[Pagina precedente]... che camminan bene. Dico [4258]così per non offender le orecchie, e non urtar troppo le opinioni: per altro, io son persuaso, e si potrebbe mostrare, che il male v'è di gran lunga più che il bene. Ora un tal magisterio, sarà poi tanto grande? un tal ordine tanto commendevole? Ma il male par male a noi, non è veramente. E il bene, chi ci ha detto che sia bene veramente, e non paia solo a noi? Se noi non possiamo giudicare dei fini, nè aver dati sufficienti per conoscere se le cose dell'universo sien veramente buone o cattive, se quel che ci par bene sia bene, se quel che male sia male; perchè vorremo noi dire che l'universo sia buono, in grazia di quello che ci par buono; e non piuttosto, che sia malo, in vista di quanto ci par malo, ch'è almeno altrettanto? Astenghiamoci dunque dal giudicare, e diciamo che questo è uno universo, che questo è un ordine: ma se buono o cattivo, non lo diciamo. Certo è che per noi, e relativamente a noi, nella più parte è cattivo; e ciascuno di noi per questo conto l'avria saputo far meglio, avendo la materia, l'onnipotenza in mano. Cattivo è ancora per tutte le altre creature, e generi e specie di creature, che noi conosciamo: perchè tutte si distruggono scambievolmente, tutte periscono; e, quel ch'è peggio, tutte deperiscono, tutte patiscono a lor modo. Se di questi mali particolari di tutti, nasca un bene universale, non si sa di chi (o se dal mal essere di tutte le parti, risulti il ben essere del tutto; il qual tutto non esiste altrimenti nè altrove che nelle parti; poichè la sua esistenza, altrimenti presa, è una pura idea o parola); se vi sia qualche creatura, o ente, o specie di enti, a cui quest'ordine sia perfettamente buono; se esso sia buono assolutamente e per se; e che cosa sia, e si trovi, bontà assoluta e per se; queste sono cose che noi non sappiamo, non possiamo sapere; che niuna di quelle che noi sappiamo, ci rende nè pur verisimili, non che ci autorizzi a crederle. Ammiriamo dunque quest'ordine, questo universo: io lo ammiro più degli altri: lo ammiro per la sua pravità e deformità , che a me paiono estreme. Ma per lodarlo, aspettiamo di sapere almeno, con certezza, che egli non sia il pessimo dei possibili. - Quel che ho detto di bontà e di cattività , dicasi eziandio di bellezza e bruttezza di questo ordine ec.
(21. Marzo. 1827.)
A [4259]veder se sia più il bene o il male nell'universo, guardi ciascuno la propria vita; se più il bello o il brutto, guardi il genere umano, guardi una moltitudine di gente adunata. Ognun sa e dice che i belli son rari, e che raro è il bello.
Graziato, aggraziato, disgraziato ec. per grazioso, mal grazioso ec. Purgato, épuré ec. per puro.
Scappare-scapolare. Saltabellare. Scartabellare.
????????(?????????(??????????????(????. V. Casaubon. ad Athenae. l.14. c.20. init.
Entro a pochi dì, per fra pochi dì. Bartoli, Missione al gran Mogol, ed. Roma 1714. p.72. Così diciamo dentro il termine di tanti giorni, e simili.
