[Pagina precedente]...si nomina, sia lodandoli, sia consigliandoli, sia in qualsivoglia discorso, la loro patria. È gran tempo che le città e le nazioni hanno cessato di esser le patrie dei principi. Esse sono i loro stati, o nativi o no che i principi sieno. Ciò è tanto vero che anche in Inghilterra, anche in Francia, dove, ed esiste una patria, ed i principi, vogliano o non vogliano, sono per li sudditi, e non i sudditi pel principe, pure nè essi nè altri parlando o scrivendo ad essi (e di raro anche, di essi), chiamano o l'Inghilterra o la Francia, loro patria. Si crederebbe abbassarli, offenderli, se si pronunziasse loro questo nome che mostra di avere una certa superiorità sopra di essi. I principi già da gran tempo si stimano, e da molti sono stimati essere, la patria essi medesimi. Distinguendoli dalla patria, si crederebbe oltraggiarli. Non così gli antichi. I Neroni e i Domiziani con nome falso, e di più superbo, ma che pur conservava l'idea della patria, s'intitolavano P. P. pater patriae (nelle medaglie, iscrizioni ec.). (Bologna 10. Maggio. 1826.).
[4180]Del digamma eolico vedi Casaubon. animadv. in Athenae. lib.2. cap.16.
Picus-picchio, da un piculus, e non dal picchiare come dice la Crusca e stimasi comunemente. V. i franc. spagn. ec.
Tre stati della gioventù: 1. speranza, forse il più affannoso di tutti: 2. disperazione furibonda e renitente: 3. disperazione rassegnata.
(Bologna. 3. Giugno. 1826.)
Che guadagno fa l'uomo perfezionandosi? Incorrere ogni giorno in nuovi patimenti (i bisogni non sono per lo più altro che patimenti) che prima non aveva, e poi trovarvi il rimedio, il quale senza il perfezionamento dell'uomo non saria stato necessario nè utile, perchè quei patimenti non avrebbero avuto luogo. Proccurarsi nuovi piaceri, forse più vivi che i naturali, non però altrettanto 1. comuni, 2. durevoli, 3. facili ad acquistarsi, anzi i più, difficilissimi, perchè, se non altro, esigono una studiatissima educazione, e una lunga formazione dell'animo, e per ciò stesso non possono esser comuni a tutti, anzi ristretti a certe classi solamente, ed alcuni a certi individui. Nel tempo stesso distruggere in se la facoltà di provare, almeno durevolmente, i piaceri naturali. Lo stato naturale dell'uomo ha veramente dei piaceri, facili, comuni a tutti, durevoli, che non sono men veri perciò che noi non li possiamo più sentire, e però non concepiamo come sieno piaceri. Il solo stato di quiete e d'inazione sì frequente e lungo nel selvaggio (insopportabile al civile) è certamente un piacere, non vivo, ma atto e sufficiente a riempiere una grande e forse massima parte della vita del selvaggio. Vedesi ciò anche negli altri animali. Vedesi (tra i domestici, e più a portata della nostra osservazione) nei cani, che se non sono turbati o forzati a muoversi, passano volentierissimo [4181]le ore intiere, sdraiati con gran placidezza e serenità di atti e di viso, sulle loro zampe. (Bologna. 3. Giugno. 1826.). Moltissimi patimenti poi, massime morali, che senza la civilizzazione non avrebbero luogo, quantunque abbiano il loro rimedio, proccurato dalla stessa civilizzazione, p.e. la filosofia pratica, è ben noto che sono senza comparazione più facili, più frequenti, più comuni essi, che l'applicazione effettiva e l'uso efficace di tali rimedi.
(Bologna. 3. Giugno. 1826.)
Alla p.4178. fine. L'ipotesi dell'eternità della materia non sarebbe un'obbiezione a queste proposizioni. L'eternità , il tempo, cose sulle quali tanto disputarono gli antichi, non sono, come hanno osservato i metafisici moderni, non altrimenti che lo spazio, altro che un'espressione di una nostra idea, relativa al modo di essere delle cose, e non già cose nè enti, come parvero stimare gli antichi, anzi i filosofi fino ai nostri giorni. La materia sarebbe eterna, e nulla perciò vi sarebbe d'infinito. Ciò non vorrebbe dire altro, se non che la materia, cosa finita, non avrebbe mai cominciato ad essere, nè mai lascerebbe di essere; che il finito è sempre stato e sempre sarà . Qui non vi avrebbe d'infinito che il tempo, il quale non è cosa alcuna, è nulla, e però la infinità del tempo non proverebbe nè l'esistenza nè la possibilità di enti infiniti, più di quel che lo provi la infinità del nulla, infinità che non esiste nè può esistere se non nella immaginazione o nel linguaggio, ma che è pure una qualità propria ed inseparabile dalla idea o dalla parola nulla, il quale pur non può essere se non nel pensiero o nella lingua, e quanto al pensiero o [4182]alla lingua.
