[Pagina precedente]... la sua vittoria per se medesima, altrimenti egli non gli avrebbe posto incontro un tal Eroe qual fa Ettore; così neanche l'interesse d'Ettore dovette esser l'unico, nè la sua sventura per se medesima l'unico soggetto e scopo del poema.
Doppio dovette essere secondo l'intenzione di Omero, e doppio infatti riuscì [3115]a' lettori o uditori greci l'interesse, lo scopo, e l'Eroe del poema. E qui si deve considerare il maraviglioso artifizio di Omero. Non solevasi a' tempi eroici, cioè quasi selvaggi, stimar gran fatto il nemico. L'odio che gli portava la parte contraria, quell'odio il quale faceva che ciascun soldato considerasse l'esercito o la nazione opposta come nemici suoi personali, e con questo sentimento combattesse, non lasciava luogo alla stima. E quando anche s'avesse cagione di stimare il nemico, ciascuno, come si fa de' nemici personali, cercava a tutto potere di deprimerlo sì nella propria immaginazione che presso gli altri, e ricusava di riconoscere in lui alcuna virtù. Non prevaleva nè si conosceva allora quella sentenza che la gloria di chi fortemente combatte e di chi vince è tanto maggiore quanto più forte e stimabile è il nemico e il vinto. Ma sebbene allora [3116]ciascuno amasse e cercasse la gloria sopra ogni altra cosa ed assai più che al presente, niuno si curava di accrescerla a costo del proprio odio verso il nimico, niuno sosteneva di aggrandire a' propri occhi o agli altrui il pregio della propria vittoria col considerare e render giustizia al valore della resistenza; ognuno preferiva di tenere anzi l'inimico per vile e codardo e tale rappresentarlo agli altri, perchè l'odio e la vendetta più si soddisfa e gode disprezzando il nimico e privandolo d'ogni qualsivoglia stima, che sforzandolo e vincendolo, e quasi piuttosto eleggerebbe di soccombergli che di lodarlo. Una tal disposizione offriva poche risorse, poca varietà , poco campo di passioni al poema epico. Omero ebbe l'arte di fare che i greci si contentassero di stimare il nemico che avevano vinto; e fece loro provare il piacere, a quei tempi ignoto o rarissimo, di vantarsi e compiacersi [3117]di una vittoria riportata sopra un nemico nobile e valoroso. Questo piacere fu veramente Omero che lo concepì, Omero che lo produsse; ei non era proprio de' tempi, non nasceva dalla maniera di pensare e dalle disposizioni di quegli uomini, ma nacque dalla poesia d'Omero; Omero per dir così ne fu l'inventore. Questo gli diede campo di moltiplicare e intrecciar gl'interessi, di variar le passioni e gli effetti cagionati dal suo poema nell'animo de' lettori.
Come la stima, così la compassione verso il nimico, ancorchè vinto e virtuoso era impropria di quei tempi. (Vedi quello che altrove ho detto in proposito d'un'azione d'Enea appo Virgilio, dopo morto Pallante). Gli animi naturali non provano nella vittoria altro piacere che quello della vendetta. La compassione, anche generalmente parlando (cioè quella ancora che cade sulle persone non inimiche) nasce bensì, come di sopra ho detto, [3118]dall'egoismo, ed è un piacere, ma non è già propria nè degli animali nè degli uomini in natura, nè anche, se non di rado e scarsamente, degli animi ancora quasi incolti (quali erano i più a' tempi eroici). Questo piacere ha bisogno di una delicatezza e mobilità di sentimento o facoltà sensitiva, di una raffinatezza e pieghevolezza di egoismo, per cui egli possa come un serpente ripiegarsi fino ad applicarsi ad altri oggetti e persuadersi che tutta la sua azione sia rivolta sopra di loro, benchè realmente essa riverberi tutta ed operi in se stesso e a fine di se stesso, cioè nell'individuo che compatisce. Quindi è che anche nei tempi moderni e civili la compassione non è propria se non degli animi colti e dei naturalmente delicati e sensibili, cioè fini e vivi. Nelle campagne dove gli uomini sono pur meno corrotti che nelle città , rara, e poco intima e viva, e di poca efficacia e durata è la compassione. Ma lo spirito di Omero era certamente [3119]vivissimo e mobilissimo, e il sentimento delicatissimo e pieghevolissimo. Quindi egli provò il piacere della compassione, lo trovò, qual egli è, sommamente poetico, perocch'egli, oltre alla dolcezza, induce nell'animo un sentimento di propria nobiltà e singolarità che l'innalza e