[Pagina precedente]...spirito ec. ec.
(Firenze. 17. Luglio. 1827.)
Uno che costretto dai debiti, aveva venduto per cinquantamila scudi il suo patrimonio, non volendo dire di aver venduto, diceva (e certo con altrettanta verità ) di aver comperato cinquantamila scudi.
(Firenze. 19. Luglio. 1827.)
Memorie della mia vita. Cangiando spesse volte il luogo della mia dimora, e fermandomi dove più dove meno o mesi o anni, m'avvidi che io non mi trovava mai contento, mai nel mio centro, mai naturalizzato in luogo alcuno, comunque per altro ottimo, finattantochè io non aveva delle rimembranze da attaccare a quel tal luogo, alle stanze dove io dimorava, alle vie, alle case che io frequentava; le quali rimembranze non consistevano in altro che in poter dire: qui fui tanto tempo fa; qui, tanti mesi sono, feci, vidi, udii la tal cosa; cosa che del resto non sarà stata di alcun momento; ma la ricordanza, il potermene ricordare, me la rendeva importante e dolce. Ed è manifesto che questa facoltà e copia di ricordanze annesse ai luoghi abitati da me, io non poteva averla se non con successo di tempo, e col tempo non mi poteva mancare. Però io era sempre tristo in qualunque luogo nei primi mesi, e coll'andar del tempo mi trovava [4287]sempre divenuto contento ed affezionato a qualunque luogo. (Firenze. 23. Luglio. 1827.). Colla rimembranza, egli mi diveniva quasi il luogo natio.
Veramente e perfettamente compassionevoli, non si possono trovare fra gli uomini. I giovani vi sarebbero più atti che gli altri, quando sono nel fior dell'età , quando ride loro ogni cosa, quando non soffrono nulla, perchè se anche hanno materia di sofferire, non la sentono. Ma i giovani non hanno patito nulla, non hanno idea sufficiente delle infelicità umane, le considerano quasi come illusioni, o certo come accidenti d'un altro mondo, perchè essi non hanno negli occhi che felicità . Chi patisce non è atto a compatire. Perfettamente atto non vi potrebbe essere altri che chi avesse patito, non patisse nulla, e fosse pienamente fornito del vigor corporale, e delle facoltà estrinseche. Ma non v'ha che il giovane (il quale non ha patito) che sia così pieno di facoltà , e che non patisca nulla. Se altro non fosse, lo stesso declinar della gioventù, è una sventura per ciascun uomo, la quale tanto più si sente, quanto uno è d'altronde meno sventurato. Passati i venticinque anni, ogni uomo è conscio a se stesso di una sventura amarissima: della decadenza del suo corpo, dell'appassimento del fiore de' giorni suoi, della fuga e della perdita irrecuperabile della sua cara gioventù.
(Firenze. 23. Lugl. 1827.)
Vagheggiare, bellissimo verbo.
Naufragato, naufragé ec. per che ha naufragato. V. Forcell. ec. Scappato si dice volgarmente, anche in Toscana, di un giovane licenzioso ec. Osé.
Rempli per plein. Foncé per profond.
Béqueter. Nutrire, nodrire-nutricare nodricare. V. Forc. Frigere-fricasser.
Fra, infra, tra, intra tanto; entre tanto, per in tanto, en tanto.
Embraser co' derivati. Aggiungasi al detto altrove, che le lettere br sogliono entrare nella composizione di voci dinotanti arsione ec.
[4288]Come ignotus, o notus per conoscente, così viceversa conoscente spesso per conosciuto; come: il dolor della morte degli amici e de' conoscenti ec. ec.
(Firenze. 17. Sett. 1827.)