(Bologna. 4. Giugno. 1826. Domenica.)
??????? - ????????. V. Casaubon. ad Athen. l.3. c.4. init.
Litterato per letterario. Petr. Tr. della Fama, cap.3. v.102. V. Crusca. Tasso opp. ed. del Mauro, tom.4. p.304. t.10. p.297. t.9. p.419.
Oreglia, origliare, origliere, per orecchia, orecchiare, orecchiere.
??????? (scriba) - greffier (se non viene da grief.).
Fallir la promessa. Petr. Tr. d. Divinità . v.4-5.
Senz'altra pompa, per senza niuna. ib. V. 120. V. anche Son. Il successor di Carlo, v.7. e Canz. Una donna più bella, st.3. v.12.
Mantua, Genua, Mantuanus ec. - Mantova, Genova, ec.
Vergheggiare. V. Crus. Vagheggiare.
Burchiellesco. Genere burchiellesco, Frottole, in uso anche tra i greci. Demetr. de elocut., sect.153. ????? ?? ??? ??? ? ???? ??? ?????????? ?????? ?? ? ??? ????????, ??? ??????? ?????? ?????? ?? ??? ????????? ??????? ?????? ???? ????????? ???? ? ???????????? ??? ? ???????????? ??? ??? ?????????, ??????, ?????????, ?????, ???? ???????? ??? ?, ??? ??? ?????????? ????????? ????????. sect. 154. ???? ??? ??? ?? ??? ????? ??????? ??????? ? ?????? ?? ??? ???? ?????????? ????? ????????, ???? ???? ????????? ???? ?????????? ? ?? ??????? ??????????? ???????? ??????? ????? ? ???? ??????? ????????? ???????? (????? ??? ????????? ???? ?????). ??? ???? ???????? ?? ? ???????? ??? ?????????. I versi di Aristofane sono i 53. 54. della scena 2. atto 1. delle Nubi, edit. Aureliae Allobrogum 1608. Gli Scoli antichi però, dà nno loro un senso, e gli spiegano come il resto. Simili ai commentatori della frottola del Petrarca. (Bologna. 5. Luglio. 1826.). Dei grifi v. Casaub. ad Athenae. indice delle materie.
[4183]Esempio curioso di costanza spartana mista di bêtise. Lacone dignum est apophthegma illius Spartani, qui in os iniecto per summam rerum imperitiam, echino (pesce) cum omnibus spinis, ? ??????, inquit, ??????, ???? ?? ??? ?? ???? ???????????, ???? ????? ??? ???????. O cibe impure, neque nunc ego te prae mollitie animi dimittam, neque iterum posthac sumam. (sono parole riferite da Ateneo.) Putavit homo durus suae constantiae interesse, ne vinci ab echini aculeis videretur. Casaub. ad Athenae. l.3. c.13.
(Bologna. 6. Luglio. 1826.).V. p.4206.