l'aggrandisce a' suoi occhi, vero e proprio effetto della poesia. Veggasi la p.3167-8. e 3291-7. Volle dunque introdurlo nel suo poema, anzi farne l'uno de' principali fini del medesimo, l'uno de' principali piaceri prodotti dalla sua poesia. Volle accompagnar questo piacere e questo affetto con quello della maraviglia, affetto appartenente all'immaginazione e non al cuore, che fino a quel tempo era forse stato l'unico o il principal effetto della poesia. Volle che il suo poema operasse continuamente del pari e sulla immaginazione e sul cuore, e dall'una e dall'altra sua facoltà volle trarlo, cioè da quella d'immaginare e da quella di sentire. Questo suo intento è manifestissimo [3120]nel suo poema, più manifesto che appo gli altri poeti greci venuti a tempi più colti, più eziandio che ne' tragici appo i quali il terrore e la maraviglia prevalgono ordinariamente alla pietà , e spesso son soli, sempre tengono il primo luogo. Vedesi apertamente che Omero si compiace nelle scene compassionevoli, che se il soggetto e l'occasione gliene offrono, egli immediatamente le accetta, che altre ne introduce a bella posta e cercatamente (come l'abboccamento d'Ettore e Andromaca a introdurre il quale, e non ad altro, è destinata e ordinata quella improvvisa venuta d'Ettore in Troia, nel maggior fuoco della battaglia, e in tempo che può veramente parere inopportuno intempestivo e imprudente), e che nell'une e nell'altre ei non trascorre, ma ci si ferma e ci si diletta, e raccoglie tutte le circostanze che possono eccitare e accrescere la compassione, e le sminuzza, e le rappresenta con grandissima arte e intelligenza del cuore umano. E il soggetto di tutte [3121]queste scene dove l'animo de' lettori è sommamente interessato non sono altri che quegli stessi che Omero ha tolto a deprimere, i nemici de' greci ch'egli ha preso ad esaltare. Nè pertanto egli s'astiene dal volere a ogni modo far piangere sopra i troiani, e deplorare ai medesimi greci quelle sventure ch'essi avevano cagionate, del che egli nel tempo stesso sommamente li celebra.
Grande, caro, artifiziosissimo e poetichissimo effetto dell'Iliade, che Omero ottenne col duplicare espressamente e l'interesse e lo scopo e l'Eroe, che non si poteva ottenere altrimenti, che fu tutto invenzione ed opera di Omero, voglio dir l'unione e l'armonia di questi due interessi e fini contrarii, e il pensiero d'introdurli ambedue nel suo poema, e sostenerli congiuntamente fino all'ultimo, facendoli camminar sempre del pari. Con che oltre all'avere raddoppiato l'effetto del suo poema, interessando per l'una parte l'immaginazione, per l'altra il cuore; [3122]oltre all'aver potuto congiungere l'interesse che deriva dalla virtù felice con quello che deriva dalla virtù sventurata (il che non si poteva fare se non dividendo i soggetti dell'una e dell'altra, perocchè accumulando l'una e l'altra in un soggetto solo e facendo che di sventurato divenisse felice, o di felice terminasse nella sventura, l'uno e l'altro interesse sarebbe stato imperfettissimo e debolissimo, e distruttivo l'uno dell'altro, per modo che finita la lettura, l'un solo di essi sarebbe rimasto, come accade p.e. nelle così dette, assurde tragedie, di lieto fine);57 oltre, dico, all'aver potuto mettere in moto nel suo poema ambedue quegl'interessi che fortissimamente operano nell'uomo, e grandissimo piacere gli recano, e sono poetichissimi, cioè la maraviglia della virtù superante ogni ostacolo ed ottenente il suo fine, interesse che in quei tempi principalmente era di gran forza, e la compassione della somma virtù caduta in somma e non medicabile nè consolabile calamità ; [3123]oltre tutto questo Omero ottenne di potere introdurre nel suo poema, un perpetuo contrasto di passioni contrarie continuamente operanti ne' lettori, continuamente equilibrantisi l'una l'altra, continuamente sottentranti e implicantisi e mescolantisi l'una nell'altra. Contrasto nato dalla duplicazione dell'interesse dello scopo e della persona principale, la qual duplicazione in virtù di questo perpetuo e perpetuamente sensibile contrasto, non solo raddoppia ma moltiplica più volte l'effetto e l'energia dell'Iliade nell'animo de' lettori, e la vivacità delle sensazioni, e il commovimento e l'agitazione dello spirito, propria operazione della poesia.
