[Pagina precedente]... da quelle di un'altra; quelle di un secolo da quelle di un altro, per varietà di circostanze fisiche naturali o provenienti dall'uomo stesso; e (per non andar fino alle famiglie e agl'individui) è cosa osservata e naturale che gli uomini dediti alle varie professioni materiali (senza parlar delle morali, che influiscono sulla fisonomia, dei caratteri e costumi acquisiti, [3091]che pur sommamente v'influiscono, e la diversificano in uno stesso individuo in diversi tempi) ricevono dall'esercizio di quelle professioni certe differenze di forme, ciascuno secondo la qualità del mestiere ch'esercita e secondo le parti del corpo che in esso mestiere più s'adoprano o più restano inoperose, così notabili che l'attento osservatore, e in molti casi senza grande osservazione, può facilmente riconoscere il mestiere di una tal persona sconosciuta ch'ei vegga per la prima volta, solamente notando certe particolarità delle sue forme. Così si può riconoscere l'agricoltore, il legnaiuolo, il calzolaio, anche senz'altre circostanze che lo scuoprano.
Qual è dunque la vera forma umana? Ed essendo diversissime e in parte contrarissime le qualità che di essa si osservano in intere nazioni, classi ec. di persone, benchè generalmente e regolarmente comuni in quella tal classe; come si può determinare esattamente essa forma secondo i capi delle qualità regolari e delle parti che regolarmente la compongono? E non potendosi determinare la forma umana [3092]regolare e perfetta, perocch'ella regolarmente per intere classi, nazioni e secoli si diversifica, come si potrà determinare la bellezza della medesima? Quando appena si troverà una qualità che la possa comporre, la quale non manchi o non sia mancata regolarmente ad intere classi e generazioni d'uomini, o non sia stata anzi tutto l'opposto? Che cosa è dunque questo tipo di bellezza ideale, universalmente riconosciuto, eterno, invariabile? quando neppure intorno alla nostra propria forma visibile, se ne può immaginar uno che sia riconosciuto per tale da tutti gli uomini, in tutti i tempi, o che non possa, o non abbia potuto non esserlo? quando esso non si trova neppur nella natura? dove dunque si troverà , o dove s'immaginerà , o donde si caverà egli?
Perocchè egli è certo che se taluno fosse (come certo furono e sono molti), il quale non avesse mai veduto altra forma d'uomini che l'una di quelle tali sopraddette, propria di una cotal nazione, o classe, o schiatta ec. ec. [3093]l'idea ch'egli si formerebbe della bellezza umana visibile, non uscirebbe delle proporzioni e delle qualità ch'egli avrebbe osservate in quella tal forma, e sarebbe lontanissima, e talvolta contrarissima, all'idea che si formerebbe un altro che si trovasse nella stessa circostanza rispetto a un'altra maniera di forme. Al quale la bellezza immaginata e riconosciuta da quel primo, parrebbe vera bruttezza, o composta di qualità ch'egli, se non altro, in parte, giudicherebbe onninamente brutte e sconvenienti, perchè diverse o contrarie a quelle ch'egli sarebbe assuefatto a vedere. Un agricoltore il quale non avesse mai veduto forme cittadine, crediamo noi che si formerebbe della bellezza un'idea conforme o simile a quella de' cittadini? anzi non contraria affatto in molte parti essenziali? Un popolo di calzolai concepirebbe la bella forma dell'uomo tozzotta, di spalle larghe e grosse, gambe sottili e ripiegate all'indentro, braccia quasi più grosse delle gambe ec.
[3094]Tutto ciò spetta a quello che nelle forme umane dipende dalla natura largamente presa, cioè dalle cause fisiche ec. Di quello poi che dipende dalle usanze che dovrà dirsi? pareva impossibile nel 16° secolo, secolo di squisito gusto, al Cellini, finissimo conoscitore del bello, di dar grazia e bell'aria al ritratto del Bembo (ch'egli aveva a fare in una medaglia), perchè il Bembo non portava barba. E il Bembo si fece crescer la barba per farsi ritrarre dal Cellini, e che il ritratto facesse bella vista essendo barbato, e così fu fatto. Che ne sarebbe parso a un artista de' nostri tempi? Molte cose si posson dire delle varie opinioni ec. di varie nazioni e tempi sopra l'uso della barba (ch'è pur cosa naturale), relativamente al bello. Così de' capelli e delle così diverse e contrarie pettinature, o tosature (totali o in parte) tenute per belle o per brutte in diverse età da una stessa nazione, in diverse nazioni ec. Eppure anche intorno ai capelli v'è la pettinatura naturale ec. ec.