Il mangiar soli, ?? ??????????, era infame presso i greci e i latini, e stimato inhumanum, e il titolo di ????????? si dava ad alcuno per vituperio, come quello di ??????????, cioè di ladro. V. Casaub. ad Athenae. l.2. c.8. e gli Addenda a quel luogo. Io avrei meritata quest'infamia presso gli antichi. (Bologna. 6. Luglio. 1826.). Gli antichi però avevano ragione, perchè essi non conversavano insieme a tavola, se non dopo mangiato, e nel tempo del simposio propriamente detto, cioè della comessazione, ossia di una compotazione, usata da loro dopo il mangiare, come oggi dagl'inglesi, e accompagnata al più da uno spilluzzicare di qualche poco di cibo per destar la voglia del bere. Quello è il tempo in cui si avrebbe più allegria, più brio, più spirito, più buon umore, e più voglia di conversare e di ciarlare.270 Ma nel tempo delle vivande tacevano, o parlavano assai poco. Noi abbiamo dismesso l'uso naturalissimo e allegrissimo della compotazione, e parliamo mangiando. Ora io non posso mettermi nella testa che quell'unica ora [4184]del giorno in cui si ha la bocca impedita, in cui gli organi esteriori della favella hanno un'altra occupazione (occupazione interessantissima, e la quale importa moltissimo che sia fatta bene, perchè dalla buona digestione dipende in massima parte il ben essere, il buono stato corporale, e quindi anche mentale e morale dell'uomo, e la digestione non può esser buona se non e ben cominciata nella bocca, secondo il noto proverbio o aforismo medico), abbia da esser quell'ora appunto in cui più che mai si debba favellare; giacchè molti si trovano, che dando allo studio o al ritiro per qualunque causa tutto il resto del giorno, non conversano che a tavola, e sarebbero bien fachés di trovarsi soli e di tacere in quell'ora. Ma io che ho a cuore la buona digestione, non credo di essere inumano se in quell'ora voglio parlare meno che mai, e se però pranzo solo. Tanto più che voglio potere smaltire il mio cibo in bocca secondo il mio bisogno, e non secondo quello degli altri, che spesso divorano e non fanno altro che imboccare e ingoiare. Del che se il loro stomaco si contenta, non segue che il mio se ne debba contentare, come pur bisognerebbe, mangiando in compagnia, per non fare aspettare, e per osservar le bienséances che gli antichi non credo curassero troppo in questo caso; altra ragione per cui essi facevano molto bene a mangiare in compagnia, come io credo fare ottimamente a mangiar da me.
(Bologna. 6. Luglio. 1826.). V. p.4245. 4248. 4275.
[4185]La barbarie suppone un principio di civiltà , una civiltà incoata, imperfetta; anzi l'include. Lo stato selvaggio puro, non è punto barbaro. Le tribù selvagge d'America che si distruggono scambievolmente con guerre micidiali, e si spengono altresì da se medesime a forza di ebrietà , non fanno questo perchè sono selvagge, ma perchè hanno un principio di civiltà , una civiltà imperfettissima e rozzissima; perchè sono incominciate ad incivilire, insomma perchè sono barbare. Lo stato naturale non insegna questo, e non è il loro. I loro mali provengono da un principio di civiltà . Niente di peggio certamente, che una civiltà o incoata, o più che matura, degenerata, corrotta. L'una e l'altra sono stati barbari, ma nè l'una nè l'altra sono stato selvaggio puro e propriamente detto.
(Bologna. 7. Luglio. 1826.)
Pare affatto contraddittorio nel mio sistema sopra la felicità umana, il lodare io sì grandemente l'azione, l'attività , l'abbondanza della vita, e quindi preferire il costume e lo stato antico al moderno, e nel tempo stesso considerare come il più felice o il meno infelice di tutti i modi di vita, quello degli uomini i più stupidi, degli animali meno animali, ossia più poveri di vita, l'inazione e la infingardaggine dei selvaggi; insomma esaltare sopra tutti gli stati quello di somma vita, e quello di tanta morte quanta è compatibile coll'esistenza animale. Ma in vero queste due cose si accordano molto bene insieme, procedono da uno stesso principio, e ne sono conseguenze necessarie non meno l'una [4186]che l'altra. Riconosciuta la impossibilità tanto dell'esser felice, quanto del lasciar mai di desiderarlo sopra tutto, anzi unicamente; riconosciuta la necessaria tendenza della vita dell'anima ad un fine impossibile a conseguirsi; riconosciuto che l'infelicità dei viventi, universale e necessaria, non consiste in altro nè deriva da altro, che da questa tendenza, e dal non potere essa raggiungere il suo scopo; riconosciuto in ultimo che questa infelicità universale è tanto maggiore in ciascuna specie o individuo animale, quanto la detta tendenza è più sentita; resta che il sommo possibile della felicità , ossia il minor grado possibile d'infelicità , consista nel minor possibile sentimento di detta tendenza. Le specie e gl'individui animali meno sensibili, men vivi per natura loro, hanno il minor grado possibile di tal sentimento. Gli stati di animo meno sviluppato, e quindi di minor vita dell'animo, sono i meno sensibili, e quindi i meno infelici degli stati umani. Tale è quello del primitivo o selvaggio. Ecco perchè io preferisco lo stato selvaggio al civile. Ma incominciato ed arrivato fino a un certo segno lo sviluppo dell'animo, è impossibile il farlo tornare indietro, impossibile, tanto n...
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