[Pagina precedente]...za; e secondo che veggono, o credono di veder fare a lui, sperare o temere, dolersi o consolarsi, pigliar animo o perdersi di coraggio. Onde suol tanto giovare nel Capitano la fermezza d'animo, e la dissimulazione del dolore o del timore nei casi ov'è sommamente da temere o dolersi. E questa qualità dell'uomo è ancor essa una delle cagioni per cui tanto universalmente e così volentieri si è abbracciata e tenuta, come ancor si tiene, la opinione di un Dio provvidente, cioè di un ente superiore a noi di senno e intelletto, il qual disponga ogni nostro caso, e indirizzi ogni nostro affare, e nella cui provvidenza possiamo riposarci dell'esito delie cose nostre. (9. Dic. Vigilia della Venuta della S. Casa di Loreto. 1826. Recanati.). La credenza di un ente senza misura più savio e più conoscente di noi, il quale dispone e conduce di continuo tutti gli avvenimenti, e tutti a fin di bene, eziandio quelli che hanno maggior sembianza di mali per noi, e che veglia sulla nostra sorte; e tutto ciò con ragioni e modi a noi sconosciuti, e che noi non possiamo in guisa alcuna scoprire nè intendere, di maniera che non dobbiamo darcene pensiero veruno; questa credenza è agli uomini universalmente, e massime ai deboli ed infelici, un conforto maggior d'ogni altro possibile: il qual conforto non da altro procede, nè consiste in altro, che un riposo, uno acquetamento, ed una confidenza [4231]cieca nell'autorità , nel senno, e nel provvedimento altrui.
(9. Dic. 1826.)
Dilettare-dileticare, co' derivati.
Intermittenza morale. Passioni e qualità morali intermittenti. - Aggiungerò che quest'odiosa passione (l'avarizia) provenendo sovente dalla debolezza della nostra costituzione, avviene che le infermità corporali talvolta la sviluppino. Una dama che per sei mesi dell'anno era soggetta ai vapori e alla malinconia, era pur anche durante quel tempo d'una sordida parsimonia; ma come appena le funzioni corporee ripigliavano la loro armonia, ella si faceva adorare per la sua grande generosità . Alibert, Physiologie des passions, nel N. Ricoglitore di Milano, quaderno 23. p.788. - Questa osservazione si può sommamente estendere. Ciascuno di noi, se bene osserva, troverà in se questa sì fatta intermittenza. Io, inclinato all'egoismo, perchè debole e infermo, sono mille volte più egoista l'inverno che la buona stagione; nella malattia, che nella buona salute, e nella confidenza dell'avvenire; più aperto alla compassione, e facile ad interessarmi per gli altri, e prendere il loro soccorso quando qualche successo mi ha fatto confidente di me medesimo, o lieto, che quando avvilito, o melanconico. - Quante cose poi non si potrebbero dire sopra questa medesima intermittenza, considerata, non nelle qualità , ma nelle facoltà intellettuali e sociali, sia ingenite, sia acquisite!
(Recanati. 10. Dic. Festa della Venuta. 1826.)
Assai meglio scrisse (il Boccaccio) quando si lassò guidar solamente dall'ingegno ed instinto suo naturale, senza altro studio o cura di limare i scritti suoi, che quando con diligenza e fatica si sforzò d'esser più culto e castigato. Castiglione prefaz. del Cortegiano. Senza altro (cioè alcuno) impedimento. Ib. lib.2. ed. Venez. 1541. carta 79. p.2. principio, ed. Venez. 1565. p.198. fin. E così il medesimo autore nella citata opera altre più volte. Senz'altro strepito (cioè niuno). Ib. lib.3. carta 126. principio. - p.310.