La materia pensante si considera come un paradosso. Si parte dalla persuasione della sua impossibilità , e per questo molti grandi spiriti, come Bayle, nella considerazione di questo problema, non hanno saputo determinar la loro mente a quello che si chiama, e che per lo innanzi era lor sempre paruto, un'assurdità enorme. Diversamente andrebbe la cosa, se il filosofo considerasse come un paradosso, che la materia non pensi; se partisse dal principio, che il negare alla materia la facoltà di pensare, è una sottigliezza della filosofia. Or così appunto dovrebbe esser disposto l'animo degli uomini verso questo problema. Che la materia pensi, è un fatto. Un fatto, perchè noi pensiamo; e noi non sappiamo, non conosciamo di essere, non possiamo conoscere, concepire, altro che materia. Un fatto perchè noi veggiamo che le modificazioni del pensiero dipendono totalmente dalle sensazioni, dallo stato del nostro fisico; che l'animo nostro corrisponde in tutto alle varietà ed alle variazioni del nostro corpo. Un fatto, perchè noi sentiamo corporalmente il pensiero: ciascun di noi sente che il pensiero non è nel suo braccio, nella sua gamba; sente che egli pensa con una parte materiale di se, cioè col suo cervello, come egli sente di vedere co' suoi occhi, di toccare colle sue mani. Se la questione dunque si riguardasse, come si dovrebbe, da questo lato; cioè che chi nega il pensiero alla materia nega un fatto, contrasta all'evidenza, sostiene per lo meno uno stravagante paradosso; che chi crede la materia pensante, non solo non avanza nulla di strano, di ricercato, di recondito, ma avanza una cosa ovvia, avanza quello che è dettato dalla natura, la proposizione più naturale e più ovvia che possa esservi in questa materia; forse le conclusioni degli uomini su tal punto sarebbero diverse da quel che sono, e i profondi filosofi [4289]spiritualisti di questo e de' passati tempi, avrebbero ritrovato e ritroverebbero assai minor difficoltà ed assurdità nel materialismo.
(Firenze. 18. Sett. 1827.)
Ci resta ancora molto a ricuperare della civiltà antica, dico di quella de' greci e de' romani. Vedesi appunto da quel tanto d'instituzioni e di usi antichi che recentissimamente si son rinnovati: le scuole e l'uso della ginnastica, l'uso dei bagni e simili. Nella educazione fisica della gioventù e puerizia, nella dieta corporale della virilità e d'ogni età dell'uomo, in ogni parte dell'igiene pratica, in tutto il fisico della civiltà , v. p.4291. gli antichi ci sono ancora d'assai superiori: parte, se io non m'inganno, non piccola e non di poco momento. La tendenza di questi ultimi anni, più decisa che mai, al miglioramento sociale, ha cagionato e cagiona il rinnovamento di moltissime cose antiche, sì fisiche, sì politiche e morali, abbandonate e dimenticate per la barbarie, da cui non siamo ancora del tutto risorti. Il presente progresso della civiltà , è ancora un risorgimento; consiste ancora, in gran parte, in ricuperare il perduto.
(18. Sett. 1827.)
Addolcendosi i costumi, diffondendosi le cognizioni e la coltura delle maniere nelle classi inferiori, avanzandosi la civiltà , veggiamo che i grandi delitti o spariscono, o si fanno più rari. Se mancati i grandi delitti e i grandi vizi, potranno aver luogo le grandi virtù, le grandi azioni, questo è un problema, che l'effetto e l'esperienza della civilizzazion presente deciderà per la prima volta. - Parlando con un famoso ed eloquente avvocato napoletano, il Baron Poerio, che ha avuto a trattare un gran numero di cause criminali nella capitale e nelle provincie del Regno di Napoli, ho dovuto ammirare in quel popolo semibarbaro o semicivile piuttosto, una quantità di delitti atroci che vincono l'immaginazione, una quantità di azioni eroiche di virtù (spesso occasionate da quei medesimi delitti), che esaltano l'anima la più fredda (come è la mia). Certo niente o ben poco di simile nelle parti men barbare dell'Italia, e [4290]nel resto d'Europa, nè per l'una nè per l'altra parte.
(Firenze. 18. Sett. 1827.)
C'est en conséquence de ces cruelles opinions, que l'on a vu enseigner publiquement, à la honte du Christianisme, que l'on ne devoit pas garder la foi aux hérétiques; sentiment que Clément VIII, qui d'ailleurs étoit assez honnête homme pour un Pape, approuvoit, ainsi que s'en plaint amèrement le Cardinal d'Ossat. L'inhumaine décision du concile de Constance, sur le mépris des saufs-conduits, est aussi le fruit de cette pernicieuse doctrine. (Hist. du concile de Constance, préface de Lenfant. P.47.) Examen critique des Apologistes de la religion chrétienne, par M. Fréret, chap.10. édit. de 1766. p.188-9.
(Firenze, 19. Sett. 1827.)
