[Pagina precedente]...olato e perfetto, e in mancanza di questo serviva l'ionico, come il più divulgato perchè proprio della nazione più commerciante? O finalmente Empedocle scelse l'ionico per imitare e seguire Omero? Molto probabile. In Pindaro e in altri lirici del suo o di simil genere, la mescolanza de' dialetti non fa maraviglia. Essa è licenza piuttosto che istituto (??????????); e questa licenza è naturale in quel genere licenziosissimo in ogni altra cosa, come stile, immagini, concetti, transizioni, sentenze ec.
Questa mia sentenza che il creduto moltiplice dialetto di Omero, non fosse che il greco comune di allora, o non fosse che un dialetto solo al quale appartenessero tutte quelle proprietà che ora a molti e diversi si attribuiscono, credo che sia sentenza già sostenuta e [3047]anche generalmente ricevuta oggidì appresso gli eruditi stranieri.
(26. Luglio 1823. dì di S. Anna.)
La forza, l'originalità , l'abbondanza, la sublimità , ed anche la nobiltà dello stile possono, certo in gran parte, venire dalla natura, dall'ingegno dall'educazione, o col favore di queste acquistarsene in breve l'abito, ed acquistato, senza grandissima fatica metterlo in opera. La chiarezza e (massime a' dì nostri) la semplicità (intendo quella ch'è quasi uno colla naturalezza e il contrario dell'affettazione sensibile, di qualunque genere ella sia, ed in qualsivoglia materia e stile e composizione, come ho spiegato altrove), la chiarezza e la semplicità (e quindi eziandio la grazia che senza di queste non può stare, e che in esse per gran parte e ben sovente consiste), la chiarezza, dico, e la semplicità , quei pregi fondamentali d'ogni qualunque scrittura, quelle qualità indispensabili anzi di primissima necessità , senza cui gli altri pregi a nulla valgono, e colle quali niuna scrittura, benchè niun'altra dote abbia, è mai dispregevole, sono tutta e per tutto opera dono ed effetto dell'arte. [3048]Le qualità dove l'arte dee meno apparire, che paiono le più naturali, che debbono infatti parere le più spontanee, che paiono le più facili, che debbono altresì parer conseguite con somma facilità , l'una delle quali si può dir che appunto consista nel nascondere intieramente l'arte, e nella niuna apparenza d'artifizioso e di travagliato; esse sono appunto le figlie dell'arte sola, quelle che non si conseguono mai se non collo studio, le più difficili ad acquistarne l'abito, le ultime che si conseguiscano, e tali che acquistatone l'abito, non si può tuttavia mai senza grandissima fatica metterlo in atto. Ogni minima negligenza dello scrittore nel comporre, toglie al suo scrivere, in quanto ella si estende, la semplicità e la chiarezza, perchè queste non sono mai altro che il frutto dell'arte, siccome abituale, così ancora attuale; perchè la natura non le insegna mai, non le dona ad alcuno; perchè non è possibile ch'elle vengano mai da se, chi non le cerca, nè che veruna parte [3049]di veruna scrittura riesca mai chiara nè semplice per altro che per espresso artifizio e diligenza posta dallo scrittore a farla riuscir tale. E togliendo immancabilmente la chiarezza e la semplicità , ogni minima negligenza dello scrittore inevitabilmente danneggia, e in quella tal parte distrugge sì la bellezza sì la bontà di qualsivoglia scrittura. Perocchè la semplicità e la chiarezza sono parti così fondamentali ed essenziali della bellezza e bontà degli scritti, ch'elle debbono esser continue, nè mai per niuna ragione (se non per ischerzo o cosa tale) elle non debbono essere intermesse, nè mancare a veruna, benchè piccola, parte del componimento. La forza, la sublimità , l'abbondanza o la brevità e rapidità , lo splendore, la nobiltà medesima, si possono, anzi ben sovente si debbono intermettere nella scrittura; elle possono, anzi debbono avere quando il più quando il meno, sì dentro una medesima, come in diverse composizioni e generi; elle possono esser differenti da se medesime, secondo le scritture, e le parti e circostanze [3050]e occasioni di queste, anzi elle nè deggiono nè possono altrimenti. Ma la chiarezza e la semplicità non denno aver mai nè il più nè il meno; in qualsivoglia genere di scrittura, in qualsivoglia stile, in qualsivoglia parte di qualsiasi componimento, elle, non solo non hanno a mancar mai pur un attimo, ma denno sempre e dovunque e appresso ogni scrittore esser le medesime in quanto a se (benchè con diversi mezzi si possono proccurare, e dar loro diversi aspetti e diverse circostanze), sempre della medesima quantità , per così dire, e sempre uguali a se stesse nell'esser di chiarezza e semplicità , e nell'intensione di questo essere.