Pare che la fanciullezza e la gioventù abbia ingenita e naturale una inclinazione a distruggere, e la età matura e avanzata, a conservare. Nè voglio io dedur questo dal vedere che i giovani sogliono scialacquare e mandare a [4232]male i patrimoni, dove che i provetti gli accumulano, conservano e accrescono;273 la qual cosa facilmente si spiega, e nasce perchè i giovani sono confidenti, e poco riflettono, nè pensano all'avvenire, in vece che i vecchi sono timidi, cauti, e sempre solleciti del futuro. Ma vedesi quel che io ho detto, eziandio in cose dove non ha luogo alcuno nè il timore o la fiducia, nè la provvidenza o la improvvidenza dell'avvenire. Un fanciullo e un giovane spessissime volte si piglierà piacere di uccidere una mosca o altro animaletto, cacciandolo anco con fatica, senza altra ragione o altro fine che di prendersi gusto; rarissime volte si compiacerà , o gli verrà pure in capo, di salvar qualche animale, vedendolo in pericolo, e potendolo salvar senza affaticarsi. Un uomo maturo o un vecchio rare volte si piglierà diletto di uccidere, spesso si compiacerà di salvare tali creature, vedendole in qualche pericolo di perdersi, e potendo massimamente soccorrerle senza suo disagio. E ciò faranno gli uni e gli altri, come per instinto, e senza ragionarvi sopra. È manifesto poi come i giovani tendano alla novità , e non solo sieno vogliosi d'innovar propriamente, ma eziandio semplicemente di spegner l'antico, o di vederlo spento; e i provetti, per lo contrario, gelosi della conservazione delle cose che sono. Onde si potrebbe dire che la natura, sempre intenta e studiosa non meno a distruggere che a conservare o produrre, avesse dato stimolo e incarico a quelli che crescono e vengono innanzi nel mondo, di distruggere, quasi per farsi luogo; e a quelli che declinano, e si avviano alla partenza, di conservare e produrre, quasi per lasciar pieno il luogo loro, per lasciar cose che restino in loro scambio, per supplire il posto che essi son per lasciare.
(Recanati. 12. Dic. 1826.)
Fare e dire ciò che lor occorre, così, senza pensarvi. Castiglione Cortegiano lib.2. ed. Ven. 1541. carta 69. ed. Ven. 1565. p.174.
Reperito as. V. Forcellini.
Cielo detto di camere, di carrozze ec. - Così in greco ?(???(?, ?(???(???? per volta ec. V. Casaubon. ad Athenae. V c.6., libro IV c.5. Aristot. l'usa per palato. Scapula.
[4233]Il tempo non è una cosa. Esso è uno accidente delle cose, e indipendentemente dalla esistenza delle cose è nulla; è uno accidente di questa esistenza; o piuttosto è una nostra idea, una parola. La durazione delle cose che sono, è il tempo: come 7200 battute di un pendolo da oriuolo sono un'ora; la quale ora però è un parto della nostra mente, e non esiste, nè da se medesima, nè nel tempo, come membro di esso, non più di quel che ella esistesse prima dell'invenzione dell'oriuolo. In somma l'esser del tempo non è altro che un modo, un lato, per dir così, del considerar che noi facciamo la esistenza delle cose che sono, o che possono o si suppongono poter essere. Medesimamente dello spazio. Il nulla non impedisce che una cosa che è, sia, stia, dimori. Dove nulla è, quivi niuno impedimento è che una cosa non vi stia o non vi venga. Però il nulla è necessariamente luogo. È dunque una proprietà del nulla l'esser luogo: proprietà negativa, giacchè anche l'esser di luogo è negativo puramente e non altro. Sicchè, come il tempo è un modo o un lato del considerar la esistenza delle cose, così lo spazio non è altro che un modo, un lato, del considerar che noi facciamo il nulla. Dove è nulla quivi è spazio, e il nulla senza spazio non si può dare. Per tanto è manifesto che eziandio fuori degli ultimissimi confini dell'universo esistente, v'è spazio, poichè nulla v'è. E se qualche cosa potesse essere o creata o spinta di là da quegli estremi confini, troverebbe luogo; che è quanto dire non troverebbe nulla che la impedisse di andarvi o di starvi. La conclusione si è che tempo e spazio non sono in sostanza altro che idee, anzi nomi. E quelle innumerabili e immense quistioni agitate dalla origine della metafisica in qua, dai primi metafisici d'ogni secolo, circa il tempo e lo spazio, non sono che logomachie, nate da malintesi, e da poca chiarezza d'idee e poca facoltà di analizzare il nostro intelletto, che è il solo luogo dove il tempo e lo spazio, come tante altre cose astratte, esistano indipendentemente e per se medesimi, e sian qualche cosa.
(Recanati. 14. Dic. 1826.)
[4234]??(?? cambiata in (??(?? nei primi secoli della nostra era. V. Maffei Arte magica annichilata, lib.3. cap.5. § .3 opp. ed. del Rubbi t.2. p.205.
