[Pagina precedente]...]della Gerusalemme furono anche più che nazionali, e quindi anche più degni; e furono attissimi ad interessare. Dico più che nazionali, perchè non appartennero a una nazione sola, ma a molte ridotte in una da una medesima opinione, da un medesimo spirito, da una medesima professione, da un medesimo interesse circa quello che fu il soggetto del Goffredo. Dico tanto più degni, perchè essendo d'interesse più generale, rendevano il poema più che nazionale, senza però renderlo d'interesse universale, il che, trattandosi di quello interesse di cui ora discorriamo, tanto sarebbe a dire quanto di niuno interesse. Dico attissimi a interessare perchè quantunque fosse spento in quel secolo il fervore delle Crociate, durava però ancora generalmente ne' Cristiani uno spirito di sensibile odio contro i Turchi, quasi contro nemici della propria lor professione, perchè in quel tempo i Cristiani, ancorchè corrottissimi ne' costumi e divisi tra loro nella fede, consideravano per anche la fede Cristiana [3128]come cosa propria, e i nemici di lei come propri nemici ciascuno; e quindi non solo con odio spirituale e per amor di Dio, ma con odio umano, con passione per così dir, carnale e sensibile, per proprio rispetto, e per inclinazione odiavano i maomettani non che il maomettanesimo. E la liberazione del sepolcro di Cristo era cosa di che allora tutti s'interessavano, siccome in questi ultimi tempi, della distruzione della pirateria Tunisina e Algerina, benchè questa e quella fossero più nel desiderio che nella speranza, o certo più desiderate che probabili: aggiunta però di più la differenza de' tempi, perocchè nel cinquecento le inclinazioni e le opinioni e i desiderii pubblici erano molto più manifesti, decisi, vivi, forti e costanti ch'e' non possono essere in questo secolo. Siccome nel 300 il Petrarca (Canz. O aspettata), così nel 500 tutti gli uomini dotti esercitavano il loro ingegno nell'esortare o con orazioni o con lettere o con poesie pubblicate per le stampe, le nazioni e i principi d'Europa [3129]a deporre le differenze scambievoli e collegarsi insieme per liberar da' cani59 il Sepolcro, e distruggere il nemico de' Cristiani, e vendicar le ingiurie e i danni ricevutine. Questo era in quel secolo il voto generale così delle persone colte ancorchè non dotte, come ancora, se non de' gabinetti, certo di tutti i privati politici, che in quel secolo di molta libertà della voce e della stampa, massimamente in Italia, non eran pochi;60 e di questo voto si faceva continuamente materia alle scritture e allusioni digressioni ec. e di quel progetto o sogno che vogliam dire si riscaldava l'immaginazione de' poeti e de' prosatori, e se ne traeva l'ispirazione dello scrivere. Niente meno che fosse nell'ultimo secolo della libertà della Grecia fino ad Alessandro, il desiderio, il voto, il progetto di tutti i savi greci la concordia di quelle repubbliche, l'alleanza loro e la guerra contro il gran re, e contro il barbaro impero persiano perpetuo nemico del nome greco. E come Isocrate [3130]per conseguir questo fine s'indirizzava colle sue studiatissime ed epidittiche, scritte e non recitate orazioni ora agli Ateniesi (nel Panegirico, e v. l'Oraz. a Filippo, ediz. sopra cit. p.260-1.) ora a Filippo, secondo ch'ei giudicava questo o quelli più capaci di volerlo ascoltare, e più atti a concordare e pacificar la Grecia e capitanarla contro i Barbari, così nel 500. lo Speroni s'indirizzava pel detto effetto con una lavoratissima orazione stampata e non recitata nè da recitarsi, a Filippo II di Spagna, ed altri ad altri, secondo i tempi e le occasioni. Ma tutto indarno, non come accadde ai greci, il cui voto fu adempiuto da Alessandro, mosso fra l'altre cose, come è fama (v. Eliano Var. l.13. e ??????? ??? ???? ?????? ?????), dall'orazione appunto che Isocrate n'avea scritto a Filippo suo padre, l'uno e l'altro già morti.
