[Pagina precedente]..., il vivente ci si avvezza per modo insin da' primi istanti del vivere, che pargli di non sentirlo, e di non avvedersene). [3551]Anzi questa seconda proposizione è necessaria conseguenza della prima, e quasi la medesima diversamente enunziata. Perocchè dove non v'ha piacere, quivi ha patimento, perchè v'ha desiderio non soddisfatto di piacere, e il desiderio non soddisfatto è pena. Nè v'ha stato intermedio, come si crede, tra il soffrire e il godere; perchè il vivente desiderando sempre per necessità di natura il piacere, e desiderandolo perciò appunto ch'ei vive, quando e' non gode, ei soffre. E non godendo mai, nè mai potendo veramente godere, resta ch'ei sempre soffra, mentre ch'ei vive, in quanto ei sente la vita: chè quando ei non la sente, non soffre; come nel sonno, nel letargo ec. Ma in questi casi ei non soffre perchè la vita non gli è sensibile, e perchè in certo modo ei non vive. Nè altrimenti ei può cessare o intermettere di soffrire, che o cessando veramente di vivere, o non sentendo la vita, ch'è quasi come intermetterla, e lasciare per un certo intervallo di esser vivente. In questi soli casi il vivente può non soffrire. Vivendo e sentendo di vivere, ei nol può mai; e ciò per propria essenza sua e della vita, e [3552]perciò appunto ch'egli è vivente, ed in quanto egli è tale, come nella mia teoria del piacere ec.?
(29. Sett. Festa di San Michele Arcangelo. 1823.)
Alla p.3550. Il narrare non dev'essere al poeta epico che un pretesto, la persona di narratore non dev'essere a lui che una maschera, come al didascalico la persona d'insegnatore. Ma questo pretesto, questa maschera ei deve sempre perfettamente conservarlo, ed esattamente (quanto all'apparenza e come al di fuori) rappresentarla, in modo ch'ei sembri sempre essere narratore e non altro. E così fecero tutti i grandi, incluso Dante che non è epico, ma il cui soggetto è narrativo, sebben ei dà forse troppo talvolta in dissertazioni e declamazioni ma torno a dire, il suo poema non è epico, ed è misto di narrativo e di dottrinale, morale ec.
(29. Sett. dì di S. Mich. Arcang. 1823.)
Alla p.3388. Il vino (ed anche il tabacco e simili cose) e tutto ciò che produce uno straordinario vigore o del corpo tutto o della testa, non pur giova all'immaginazione, ma eziandio all'intelletto, ed all'ingegno generalmente, alla facoltà di ragionare, di pensare, e di trovar delle verità ragionando (come ho provato più volte per esperienza), all'inventiva ec. Alle volte per lo contrario giova sì all'immaginazione, sì all'intelletto, alla mobilità del pensiero e della mente, alla fecondità , alla copia, alla facilità e prontezza dello spirito, del parlare, del ritrovare, del raziocinare, del comporre, alla prontezza della memoria, alla facilità di tirare le conseguenze, di conoscere i rapporti ec. ec. una certa debolezza di corpo, di nervi ec. [3553]una rilasciatezza non ordinaria ec. come ho pure osservato in me stesso più volte. Altre volte all'opposto.
Le passioni che son cose indipendenti dalle idee, giovano pure assai volte, non solo all'immaginazione, ma eziandio all'ingegno in genere, alla ragione ec. perocchè negli accessi di passione si scuoprono non di rado, anche da' piccoli o non esercitati o non riflessivi ingegni, delle verità così grandi come solide, secondo che ho detto altrove biasimando l'uso della nuda ragione o facoltà dialettica e ragionatrice nella filosofia, proprio de' tedeschi ec. E per lo contrario le passioni mille volte nocciono, impediscono, offuscano, indeboliscono ec. ec. sì l'immaginazione, sì la facoltà ragionatrice, sì l'ingegno in genere, la memoria ec. come ognun sa ec. Così ancora il vino e le cose dette di sopra. ec. (29. Sett. dì di S. Michele Arcangelo. 1823.).