Pel manuale di filosofia pratica. A voler vivere tranquillo, bisogna essere occupato esteriormente. Error mio nel voler fare una vita, tutta e solamente interna, a fine e con isperanza di esser quieto. Quanto più io era libero da fatiche e da occupazioni estrinseche, da ogni cura di fuori, fino dalla necessità di parlare per chiedere il mio bisognevole (tanto che io passava i giorni senza profferire una sillaba) tanto meno io era quieto nell'animo. Ogni menomo accidente che turbasse il mio modo e metodo ordinario (e n'accadevano ogni giorno, perchè tali minuzie sono inevitabili) mi toglieva la quiete. Continui timori e sollecitudini, per queste ed altre simili baie. Continuo poi il travaglio della immaginazione, le previdenze spiacevoli, le fantasticherie disgustose, i mali immaginarii, i timori panici. Gran differenza è dalla fatica e dalla occupazione, e dalle cure e sollecitudini stesse, alla inquietudine. Gran differenza dalla tranquillità all'ozio. Le persone massimamente di una certa immaginazione, le quali essendo per essa molto travagliati negli affari, nella vita attiva o semplicemente sociale, e molto irresoluti (come nota la Staël nella Corinna a proposito Lord Nelvil); e le quali perciò appunto tendono all'amor del metodo, e alla fuga dell'azione e della società , e alla solitudine; [4260]s'ingannano in ciò grandemente. Esse hanno più che gli altri, per viver quiete, necessità di fuggir se stesse, e quindi bisogno sommo di distrazione e di occupazione esterna. Sia pur con noia. Si annoieranno per esser tranquille. Sia ancora con afflizioni e con angustie. Maggiori sarebbero quelle che senza alcun fondamento reale, fabbricherebbe loro inevitabilmente la propria immaginazione nella vita solitaria, interiore, metodica. Chi tende per natura all'amor del metodo, della solitudine, della quiete, fugga queste cose più che gli altri, o attenda più a temperarle co' lor contrarii; se vuol potere veramente esser quieto. Al che lo aiuterà poi il giudicare e pensar filosoficamente delle cose e dei casi umani. Ma certo un uom d'affari (senz'ombra di filosofia) ha l'animo più tranquillo nella continua folla e nell'affanno delle cure e delle faccende; e un uom di mondo nel vortice e nel mar tempestoso della società ; di quello che l'abbia un filosofo nella solitudine, nella vita uniforme, e nell'ozio estrinseco.
(Recanati. 24. Marzo. 1827.)
Quanto più, in questo tal modo, si fuggono le sollecitudini e i dispiaceri, tanto più vi s'incorre: perchè mancandone le cause reali (o vogliamo dir di momento) e che sopravvengono di fuori, noi ce ne fingiamo e facciamo da noi medesimi e, per così dire, del nostro capitale proprio, assai più, ed infinite. E queste sollecitudini e questi dispiaceri così prodotti, non solo sono per noi di ugual momento che sarebbero i reali; ma si sentono, e travagliano molto più, per la mancanza di distrazioni e la monotonia della vita, di quel che fanno i grandissimi e sommi, nella vita agitata e attiva. Che è quanto dir che sono maggiori assai. E si sentono tutti, dove che nella vita attiva, moltissimi non si sentono, e però non sono nè pur dispiaceri.
(Recanati 25. Marzo. Domenica. Festa dell'Annunziazione di Maria. 1827.)
Quanto, in quanto, per poichè, perocchè ec. - ???'?(???, ovvero (??? ec. V. un [4261]esempio di (??? in questo senso, usato da Ateneo, ap. Casaubon. ad Athenae. l.15. c.2. verso il fine, e dallo scoliaste di Pindaro, ap. eumd. ib. c.19. fin.
Dimonia. Demonia. Mulina. plurali.
Tutti siamo naturalmente inclinati a stimar noi medesimi uguali a chi ci è superiore, superiori agli uguali, maggiori di ogni comparazione cogl'inferiori; in somma ad innalzare il merito proprio sopra quel degli altri fuor di modo e ragione. Questo è natura universale, e vien da una sorgente comune a tutti. Ma un'altra sorgente d'orgoglio e di disistima altrui, sconosciuta affatto a noi; divenuta, per l'assuefazione incominciata sin dall'infanzia, naturale e propria; è ai Francesi e agl'Inglesi la stima della propria nazione. Tant'è: il più umano e ben educato e spregiudicato francese o inglese, non può mai far che trovandosi con forestieri, non si creda cordialmente e sinceramente di trovarsi con un inferiore a se (qualunque si sieno le altre circostanze); che non disprezzi più o meno le altre nazioni prese in grosso; e che in qualche modo, più o meno, non dimostri esteriormente questa sua opinione di superiorità . Questa è una molla, una fonte ben distinta di orgoglio, e di stima di se, in pregiudizio o abbassamento d'altrui della quale niun altro fra i popoli civili, se non gli uomini delle dette nazioni, possono avere o formarsi una giusta idea. I Tedeschi che potrebbero con altrettanto diritto aver lo stesso sentimento, ne sono impediti dalla lor divisione, dal non esserci nazion tedesca. I Russi sentono di esser mezzo barbari; gli Svedesi, i Danesi, gli Olandesi, di essere troppo piccoli, e di poter poco. Gli Spagnuoli del tempo di Carlo quinto e di Filippo secondo, ebbero certamente questo sentimento, come veggiamo dalle storie, niente meno che i francesi e gl'inglesi di oggidì, e con diritto uguale; forse, senza diritto alcuno, l'hanno anche oggi; e così i Portoghesi: ma chi pone oggi in conto gli Spagnuoli e i Portoghesi, parlando di popoli civili? Gl'italiani forse l'ebbero (e par veramente di sì) nei secoli 15° e 16° e parte del precedente e del susseguente; per conto della lor civiltà , che essi ben conoscevano, e gli altri riconoscevano, esser superiore a quella di tutto il resto d'Europa. Degl'italiani d'oggi non parlo; non so ben se ve n'abbia.