Or considerate queste circostanze si trova veramente savissima, opportunissima, nobilissima la scelta fatta dal Tasso, e degna di quel grand'animo, che seppe concepire nientemeno [3131]che un poema europeo (qual fu il Goffredo non meno per l'argomento che per gli altri pregi), dove la generalità dell'interesse non pregiudicasse (ch'è pur sì difficile e raro) alla vivacità e forza del medesimo.61 E in vero se dalla estensione dell'interesse si deve misurare, almeno in qualche parte, il pregio d'un poema, anzi d'ogni scrittura, niun poema epico in questa parte nè vinse nè agguagliò la Gerusalemme; siccome ancora, secondo le opinioni di que' tempi, ne' quali ci dobbiamo riporre coll'intelletto, niun poeta epico si propose mai scopo più nobile nè più degno nè più magnanimo che il Tasso, il quale intese col suo poema di contribuir più che tutti gli altri scrittori insieme, ad eccitare i principi Cristiani a quella sacra e generosa guerra ec. coll'esempio e la lode di quelli che l'avevano intrapresa e valorosamente operata e felicemente terminata. (Puoi vedere per meglio conoscere le opinioni e i sentimenti [3132]dell'Europa cristiana verso l'impero turco nel 500, la B. G. del Fabricio, t.13., p.500-6.)62
Molto ragionevolmente adunque i sopraddetti poeti (per non parlare degli altri, come di Voltaire e di Ercilla autore dell'Araucana, e del Trissino ec.) scelsero ai loro poemi argomento nazionale, senza la qual circostanza (largamente però intendendo la parola nazionale, come p.e. circa la Gerusalemme) è assolutamente impossibile dare alcuno interesse a un poema epico che abbia e serbi la unità , com'ella oggi s'intende. Ed è perciò ben poco lodevole l'assunto di quel moderno che volle dare all'Italia una nuova Gerusalemme. (Arici, Gerusal. distrutta).
Ma l'interesse che nasce dalla virtù felice è, come ho detto, sempre debole anche in un soggetto nazionale, e soffre moltissimi inconvenienti, massime in tempi così diversi da quelli di Omero, come sono i moderni, e come furono quei di Virgilio che in molte parti si rassomigliano ai presenti.
1. Tutte quelle speciali circostanze che ne' tempi antichissimi rendevano singolarmente pregevole [3133]la felicità , e cagione di stima per se medesima, perirono ben tosto, ed altre contrarie ne sottentrarono che produssero e producono contrario effetto, e sempre lo produrranno, perchè queste seconde circostanze non sono per passar mai.
2. È così falso,63 o per lo meno straordinario, che la virtù sia compagna della fortuna, che un virtuoso fortunato, un meritevole che ottiene il suo merito (e tanto più s'egli è straordinariamente meritevole, se la sua virtù è veramente singolare, il che oggi sommamente nuoce) eccede quasi quel grado di singolarità e rarità che è compatibile colla credibilità , colla illusione, coll'immedesimarsi che dee fare il lettore ne' casi e ne' personaggi narrati dal poeta, con quella cotal somiglianza che il lettore dee pur trovare tra quei casi e i presenti, tra quelle persone e se stesso; deve, dico, trovarla per qualche parte, a voler ch'ei ci provi interesse. Di questo inconveniente ho già detto di sopra.64 Esso ancora non è mai per passare, anzi cresce e crescerà , si conferma e confermerassi ogni dì maggiormente.
[3134]3. E ciò tanto più, quanto l'idea che noi abbiamo della virtù è ben diversa da quella che s'aveva a' tempi d'Omero. La virtù qual suol essere concepita dai moderni ha la fortuna assai più nemica, che non quella virtù concepita dagli antichissimi, la quale consisteva quasi tutta o principalmente nella forza e nel coraggio; qualità che, se non sempre, certo assai spesso son seguite (anche oggidì) dalla fortuna, e molto giovano a conseguirla. Ond'era tanto più ragionevole e conveniente che a quei tempi l'eroe del poema epico, il quale dev'esser sommamente virtuoso, si scegliesse felice, perchè quella virtù in ch'ei si doveva rappresentare eccellente, conduce infatti alla felicità , e il mostrar ch'ella non avesse conseguito il proprio intento, l'avrebbe mostrata imperfetta, come quella che non era bastata a produrre quel ch'ella suole, e a che ella naturalmente serve e conduce. Massime che gli uomini sogliono giudicar dai successi, [3135]ed estimare assolutamente la natura, le qualità , il grado, il valore e la propria bontà delle cose dai loro effetti. Ma la virtù modernamente considerata, è per sua stessa natura, non solo non conducente, ma pregiudizievole alla fortuna. Questo discorso ha massimamente luogo ne' tempi più moderni, in che l'idee morali, e per cagione del Cristianesimo e per altro, sono più raffinate, e sempre più tanto si raffinano quanto più divengono inutili, e tanto si perfezionano e sottilizzano in teoria, quanto si vanno segregando affatto dalla pratica. Ma proporzionatamente le dette considerazioni sono anche applicabilissime ai tempi di Virgilio; e in fatti la virtù di Enea è immensamente diversa da quella di Achille, e il tipo di perfetto eroe concepito e voluto esprimere da Virgilio fu diversissimo, e in buona parte contrario, a quello di Omero.