Ho notato altrove che la debolezza per se stessa è cosa amabile, quando non ripugni alla natura del subbietto in ch'ella si trova, o piuttosto al modo in che noi siamo soliti di vedere e considerare la rispettiva specie di subbietti; o ripugnando, non distrugga però la sostanza d'essa natura, e non ripugni più che tanto: [3554]insomma quando o convenga al subbietto, secondo l'idea che noi della perfezione di questo ci formiamo, e concordi colle altre qualità d'esso subbietto, secondo la stessa idea (come ne' fanciulli e nelle donne); o non convenendo, nè concordando, non distrugga però l'aspetto della convenienza nella nostra idea, ma resti dentro i termini di quella sconvenienza che si chiama grazia (secondo la mia teoria della grazia), come può esser negli uomini, o nelle donne in caso ch'ecceda la proporzione ordinaria, ec. La debolezza ordinariamente piace ed è amabile e bella nel bello. Nondimeno può piacere ed esser bella ed amabile anche nel brutto, non in quanto nel brutto, ma in quanto debolezza, (e talor lo è) purch'essa medesima non sia la cagione della bruttezza nè in tutto nè in parte. Ora l'esser la debolezza per se stessa, e s'altro fuor di lei non si oppone, naturalmente amabile, è una squisita provvidenza della natura, la quale avendo posto in ciascuna creatura l'amor proprio in cima d'ogni altra disposizione, ed essendo, come altrove ho mostrato, una necessaria e propria conseguenza dell'amor proprio in ciascuna creatura l'odio delle altre, ne seguirebbe che le creature deboli fossero troppo sovente la vittima delle forti. Ma la debolezza essendo naturalmente amabile e dilettevole altrui per se stessa, fa che altri ami il subbietto in ch'ella si trova, e l'ami per amor proprio, cioè perchè da esso riceve diletto. Senza ciò i fanciulli, [3555]massime dove non vi fossero leggi sociali che tenessero a freno il naturale egoismo degl'individui, sarebbero tuttogiorno écrasés dagli adulti, le donne dagli uomini, e così discorrendo. Laddove anche il selvaggio mirando un fanciullo prova un certo piacere, e quindi un certo amore; e così l'uomo civile non ha bisogno delle leggi per contenersi di por le mani addosso a un fanciullo, benchè i fanciulli sieno per natura esigenti ed incomodi, ed in quanto sono (altresì per natura) apertissimamente egoisti, offendano l'egoismo degli altri più che non fanno gli adulti, e quindi siano per questa parte naturalmente odiosissimi (sì a coetanei, sì agli altri). Ma il fanciullo è difeso per se stesso dall'aspetto della sua debolezza, che reca un certo piacere a mirarla, e quindi ispira naturalmente (parlando in genere) un certo amore verso di lui, perchè l'amor proprio degli altri trova in lui del piacere. E ciò, non ostante che la stessa sua debolezza, rendendolo assai bisognoso degli altri, sia cagione essa medesima di noia e di pena agli altri, che debbono provvedere in qualche modo a' suoi bisogni, e lo renda per natura molto esigente ec. Similmente discorrasi [3556]delle donne, nelle quali indipendentemente dall'altre qualità , la stessa debolezza è amabile perchè reca piacere ec. Così di certi animaletti o animali (come la pecora, i cagnuolini, gli agnelli, gli uccellini ec. ec.) in cui l'aspetto della lor debolezza rispettivamente a noi, in luogo d'invitarci ad opprimerli, ci porta a risparmiarli, a curarli, ad amarli, perchè ci riesce piacevole ec. E si può osservare che tale ella riesce anche ad altri animali di specie diversa, che perciò gli risparmiano e mostrano talora di compiacersene e di amarli ec. Così i piccoli degli animali non deboli quando son maturi, sono risparmiati ec. dagli animali maturi della stessa specie (ancorchè non sieno lor genitori), ed eziandio d'altre specie (eccetto se non ci hanno qualche nimicizia naturale, o se per natura non sono portati a farsene cibo ec.); ed apparisce in essi animali una certa o amorevolezza o compiacenza verso questi piccoli. Similmente negli uomini verso i piccoll degli animali che cresciuti non son deboli. E di questa compiacenza non n'è solamente cagione la piccolezza per se (ch'è sorgente di grazia, come ho detto altrove), nè la sola sveltezza che in questi piccoli suole apparire (siccome ancora nelle specie piccole di animali) e che è cagion di piacere per la vitalità che manifesta e la vivacità ec. secondo il detto altrove da me sull'amor della vita, onde segue quello del vivo ec. ma v'ha la [3557]sua parte eziandio la debolezza.