(26. Luglio. 1823. dì di Sant'Anna.)
È ben difficile scrivere in fretta con chiarezza e semplicità ; più difficile che con efficacia veemenza, copia, ed anche con magnificenza di stile. Nondimeno la fretta può stare colla diligenza. La semplicità e chiarezza se può star colla fretta, non può certo star colla negligenza. È bellissima nelle scritture un'apparenza di trascuratezza, di sprezzatura, un abbandono, una quasi noncuranza. [3051]Questa è una delle specie della semplicità . Anzi la semplicità più o meno è sempre un'apparenza di sprezzatura (benchè per le diverse qualità ch'ella può avere, non sempre ella produca nel lettore il sentimento di questa sprezzatura come principale e caratteristico) perocch'ella sempre consiste nel nascondere affatto l'arte, la fatica, e la ricercatezza. Ma la detta apparenza non nasce mai dalla vera trascuratezza, anzi per lo contrario da moltissima e continua cura e artifizio e studio. Quando la negligenza è vera, il senso che si prova nel legger lo scritto, è quello dello stento, della fatica, dell'arte, della ricercatezza, della difficoltà . Perocchè la facilità che si dee sentir nelle scritture è la qualità più difficile ad esser loro comunicata. Nè senza stento grandissimo si consegue nè l'abito nè l'atto di comunicarla loro.
(27. Luglio. 1823.)
Voce non esistente nel latino scritto, comune però alle tre lingue figlie. Speranza, espérance, esperança, cioè sperantia, verbale di [3052]spero, fatto secondo l'uso del buon latino, come constantia, instantia, redundantia ec.
(27. Luglio. 1823.)
Alla p.3040. Qua io credo che si debba riferire il verbo posare (francese poser onde déposer, opposer, supposer, composer, apposer, disposer, exposer, proposer, imposer ec. ec.) in quanto ei significa por giù, deporre, con tutti i suoi derivati ec. in questo senso. Che riposare e posare per quiescere vengano da pausa pausare ec. (e così il franc. reposer ec.) l'ho detto in altro luogo, lo dimostra l'uso del verbo pausare ec. ec. nel Glossar. Cang. e va bene. Ma che posare, poser, déposer per deporre, vengano da pausare, non da ponere, e non siano quindi affatto diversi da posare ec. per quiescere, benchè suonino allo stesso modo; non posso in alcun modo persuadermelo, benchè trovi nel Gloss. un esempio dove pausare sta per deporre. Io credo che sia sbaglio di copista (o dello stesso autore, ignorante, come tutti allora erano, della lingua stessa barbara) che ha scritto l'au per l'o, sillabe solite a confondersi, massime ne' bassi tempi, e massime avendovi un altro verbo similissimo, cioè pausare [3053]per riposare, a cui l'au veramente conveniva. Posare per deporre dee certo venire da positus, contratto in posus, come visitus-visus, pinsitus-pinsus, pisitus-pisus, onde viser, pisare. Da positus non contratto, viene depositare e lo spagn. depositar, di cui pure ho parlato altrove. Aggiungete che poser in francese non vale bene spesso altro che propriamente porre, e non ha nientissimo a far con riposare o reposer, se non in quanto quest'ultimo talvolta significa residere, far la posa, e in questo senso egli è un altro verbo, e viene altresì da ponere. Da postus viene appostare ital. apostar spagn. impostare italiano moderno tecnico.
(27. Luglio. 1823.). V. p.3058.
Pausare poi potrà venir da pausa, la qual voce viene da ????. Ma potrebbe anche (insieme con posare, cioè quiescere, reposare, reposer ec.) essere un vero continuativo fatto da un pausus participio di pauo o pavo o simil verbo pari al sopraddetto verbo greco. V. Forcell. e quello che altrove ho detto di tali voci in un pensiero separato, e il Glossar.