4. Oggi l'amor patrio e nazionale è quasi nullo. Anche ne' romani al tempo di [3136]Virgilio esso era abbastanza raffreddato perchè quasi niun di loro considerasse più la sua patria come cosa individualmente sua propria. Il che appunto facevano i più antichi, e come questo cagionava l'entusiasmo che ciascun d'essi manifestava nell'operare per la patria, così produceva il grande interesse che ciascuno pigliava alle glorie d'essa patria cantate dai poeti. Questo spirito non si trovava più ne' Romani, e però non potè essere se non mediocre in esso loro l'interesse verso le vittorie e le lodi di remotissimi loro antenati, che oltracciò portarono un nome diverso dal loro. (troiani). Omero cantò ai greci liberi, e Virgilio ai Romani, dopo lunghissima e ferocissima libertà fatti sudditi, e di più pacificamente tiranneggiati, perchè quello fu quasi il più pacifico tempo dell'imperio romano, e in ch'essi meno pensarono a libertà e meno si dolsero del giogo. Delle nazioni moderne poi, nulla dirò. Parlino i fatti; e se ne deduca quanto vivo e [3137]durabile interesse possa cagionare in un'epopea la nazionalità dell'impresa e dell'Eroe. Quando non esiste quasi nazionalità nelle nazioni. Ciò vale sopra tutto per l'Italia.
5. Finalmente l'interesse che può produrre in un poema epico un Eroe ed un'impresa nazionale felice, nè può, come è chiaro, riuscire universale, nè anche può essere perpetuo, come più sotto si mostrerà cogli esempi. Unico interesse che possa in un'epopea riuscire universale e per luogo e per tempo, cioè comune a tutte le nazioni e a tutti i secoli, si è quello che nasce dalla sventura, e più dalla virtù sventurata, dalla beltà , dalla giovanezza e anche dal valor militare personale sventurato. E questo altresì può solo esser vivissimo, e durare in chi legge per tutto il corso della lettura, e perseverare nel suo animo lungo tempo di poi, come pungolo lasciato nella piaga.
Ma l'unico modo che v'aveva d'introdurre questo interesse nel poema epico, quello, dico, usato da Omero nell'Iliade, cioè di duplicare onninamente l'Eroe, l'interesse e lo scopo poetico di tutta l'epopea, non solamente [3138]dagli Epici posteriori ad Omero non fu voluto abbracciare, ma fu sopra tutte l'altre cose fuggito, come quello che dirittamente avrebbe esclusa quella unità d'interesse, di scopo e d'Eroe, che quei poeti e i Dottori de' loro tempi e de' nostri, davano per primaria e supremamente indispensabile qualità del poema epico: la unità , dico, non quale è quella della Iliade, dalla quale pur furono tratte le regole, le norme e il tipo dell'epopea, ma quale i posteriori ingegni metafisicamente sottilizzando, e troppo artisticamente e strettamente considerando, la concepirono, determinarono e prescrissero. Ond'è che quantunque in ciascuno de' nominati poemi epici v'abbiano molte sventure cantate, ed avendovi una parte vittoriosa e felice, v'abbia altresì necessariamente una parte soccombente e sfortunata, si guardarono però bene tutti i detti poeti di farci piangere sopra questa sventura, come aveva fatto Omero; e di condurre il poema in modo che [3...
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