, aggiungi i suoi derivativi ec. pur positivati, come figliolanza.
(10. Dec. Festa della Venuta. 1823.)
Ho detto, non mi ricordo il dove, di un diminutivo, mi pare, italiano che la sua inflessione in ol (sia verbo o sia nome ec. che non mi sovviene) dimostrava lui essere originariamente latino. Ma si osservi che la diminuzione in olo, olare ec. è non men propria dell'italiano moderno di quel che sia del latino quella in ulus, ulare, olus (come in filiolus) ec. Ben è vero ch'essa deriva onninamente da [3969]questa latina, anzi è la medesima con lei. Del resto l'aggiunta dell'u in questa nostra inflessione (come in figliuolo ec.). 1. è una gentilezza della scrittura e ortografia, un toscanesimo, non è proprio della favella, seppur non lo è della toscana, e in tal caso, che non credo neanche in Toscana sia troppo frequente e' sarebbe un accidente della pronunzia. 2. non si trova nelle più antiche scritture, nè in moltissime delle meno antiche, benchè esatte, anzi fuorchè nelle moderne, forse nel più delle scritture ella manca, e credo ancora che manchi regolarmente anche oggidì, almeno secondo l'ortografia della Crusca, in molte parole dove l'olo è pur lungo. 3. ella svanisce regolarmente (per la regola de' dittonghi mobili) sempre che l'accento non è sull'o: quindi da figliuolo figliolanza ec. 4. essa è veramente una proprietà italiana onde anche da sono, bonus e tali altri o semplici, facciamo uo, come suono, buono ec. siccome gli spagnuoli ue, che pur si risolve, o ritorna, in o sempre che l'accento non è sull'e, come da volvo buelvo e poi bolver ec. V. p.4008. E anche quando la desinenza ec. in olus o ulus ec. non è diminutiva, noi ne facciamo sovente uolo ec. come da phaseolus, fagiuolo ec. 5. Essa manca sempre in moltissime parole italiane, come in tanti verbi diminutivi o frequentativi ec. in olare de' quali ho detto altrove, che sarebbe sproposito scrivere in uolare. Insomma essa giunta non è propria di questa tale italiana inflessione diminutiva derivante dal latino, ma è un accidente di pronunzia o di ortografia italiana o toscana, che ha luogo anche in infiniti altri casi alienissimi da questa inflessione, e che in questa medesima non ha sempre luogo ec.
(10. Dec. dì della Venuta della S. Casa di Loreto. 1823.). V. p.3984.3992.3993.
Alla p.3961. Così discorrasi ancora di cento altri generi di formazioni ec. latine e non proprie delle lingue moderne, che si trovano in mille parole moderne [3970]ignote nel latino, o solo note nel latino barbaro, mentre quelle formazioni ec. non sono proprie di questo e furono assolutamente proprie del buon latino, o speciali del latino antico ec. ec.
(10. Dec. dì della Venuta della S. Casa di Loreto. 1823.). V. p. seguente, e 3985.
Ho detto altrove che male nelle nostre lingue spesso si usa per non, per particella privativa, ec. Questo è proprio particolarmente dell'antico delle nostre lingue, e fors'anche più in particolare, dell'antico francese. I francesi ora dicono mal- ora mé-, ch'è lo stesso (médire, dir male), e così il nostro mis (misdire, misfare). Le quali particelle corrotte da mal e destinate alla composizione, ora significano veramente male, ora sono assolutamente negative o privative, come in mépriser, mépris, miscredente, misleale ec. Questa particella mis (o simile) collo stesso uso è anche comune agl'inglesi, il che conferma il sopraddetto, cioè ch'ella e così mal ec. ond'ella è corrotta, fosse specialmente propria dell'antico delle nostre lingue, e particolarmente dell'antico francese. V. gli spagnuoli i quali se ne mancassero, sarebbero nuova prova di ciò, perchè lo spagnuolo non ha forse tanto tolto dal provenzale ec. quanto il nostro antico linguaggio, massimamente scritto ec. ec. Salvo sia sempre che mis ec. non si trovi essere di origine settentrionale, e di là venuta nell'inglese e nel francese ec.
(10. Dec. Festa della Venuta. 1823.)