Io non credo vero quel che dicono i critici che gli antichi, p.e. Ebrei, Greci, Latini Orientali ec. non avessero nelle loro lingue il suono del v consonante, ma solo l'u vocale. Credo che il vau dell'alfabeto ebraico non sia veramente altro che un uau o u, credo che gli antichi latini non avessero segno nel loro alfabeto per esprimere il v consonante, e che il V non fosse in origine che un u; ma con ciò non si prova altro se non che gli antichi non ebbero il v nel loro alfabeto, il che non prova che non l'avessero nella lingua. Considerato come un'aspirazione (non altrimenti che l'f, il quale ancor manca negli antichi alfabeti, giacchè il fe ebraico fu anticamente pe, e il ? greco è una lettera aggiunta all'alfabeto antico, e considerata come doppia o composta, cioè di ? e di ?, ossia come un ? aspirato), esso v, per l'imperfezione degli antichi alfabeti, mancò di segno proprio, giacchè non si ebbe bastante sottigliezza per separarlo dalle lettere su cui esso cadeva, per avvedersi che esso era un suono per se, un elemento della favella. Perciò da [4291]principio esso non fu scritto in niun modo, come nel lat. amai per amavi; poi scritto come aspirazione, digamma ec. p.e. amaƒi ec.; finalmente, sempre privo di segno proprio, esso fu scritto con quel medesimo segno che serviva all'u, ond'è avvenuto che nel latino maiuscolo il V sia ora vocale ora consonante, e così l'u nel latino minuscolo, la qual confusione dura ancora, non ostante che i moderni abbiano fatto di quest'u due caratteri, u e v; giacchè si vede, ciò non ostante, nei dizionari l'u e il v considerarsi come un solo elemento diversamente modificato, ed abbiamo e impariamo fin da fanciulli la irragionevole distinzione tra u vocale e u consonante, distinzione che non ha ragione alcuna naturale, ma solo storica ec. ec. Il simile dirò dell'f ec. ec.
(20. Sett. 1827. Firenze.)
Alla p.4289 - nella civiltà insomma del corpo, per dir così, o vogliamo dire, che spetta al perfezionamento o alla perfezione del corpo, -
Dice la Staël che la lingua tedesca è una scienza, e lo stesso si può, e con più ragione ancora, dir della greca. Quindi è accaduto che siccome le scienze si perfezionano, e i moderni sono in esse superiori agli antichi, per le più numerose e accurate osservazioni, così e per lo stesso mezzo la notizia del greco, dal rinascimento degli studi, si è accresciuta e si accresce tuttavia, e che i moderni sono in essa d'assai superiori a quelli del 5 o del 4 cento, e forse in alcune parti (come in quella delle etimologie, parte così favolosamente trattata da Platone), agli stessi greci antichi; anzi, che gli scolari di greco oggidì, ne sappiano più de' maestri de' passati tempi. E come le scienze non hanno limiti conosciuti nè forse arrivabili, e nessuno si può vantare di possederle intere; così appunto accade della lingua greca, la cognizione della quale sempre si estende, nè si può conoscere se e quando arriverà al non plus ultra, nè [4292]basta l'avere spesa tutta la vita in questo studio, per potersi vantare di essere un grecista perfetto.
(Firenze. 20. Sett. 1827.)
Il credere l'universo infinito, è un'illusione ottica: almeno tale è il mio parere. Non dico che possa dimostrarsi rigorosamente in metafisica, o che si abbiano prove di fatto, che egli non sia infinito; ma prescindendo dagli argomenti metafisici, io credo che l'analogia materialmente faccia molto verisimile che la infinità dell'universo non sia che illusione naturale della fantasia. Quando io guardo il cielo, mi diceva uno, e penso che al di là di que' corpi ch'io veggo, ve ne sono altri ed altri, il mio pensiero non trova limiti, e la probabilità mi conduce a credere che sempre vi sieno altri corpi più al di là , ed altri più al di là . Lo stesso, dico io, accade al fanciullo, o all'ignorante, che guarda intorno da un'alta torre o montagna, o che si trova in alto mare. Vede un orizzonte, ma sa che al di là v'è ancor terra o acqua, ed altra più al di là , e poi altra; e conchiude, o conchiuderebbe volentieri, che ...
[Pagina successiva]