(29-30. Sett. 1823.). v. p.3765.
Untare, untar (spagn.) da ungo-unctus. Unctito dal medesimo. Urtare, heurter (franc.) da un urtus partic. di urgeo, oda un ursus mutato in urtus, come falsus in faltus ec. vedi la p.3488. e quella a che essa si riferisce.
(30. Sett. 1823.)
Alla p.2984. Anche il nostro vieto è il positivo vetus. E la doppia terminazione francese vieil vieux forse non ha altra origine che l'esser questi originalmente due nomi diversi, l'uno positivo, l'altro diminutivo. Ai diminutivi latini usati positivamente nello stesso fior della latinità , aggiungi oculus, e vedi quello che altrove ne ho detto in proposito della voce russa oco, citando l'Hager. (30. Sett. 1823.). Noi ancora diciamo veglio, vegliardo ec. voci antiche, ora poetiche, o da vieil, e d'origine provenzale ec. o da veculus dirittamente, come periglio da periculum del che vedi la pag.3515 fine e marg.
Alla p.3341. princ. Dire p.e. livre deux, chapitre dix e simili, sembra veramente esser uso de' francesi più familiare che letterario. Trovo così scritto a lettere in libri modernissimi, ma di niun'autorità . In libri alquanto più antichi ma ben autorevoli, trovo p.e. chapitre dixième ec.
(30. Sett. 1823.). V. p.3560.
[3558]Alla p.3003. mezzo. Su-spicio, il quale materialmente non si può dire se sia formato da sub, o da sursum (quando s'ammettesse questa seconda sorta di formazione), vale certamente guardare di sotto in su, perchè guardare in alto non è nè si può fare altrimenti che guardando di sotto in su. Or così dite degli altri tali composti pretesi di sursum. Fra' quali i grammatici ripongono certamente ancor questo, e ciò perchè sursum significa in alto, in su. Ora osservino i suoi derivati suspicor, suspicio onis, ec. anzi pur lo stesso suspicere e suspectare quando significano sospettare, e mi dicano se possono esser composti della voce sursum. E mi neghino che non sieno composti della prep. sub, come nè più nè meno il greco corrispondente ???????? ec. da ?????? (inusit.) specio, inspicio, inspecto ec. ?????????? suspicor. (30. Sett. 1823.). I quali vocaboli esprimono il guardar sott'occhio ec. che fa chi sospetta, il guardare con diffidenza ec. e tutta la forza e proprietà della metafora, e la ragione per cui spicio in questi composti significa il sospettare, e la proprietà di tali voci ec. sta nella prepos. sub.
(30. Sett. 1823.)
Dalle cose altrove dette (nel principio della [3559]teoria de' continuativi) intorno al verbo aspettare si può dedurre con verisimiglianza che nel volgare latino aspecto as avesse il significato che ha oggi in italiano, come l'ebbe in lat. expecto; massime considerando il corrispondente greco ?????????? che letteralmente si renderebbe appunto ad-spectare, e lo spagnolo a-guardar ec. Attendere attendre per aspettare, è traslazione fatta appunto nello stesso modo, cioè dalla significazione di osservare a quella di aspettare (e notate anche in attendere la preposizione ad in conferma della sopraddetta congettura); siccome all'incontro può vedersi nel Forcell. un esempio di Tacito, dove aspectare è preso per attendo is (il che potrebbe anche in certo modo confermare la stessa congettura). I quali dati possono farci ancora congetturare che attendere nel significato d'aspettare ch'egli ha nelle due lingue figlie italiano e francese abbia la sua origine nel volgare latino ec. V. il Gloss. in aspectare, attendere ec. se ha nulla.
(30. Sett. 1823.)
Alla p.3401. La lingua francese quanto all'origine (non quanto all'indole, veggasi la p.2989. e altre) forma una famiglia colla greca, latina italiana spagnuola [3560]ma la letteratura francese appartiene ad un'altra famiglia, e le quattro letterature suddette formano una famiglia da se (aggiunta la portoghese ch'io comprendo ed intendo sotto la spagnuola). E questo non è contraddizione, come sarebb...
[Pagina successiva]