Uso di porre il g avanti la n (come in cognosco, agnosco, agnatus, da nosco e natus), del quale in questi pensieri altrove. V. Maffei Appendice all'Arte magica annichilata, opp. ed. del Rubbi, vol.2. p.320.
Quanta fosse fin nel principio del secolo addietro la fama della letteratura italiana, e lo studio che vi mettevano gli stranieri si può conoscere anche da questo fatto, poco noto oggidì, che come nel fine di detto secolo si pubblicò in Ginevra il famoso Giornale della Bibliothèque britannique, espressamente per far conoscere e tenere al corrente l'Europa, dei progressi ec. della letteratura inglese, così nel principio di esso secolo, usciva a Ginevra altresì, un Giornale intitolato Bibliothèque italique, ou histoire littéraire de l'Italie, il quale aveva lo stesso scopo, rispetto all'Italia. Di tanto ancora era stimata degna la nostra letteratura. V. le opp. del Maffei ed. del Rubbi vol.4. p.7. segg. dove questo Giornale è chiamato un'opera che nacque in Francia con sommo credito, perchè composta da sette sapienti, e se ne citano gli estratti della Verona illustrata presi dal tomo 15. 16. e 17. di esso giornale; e il tomo 21. p.8. dove si cita l'anno 1728. del medesimo Giornale. V. p.4264. fin.
Alla p.4216. marg. Così il Maffei intitolò Storia diplomatica, o piuttosto, come voleva egli, Storia de' Diplomi (v. le sue opp. ed. del Rubbi, t.21. p.7. fin.), la sua opera contenente la scienza o notizia de' diplomi.
La poesia, quanto a' generi, non ha in sostanza che tre vere e grandi divisioni: lirico, epico e drammatico. Il lirico, primogenito di tutti; proprio di ogni nazione anche selvaggia; più nobile e più poetico d'ogni altro; vera e pura poesia in tutta la sua estensione; proprio d'ogni uomo anche incolto, che cerca di ricrearsi o di consolarsi col canto, e colle parole misurate in qualunque modo, e coll'armonia; espressione libera e schietta di qualunque affetto vivo e ben sentito dell'uomo. L'epico nacque dopo questo e da questo; non è in certo modo che un'amplificazione del lirico, o vogliam dire il genere lirico che tra gli altri suoi mezzi e subbietti ha assunta [4235]principalmente e scelta la narrazione, poeticamente modificata. Il poema epico si cantava anch'esso sulla lira o con musica, per le vie, al popolo, come i primi poemi lirici. Esso non è che un inno in onor degli eroi o delle nazioni o eserciti; solamente un inno prolungato. Però anch'esso è proprio d'ogni nazione anche incolta e selvaggia, massime se guerriera. E veggonsi i canti di selvaggi in gran parte, e quelli ancora de' bardi, partecipar tanto dell'epico e del lirico, che non si saprebbe a qual de' due generi attribuirli. Ma essi son veramente dell'uno e dell'altro insieme; sono inni lunghi e circostanziati, di materia guerriera per lo più; sono poemi epici indicanti il primordio, la prima natività dell'epica dalla lirica, individui del genere epico nascente, e separantesi, ma non separato ancora dal lirico. Il drammatico è ultimo dei tre generi, di tempo e di nobiltà . Esso non è un'ispirazione, ma un'invenzione; figlio della civiltà , non della natura; poesia per convenzione e per volontà degli autori suoi, più che per la essenza sua. La natura insegna, è vero, a contraffar la voce, le parole, i gesti, gli atti di qualche persona; e fa che tale imitazione, ben fatta, rechi piacere: ma essa non insegna a farla in dialogo, molto meno con regola e con misura, anzi n'esclude la misura affatto, n'esclude affatto l'armonia; giacchè il pregio e il diletto di tali imitazioni consiste tutto nella precisa rappresentazion della cosa imitata, di modo ch'ella sia posta sotto i sensi, e paia vederla o udirla. Il che anzi è amico della irregolarità e disarmonia, perchè appunto è amico della verità , che non è armonica. Oltre che la natura propone per lo più a tali imitazioni i soggetti più disusati, fuor di regola, le bizzarrie, i ridicoli, le stravaganze, i difetti. E tali imitazioni naturali poi, non sono mai d'un avvenimen...
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