Participii passivi in senso neutro. - Aggettivazione de' participii. Tacitus da taceo per tacens. Similmente in ispagnuolo callado per callante, zitto (à todo havia estado suspenso y callado. Cervant. D. Quijote). Bisogna però osservare intorno a questo e simili participii di verbi neutri delle lingue moderne, usati nel senso del participio di forma attiva, se quel tal verbo non è o non [3971]fu neutro passivo, fatto poi assoluto per ellissi del pronome o sempre o talvolta. Cosa ch'è avvenuta ed avviene infinite volte nelle nostre lingue. P.e. callar forse si disse ancora o solamente callarse, come in fr. se taire, e spesso anche in ital. tacersi, si tacque ec. benchè qui il pronome piuttosto ridonda, per proprietà di nostra lingua, come in altri assai casi, la qual proprietà non appartiene a questo discorso, e bisogna notare che un neutro assoluto non si pigli per neutro passivo a causa di essa, che sarebbe falso, onde tra noi il trovare un neutro col pronome, o presso gli antichi o presso i moderni non sempre è segno che quello sia neutro passivo, o lo sia stato ec. e poi soppresso il pronome, callar o sempre o per lo più. In tal caso callado nel senso suddetto, non sarebbe che in senso passivo, e non apparterrebbe al nostro discorso.
(11. Dec. 1823.)
Alla p.3968. Se i diminutivi in ellus ec. o illus ec. son fatti dalle voci in ulus ec. o sempre, o talvolta (ch'è fuor di controversia il talvolta), essi sono contrazioni di ulellus ec. ulillus ec.
(11. Dec. 1823.). V. p.3987.
Alla p. anteced. S'intende che tali composti, derivati ec. non sieno stati formati ec. dagli scrittori ec. ma propri della favella volgare, e tali che si possano credere conservati; come infatti ve ne sono, anche propri esclusivamente del solo dir familiare o parlato ec. o de' più antichi e rozzi scrittori, e quindi certo delle favelle volgari di allora ec., in assai buon numero.
(11. Dec. 1823.)
Alla p.3961. Spettano a detta categoria la grazia e l'effetto spesse volte singolare delle bellezze forestiere o che hanno del forestiero, sia che questo bello spetti alla fisonomia, al personale ec. ovvero alle maniere ec., ovvero che le maniere sien forestiere e non il fisico, o viceversa ec. ec. ec.
(11. Dec. 1823.)
[3972]Risulta da quello che in più luoghi si è detto circa la natura di una lingua atta (massime ne' nostri tempi) veramente alla universalità , che ella non solo non può esser più delle altre lingue capace di traduzioni, di assumer l'abito dell'altre lingue, o tutte o in maggior numero o meglio che ciascun'altra, di piegarvisi più d'ogni altra, di rappresentare in qualunque modo le altre lingue; ma anzi ella dev'essere per sua natura l'estremo contrario, cioè sommamente unica d'indole, di modo ec. e sommamente incapace d'ogni altra che di se stessa, ed in se stessa minimamente varia, e da se medesima in ogni caso il men che si possa diversa. E una lingua che tenga l'estremo contrario è di sua natura, massime a' tempi nostri, estremamente incapace dell'universalità . Non bisogna dunque figurarsi che una lingua universale nè debba nè possa portare questa utilità di supplire alla cognizione di tutte le altre lingue, di esser come lo specchio di tutte l'altre, di raccoglierle, per così dir, tutte in se stessa, col poterne assumer l'indole ec.; ma solo di servire in vece di tutte le altre lingue, e di esser loro sostituita. Anzi ella non può veramente altro ch'esser sostituita all'uso dell'altre e di ciascuna altra, e non supplire ad esse ec. Ben grande sarebbe quella utilità , ma essa è contraria direttamente alla natura di una lingua universale. Tale si è infatti la francese. Nè i francesi dunque nè gli stranieri si lusinghino di avere in quella lingua tutto ciò che potrebbero avere nell'altre, ma una lingua diversissima per sua natura dall'altre, il cui uso a quello di tutte l'altre possono facilmente sostituire. Nè stimino che volendo conoscer [3973]l'altre lingue, autori ec. il possederla francese, li dispensi più che alcun'altra lingua dallo studio di tutte l'altre, anzi per questo effetto la francese non serve a nulla, ed i francesi per parlare come nativa una lingua sommamente disposta alla universalità , si debbono contentare di avere una lingua incapacissima di traduzioni, inettissima a servir loro di specchio e di esempio, e fin anche di mezzo, per conoscere qualunque altra lingua, autore ec. Il fatto della lingua francese dimostra queste asserzioni. Sebbene i francesi coll'estrema trascuranza che hanno dell'altre lingue mostrano essere persuasi del contrario. La natura della greca era appunto l'opposto. Ella infatti perciò, anche nel tempo antico, non potè essere universale che debolissimamente e incomparabilmente alla possibile universalità di una lingua, ed anche all'effettiva presente universalità dell...
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