Tali si furono le intenzioni di Omero, tale il mezzo e l'arte da lui adoperati per conseguirle, tale la vera natura, il vero carattere, il vero andamento del suo poema, la vera forma ch'egli ha e che l'autore volle dargli. Vediamo ora gli altri poeti epici e i loro poemi, e [3124]le regole dell'epopea che dopo Omero furono concepute e insegnate e poste e seguite.
Videro tutti la necessità di far che l'Eroe e la impresa principale che si prendesse a lodare e a narrare nell'epopea riuscissero felicemente. Ciò fu dato per regola, e questa regola fu seguita da tutti. Massimamente che dietro l'esempio dell'Iliade (benchè l'Odissea somministrasse pure un esempio diverso) non fu stimato proprio soggetto di poema epico altro che imprese guerriere, nè d'altro genere d'Eroe fu creduto che l'epopea dovesse rappresentare il modello, se non che del gran Capitano. Onde parve tanto più necessaria la felicità nell'Eroe del poema e nell'impresa che ne fosse il soggetto, non giudicandosi degno d'epopea un Capitano vinto da' nemici nè una guerra perduta.
Sin qui andava bene: ma v'era il grandissimo inconveniente che l'interesse che i lettori possono prendere per li fortunati, ancorchè virtuosi, è scarso, debole e breve, e non [3125]si può reggere pel corso d'un lungo poema, nè tutto, per così dire, animarlo e vivificarlo, nè anche sufficientemente animarne una sola parte. Mancando il contrasto fra la virtù e la fortuna, oltre che ne scapita la verità dell'imitazione, essendo pur troppo il vero che questo contrasto sussiste nel mondo ed è perpetuo, onde un virtuoso fortunato è soggetto quasi romanzesco, e toglie quasi fede al poema, e impedisce l'illusione,58 (massime a' moderni tempi, perchè a quelli d'Omero era altra cosa); ne seguiva anche il pessimo effetto della freddezza, perchè il lettore non ha che interessarsi per la virtù, vedendola felice, ed ottener già quello che le conviene.
Quindi è che ne' poemi epici posteriori ad Omero, l'Eroe e l'impresa felice nulla avrebbero interessato i lettori, se desso eroe, dessa impresa, dessa felicità non fossero in qualche modo appartenuti ai lettori medesimi, come Achille ec. ai greci. In verità un [3126]poema epico di lieto fine richiede necessariamente la qualità di poema nazionale; e per ciò che spetta e mira a esso fine, un poema epico non nazionale non può interessar niuno; nazionale, non può mai produrre un interesse universale nè perpetuo, ma solo nella nazione e per certe circostanze. L'Eneide fu dunque poema nazionale, e lasciando star tutti gli episodi e tutte le parti e allusioni che spettano alla storia ed alla gloria de' Romani, l'Eneide anche pel suo proprio soggetto potè produr ne' Romani il primo di quegl'interessi che abbiamo distinto in Omero, perocchè i Romani si credevano troiani di origine, sicchè la vittoria d'Enea consideravasi o poteva considerarsi da essi come un successo e una gloria avita, e ad essi appartenente, e da essi ereditata. Il soggetto della Lusiade fu nazionale, e di più moderno. Egli non poteva esser più felice quanto al produrre quel primo interesse di cui ragioniamo. Il soggetto dell'Enriade è affatto nazionale e la memoria di quell'Eroe era particolarmente cara ai francesi, onde la scelta dell'argomento in genere fu molto giudiziosa, massime ch'e' non era nè troppo antico nè troppo moderno, anzi quasi forse a quella stessa o poco diversa distanza a cui fu la guerra troiana da' tempi d'Omero. Il soggetto e l'eroe [3127...
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