(27. Luglio. 1823.)
[3054]A proposito di quel che ho detto nel principio del mio discorso sui continuativi circa exspectare esperar ec. vedi il Gloss. Cang. in Sperare 3, e 5.
(27. Luglio. 1823.)
Crystallus da ?????????? gelo. La stessa metafora adoperata da' latini e greci per significare il cristallo naturale, adoprasi da' francesi per l'artifiziale. Glace, lastra di cristallo fattizio.
(27. Luglio. 1823.)
Alla p.3040. fine. Questi tali diminutivi comuni a tutte tre le lingue figlie dimostrano che l'uso di essi in luogo e significato de' positivi viene dal latino, massime che anche nel buon latino si trovano molti diminutivi usati in luogo de' positt. disusati o perduti o meno usati, ovvero indifferentemente dai positivi ec. ec. ec. I quali fanno ben probabile che il volgo o il sermon familiare latino usasse nel modo stesso anche que' diminutivi positivati che oggi s'usano o in tutte 3. le lingue figlie, o in alcuna di loro ec. da noi in parte annoverati ec. ec. ec.
Al qual proposito si osservi la voce fabula fabella ec. onde fabulo as, fabulor aris, e favella, favellare ec. come ho largamente detto altrove. Ch'ella venga da fari lo credo, ma parmi eziandio chiaro ch'ella è un diminutivo d'altra voce. E tanto più che non si dice fabulella, ma fabella, altro diminutivo, che non vien da fabula, ma pare che insieme con questo dimostri un terzo [3055]e positivo nome, del quale ambedue sieno diminutivi.50 Questo positivo è ignoto nel latino. Non vi si usano che i detti diminutivi, col verbo diminutivo fabulo ec. Ma noi abbiamo la voce fiaba che significa appunto favola, e che poi fu applicato particolarmente a certe stravaganti composizioni teatrali, come anche fabula in latino fu applicato a significare i drammi in senso non diminutivo ma positivo. Dubito forte che questo fiaba sia voce antichissima nel latino, perduta nello scritto, conservata nel volgare fino a noi.
(27. Luglio. 1823.)
Come pedantescamente l'ortografia francese sia modellata, anzi servilmente copiata dalla latina si può osservar nell'uso dell'h che in parole o sillabe affatto compagne di pronunzia, e di suono, non hanno l'h se in latino (o in greco ec.) non l'avevano, se l'avevano l'hanno anche in francese. Come in Christ-cristal, technique, théologie, homme-omettre ec. Così dite del ph, dell'y ec. Cosa veramente pedantesca e infilosofica [3056]che parole nazionali, usualissime, volgarissime s'abbiano da scrivere non come la nazione le pronunzia, ma come le scrivevano quelli dalle cui lingue esse vennero, i quali così le scrivevano perchè così le pronunziavano, giacchè anche i latini pronunziavano p.e. l'y come u gallico, ec. (sebbene anch'essi da' tempi di Cicerone in poi peccarono un poco nella servile imitazione della scrittura greca circa le parole venute o nuovamente prese dal greco. E vedi Desbillons ad Phaedr. Manheim 1786. p. LXVIII.). Che se le voci naturalizzate in una lingua, e mutate affatto dal loro primo stato per la pronunzia della nazione, s'avessero sempre a scrivere nel modo in cui le scrivevano o le scrivono quei popoli, ancorchè lontanissimi e diversissimi, onde a noi vennero, e se la scrittura originale s'avesse sempre a conservare in ciascuna voce, cangiata o non cangiata dal tempo, dal luogo, e dalla diversa nazione e lingua, e se il pregio di un'ortografia consistesse nel conservare le forme originali di ciascuna voce per forestiera ch'ella fosse, non so perchè le voci venute dal greco non si debbano scrivere con lettere greche, e l'ebraiche e le arabiche con lettere e punti ebraici ed arabici, e le tedesche con lettere tedesche. Giacchè usando diverso alfabeto, la scrittura originale si può imitare, ma non perfettamente conservare. E così dovremmo imparare e usare cento alfabeti per saper leggere e scriver...
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