(5. Agosto. 1823.)
[3095]Futuri del congiuntivo usati da' latini in vece di quelli dell'indicativo, del che altrove. Odero, meminero, credo anche coepero, novero. Forse ero coi composti potero, subero ec. furono originariamente futuri del congiuntivo.
(5. Agosto. 1823.)
Riprendono nell'Iliade la poca unità , l'interesse principale che i lettori prendono per Ettore, il doppio Eroe (Ettore ed Achille), e conchiudono che se Omero nelle parti è superiore agli altri poeti, nel tutto però preso insieme, nella condotta del poema, nella regolarità è inferiore agli altri epici, particolarmente a Virgilio. Certo se potessero esser vere regole di poesia quelle che si oppongono al buono e grande effetto della medesima e alla natura dell'uomo, io non disconverrei da queste sentenze. In proposito delle cose contenute nel séguito di questo pensiero, vedi la pag.470. capoverso 2.
Omero fu certamente anteriore alle regole del poema epico. Anzi esse da' suoi poemi furono cavate. Considerandole dunque come cavate e dedotte da' suoi poemi, e fondate sull'autorità di Omero, e principalmente dell'Iliade, dico che [3096]chi ne le trasse, prese abbaglio, e che d'allora in poi fino al dì d'oggi, s'ingannarono e s'ingannano tutti quelli che le seguirono o le sostennero, o le seguono o sostengono (ciò sono tutti i litteratores) come appoggiate sull'esempio di Omero: perchè quest'esempio non sussiste, e dalla forma della Iliade non nascevano e non si potevano cavar quelle regole. Considerandole poi come indipendenti da Omero, come sussistenti da se, e supponendo (il che non è vero) ch'elle sieno il parto della ragione e della specolazione assoluta, dico senza tergiversazione che Omero, siccome non le conobbe, così neanche le seguì, ma seguendo la natura, molto miglior maestra delle Poetiche e de' Dottori di Scuola e delle teorie, s'allontanò effettivamente da esse regole; ed aggiungo che queste sono errate da chiunque le immaginò, perchè incompatibili colla natura dell'uomo, perchè seguendole, il poema epico non può produrre il grande e forte e bello effetto ch'ei deve, o per lo meno [3097]non può produrre il maggiore e migliore effetto che gli sia d'altronde e in se stesso possibile; e che per conseguenza esse regole sono cattive e false.
Nelle Iliade pertanto non v'è unità . Due sono realissimamente gli Eroi, Ettore e Achille. Due gl'interessi e diversi l'uno dall'altro: l'uno pel primo di questi Eroi e per la sua causa, l'altro pel secondo e per la causa de' greci. Interessi affatto contrarii che Omero volle espressamente destare e desta, volle alimentare e mantenere continuamente vivi ne' suoi lettori, e l'ottiene; volle far ciò dell'uno e dell'altro interesse ugualmente e come di compagnia, e così fece.
