[Pagina precedente]...serva nè ha campo di porvi mente, e ben di rado l'attribuisce alla sua vera cagione e ne conosce la vera natura; di radissimo poi nè in quel punto, nè mai, o ch'ei rifletta sul suo stato d'allora in qualche altro tempo, o che mai non lo consideri ec. rimonta al principio e generalizza ec. nel qual caso egli ritroverebbe quelle universali e grandi verità che noi andiamo osservando e dichiarando, e che niuno forse ancora ha bene osservate, o interamente e chiaramente comprese e concepute ec.
(13. Nov. 1823.)
Alla p.3639. marg. Esseri più forti dell'uomo; ecco i primi Dei adorati dagli uomini, o da loro riconosciuti e immaginati e considerati per tali; ecco la prima idea della divinità . E come i più forti per lo più anzi, naturalmente e primitivamente, sempre si prevalgono di questo, come di ogni altro, vantaggio, in loro proprio bene, e quindi sovente in danno de' più deboli, e però essi sono, appunto in quanto più forti, malefici e formidabili ai più deboli; e come gli stessi individui umani, massime nella società primitiva e selvaggia (che fu quella in cui nacque [3879]l'idea della Divinità ) così ne usavano e ne usano verso i più deboli per qualunque lato, sì loro simili, sì d'altre specie; quindi nell'idea primitiva della Divinità che consisteva nella maggior forza e soprumana, dovette necessariamente entrare l'idea della maleficenza e della terribilità , naturali effetti e conseguenze e compagne della maggior forza. Anche gli uomini ch'erano o erano stati straordinariamente superiori e più forti degli altri, sia di forza corporale, sia di quella che nasce da qualunqu'altro vantaggio, ancorchè malefici, temuti e odiati, furono non di rado nelle società primitive, e lo sono forse ancora nelle selvagge, divinizzati sì nell'idea, sì talora nel culto, vivi o morti; e questo si può anche riconoscere presso i critici che indagano le origini della stessa mitologia greca, men feroce e terribile e odiosa, anzi più molle ed umana e ridente e amena e vaga e graziosa ed amabile di tutte l'altre ec.
(13. Nov. 1823.)
Alla p.3715. Sono molte volte che la noia è un non so che di più vivo, che ha più sembianza perciò di passione, e quindi avviene che non sia sempre in tali casi chiamata noia, benchè filosoficamente parlando, ella lo sia, consistendo in quel medesimo in cui consiste quel che si chiama noia, cioè nel desiderio di felicità lasciato puro, senza infelicità nè felicità positiva, e differendo solo nel grado da quella che noia comunemente è chiamata. E differisce nel grado, in quanto ell'è noia, in certo modo più intensa, sensibile e viva, qualità che l'avvicinano all'infelicità così chiamata positivamente, e che paiono poco convenevoli [3880]alla noia. Ella infatti, benchè del genere stesso, è più passione è più penosa, che la noia, così comunemente chiamata, non è. Ed è tale perch'ella nasce e consiste in un desiderio più vivo, e al tempo stesso ugualmente vano. Questa sorta di passione è quella che provano generalmente i giovani quando sono in istato di non piacere e non dispiacere. Essi sono poco capaci della noia comunemente detta. Essi sono poco capaci di trovarsi giammai senza un'attuale, ancorchè indeterminata passione,207 più viva d'essa noia, perchè il loro amor proprio, e quindi il lor desiderio di felicità e di piacere, ugualmente vano che nell'altre età , è molto più vivo, generalmente parlando. Incapaci di noia comunemente detta, benchè privi di piacere e dispiacere, sono ancora similmente quegli stati dell'individuo, di cui ho detto p.3835-6.3876-8. e simili. Altresì lo stato di desiderio presente e vivo determinato a qual si sia cosa; benchè privo anche questo stato, di piacere e dispiacere positivo ec. E così discorrendo. Questa sorta di passione, diversa dalla noia comunemente detta, ma dello stesso genere ec., questa ancora io voglio comprendere sotto il nome di noia, e ad essa ancora si deve intendere ch'io abbia riguardo quando affermo che la noia corre immancabilmente e immediatamente a riempiere qualunque vuoto lasciato dal piacere o dispiacer così detto ec. e che l'assenza dell'uno e dell'altro è noia per sua natura, e che mancando essi, v'è la noia necessariamente, e che posta tal mancanza è posta la noia ec. come alle p.3713-5.
(13. Nov. 1823.)
[3881]Come fra gli antichi le cose e funzioni sacre fossero in mano de' profani ec. del che altrove, vedi la Polit. di Aristotele, l.6. fine, Florent. 1576. p.543. massime in fine, e quivi il Vettori.