[4262]Questo sentimento della inferiorità dei forestieri, questo riguardarli e trattarli come d'alto in basso, è ai francesi e agl'inglesi, per l'abitudine, così naturalizzato e immedesimato, come è ad un uomo nato nobile e ricco, il parlare e trattare co' poveri e co' plebei, come con gente naturalmente inferiore: che anche l'uomo del più buon cuore del mondo, e il più filosofo, essendo nella detta condizione, li tratterà così, se non attenderà e non si sforzerà di proposito per fare altrimenti: perchè quell'opinione di sua superiorità sopra questi tali, è in lui non dipendente dal raziocinio, nè dalla volontà .
Molto utile può essere ed è senza fallo questa opinione che hanno i francesi e gl'inglesi di se. Sarebbe utile anche a chi l'avesse senza ragione. La stima grande di se stesso è il primo fondamento sì della moralità , sì delle mire ed azioni nobili e onorate. Pure, perchè il conoscere in altri un'opinione della inferiorità propria, e un certo disprezzo di se in qualunque cosa, è sempre dispiacevole; non è dubbio che il veder questo tale orgoglio nazionale nei francesi e inglesi, non riesca assai dispiacevole e odioso ai forestieri. E perchè la civiltà e la creanza comandano, e sopra tutto, che si nasconda il sentimento della superiorità propria, e il disprezzo di quelli con cui trattiamo, per ragionevole e fondato che ei sia; pare che i francesi e gl'inglesi dovrebbero nascondere quel lor sentimento tra forestieri. Gl'inglesi non si piccano di buona creanza; piuttosto di non averla, piuttosto di mala creanza: però di loro non ci maraviglieremo. I francesi non solo se ne piccano, ma vogliono essere, credono essere, e certo sono, la meglio educata gente del mondo. Anzi in questo fondano per gran parte quella loro opinione di superiorità . Perciò pare strano che al più ben creato francese non riesca o non cada in mente di tenersi, parlando o scrivendo a forestieri, dal dar loro ad intendere in qualche modo (ma chiaro), che esso li tiene senza controversia per da meno di se. Molto meno poi negli scritti che pubblicano.
Anco pare strana questa cosa, considerata la gran sensibilità e paura che hanno i francesi del ridicolo. Perchè se quella lor pretensione riesce ridicola a chi la stima giusta, e d'altronde utile e lodevole, come sono io; quanto non dovrà parere a quei che non pensano più che tanto, o che la stimano assolutamente vana, esagerata ec.? Il che dee [4263]naturalmente accadere con molti, ma con gl'inglesi accade di necessità . E già ogni pretension che si dimostra, ancorchè giusta, è soggetta a ridicolo, perchè il mostrar pretensione è ridicolo. E manco strano sarebbe che eglino non si guardassero co' forestieri da questo ridicolo in casa propria; dove essi sono i più forti, perchè l'opinion comune è per loro, la lor superiorità è ricevuta come assioma, e l'uditorio è tutto dalla lor parte. Ma che non se ne guardino (come non se ne guardano punto) in casa dei medesimi forestieri, viaggiando tra loro, co' loro medesimi ospiti? Questo veramente è strano assai ne' francesi; ma molto più strano, che alla fin de' fatti, essi viaggiano tra noi trionfalmente, dimostrandoci il lor disprezzo, mettendoci in ridicolo in faccia nostra propria e parlando a noi (non che tornati che sono a casa); e che da noi non ricevono il menomo colpo, il più piccolo spruzzo, di ridicolo nè in parole, quando noi trattiamo qui con loro, nè in lettere, nè in istampa. Da che vien questo? da b...
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