È proprio degli uomini l'ammirar la fortuna e il buon successo delle intraprese, l'essere strascinati da questo e da quella alla lode, e per lo contrario dalla mala sorte e dal tristo esito al biasimo, l'esaltare chi ottenne quel che cercò, il deprimere chi non l'ottenne, lo stimar colui superiore al generale, costui uguale o inferiore, [3098]il credersi minor di quello e da lui superato, maggior di questo od uguale; in somma il distribuir la gloria secondo la fortuna. Questa proprietà degli uomini di tutti i tempi avea maggior luogo che mai negli antichi. L'esser fortunato era la somma lode appo loro. (V. fra l'altre la p.3072. fine e p.3342.) E ciò per varie cagioni. Primieramente la fortuna non si stimava mai disgiunta dal merito, per modo ch'eziandio non conoscendo il merito, ma conoscendo la fortuna d'alcuno, si reputava aver bastante argomento per crederlo meritevole. Come negli stati liberi pochi avanzamenti si possono ottenere senz'alcuna sorta di merito reale, e come gli antichissimi popoli nella distribuzione degli onori, delle dignità , delle cariche, dei premi, avevano ordinariamente riguardo al merito sopra ogni altra cosa, così e conseguentemente stimavano che gli Dei non compartissero i loro favori, che la fortuna non si facesse amica, se non di quelli che n'erano degni: talmente che anche i doni naturali come la bellezza e la forza si stimavano compagni [3099]ed indizi de' pregi dell'animo e de' costumi, e la stessa ricchezza o nobiltà e l'altre felicità della nascita cadevano sotto questa categoria. Secondariamente, non supponendo gli antichi maggiori beni che quelli di questa vita, fino a credere che i morti, anche posti nell'Elisio, s'interessassero più della terra che dell'Averno, e che gli Dei fossero più solleciti delle cose terrene che delle celesti, ne seguiva che considerassero la felicità come principalissima parte di lode, perocchè il merito infelice come può giovare a se o agli altri? e come può parer buono e grande quello ch'è inutile? e se il merito era infelice, come poteva risplendere? e non risplendendo e non giovando in questa terra e per questa vita, dove, secondo le antiche opinioni, avrebbe acquistato luce e splendore? dove e a che cosa avrebbe giovato?
Era dunque la felicità , principale ed essenzial cagione e parte di lode e di stima e di ammirazione e di gloria presso gli antichi, ancor [3100]più che presso i moderni; e massimamente appo gli antichissimi. Perocchè insomma ella è cosa naturale il pregiar sopra tutto la felicità , laonde egli è ben ragionevole ch'ella tanto più sia pregiata quanto i costumi, le opinioni e la vita degli uomini sono più vicini e conformi alla natura, quali erano in fatti nella più remota antichità . Omero dunque pigliando a esaltare un Eroe ed una nazione, e togliendoli per soggetto del suo canto e della sua lode, e facendo materia del suo poema l'elogio loro, si sarebbe fatto coscienza di sceglierli o di fingerli sfortunati, e tali che non avessero conseguito l'intento di quella impresa di ch'egli prendeva a cantare. Egli doveva dunque pigliare un Eroe fortunato.
E tanto più quanto questo Eroe era un guerriero, e i suoi pregi eroici il coraggio e valor dell'animo, e l'impresa una guerra. Perocchè se ne' tempi moderni eziandio, poca o nulla è la gloria del vinto, e la lode di quella guerra [3101]che non è terminata dalla vittoria, molto più si deve stimare che così fosse appo gli antichi. Fra' quali effettivamente l'esser vinto si teneva per ignominia, e il vincere in qualsivoglia modo era gloria, non si considerando allora gran fatto altra giustizia che quella dell'armi, altro diritto che della forza. Oltre che volendo Omero nel suo poema (siccome poi vollero gli altri epici) adombrar quasi un modello o un tipo di uomo superiore al generale e maraviglioso, e scegliendo per tale effetto un guerriero, come poteva egli farlo superiore agli altri uomini e singolarmente mirabile per le virtù proprie della sua professione, s'ei non l'avesse fatto vittorioso? anzi tale che niuno gli potesse resistere? Come poteva egli fare che questo Eroe fosse vinto, cioè superato dagli altri in quelle virtù e qualità per le quali egli intendeva di mostrarlo a tutti superiore e fra tutti unico, affine di produrre la maraviglia, ed eseguire [3102]quel tipo di compiuto guerriero ch'ei si proponeva? Non è della guerra come d'altre molte imprese che possono venir fallite e mancare del loro intento a cagione di ostacoli insuperabili all'uomo e di forze superiori alle umane. Ma la guerra è dell'uomo coll'uomo, e quindi è forza il far vincitore colui che si vuol far superiore agli altri uomini e singolare nella sua specie per le virtù guerriere. Chi cede nella guerra, cede all'uomo, cosa che oggidì potrà essere scusata ma di rado lodata; fra gli antichissimi non che lodata, era pur di rado scusata...
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