(14. Nov. 1823.)
Monosillabi latini. Pluo, secondo le nostre osservazioni sulla monosillabia antica e volgare di tali dittonghi (come uo) non riconosciuti da' grammatici.
(14. Nov. 1823.). V. il pens. seg.
Alla p.3850. fine. Buo è andato in disuso restando il composto imbuo. Se però imbuo è da in e buo (v. Forc.) e non piuttosto corruzione e pronunzia d'imbibo (che pur sussiste) pronunziato imbivo (imbevere, imbevo che vale appunto imbuo, ed è certo da bibo, e v. i francesi e spagnuoli) - imbiuo - imbuo, come lavo ne' composti e nel greco è luo, e per lo contrario da pluere noi facciamo piovere, llover ec. E mille esempi in questi propositi si potrebbero addurre.208 Così exbuae sarebbe corruzione o pronunziazione di exbibae, vinibuae di vinibibae, fors'anche bua (bumba) di biba. Di tali cangiamenti nati dall'affinità ec. tra il v e l'u, ho detto altrove. Ovvero Imbuo può esser fatto direttamente da in e da bua (bevanda), sia che questa voce sia alterazione di biba, o che sia un antico monosillabo significante bevanda, restato poi solo per usi puerili, sia anche in origine una voce puerile.
(14. Nov. 1823.)
Il vino, il cibo ec. dà talvolta una straordinaria prontezza vivacità , rapidità , facilità , fecondità d'idee, di ragionare, d'immaginare, di motti, d'arguzie, sali, risposte ec. vivacità di spirito, furberie, risorse, trovati, sottigliezze grandissime di pensiero, profondità , verità astruse, tenacità [3882]e continuità ed esattezza di ragionamento anche lunghissimo e induzioni successive moltissime, senza stancarsi, facilità di vedere i più lontani e sfuggevoli rapporti, e di passare rapidamente dall'uno all'altro senza perderne il filo ec. volubilità somma di mente ec. Questo secondo le condizioni particolari delle persone, ed anche le loro circostanze sì attuali in quel punto, sì abituali in quel tempo, sì abituali nel resto della vita ec. Ma quello accrescimento di facoltà prodotto dal vino, ec. è indipendente per se stesso dall'assuefazione. E gli uomini più stupidi di natura, d'abito ec. divengono talora in quel punto spiritosi, ingegnosissimi ec. V. p.3886. Questo si applichi alle mie osservazioni dimostranti che il talento e le facoltà dell'animo ec. essendo in gran parte cosa fisica, e influita dalle cose fisiche ec. la diversità de' talenti in gran parte è innata, e sussiste anche indipendentemente dalla diversità delle assuefazioni, esercizi, circostanze, coltura ec.
(14. Nov. 1823.)
Alla p.3801. Sì nelle nazioni barbare o selvagge sì nelle civili, sì nelle corrotte ec. la società ha prodotto infiniti o costumi o casi fatti ec. particolari, volontari o involontarii ec. che o niuno può negare esser contro la natura sì generale, sì nostra, contro il ben essere della specie, della società stessa ec. contro il ben essere eziandio delle altre creature che da noi dipendono ec.; ovvero se ciò si nega, ciò non viene che dall'assuefazione, e dall'esser quei costumi ec. nostri propri: onde dando noi del barbaro ai costumi e fatti d'altre nazioni e individui, ec. meno snaturati talora de' nostri, non lo diamo a questi ec. E generalmente noi chiamiamo barbaro quel ch'è diverso [3883]dalle nostre assuefazioni ec. non quel ch'è contro natura, in quanto e perciocch'egli è contro natura. Ma tornando al proposito, tali costumi o fatti snaturatissimi che senza la società non avrebbero mai avuto luogo, nè esempio alcuno in veruna delle specie dell'orbe terracqueo, hanno avuto ed hanno ed avranno sempre luogo in qualsivoglia società , selvaggia, civile, civilissima, barbara, dove e quando gli uni, quando gli altri, ma da per tutto cose snaturatissime. Il che vuol dire che la società gli ha prodotti, e che non potea e non può non produrli, cioè non produr costumi e fatti snaturati, e se non tali, tali, e se non questi, quelli, ma sempre ec. P.e. Il suicidio, disordine contrario a tutta la natura intera, alle leggi fondamentali dell'esistenza, ai principii, alle basi dell'essere di tutte le cose, anche possibili; contraddizione ec. da che cosa è nato se non dalla società ? ec. ec. V. p.3894. Ora in niuna specie d'animali, neanche la più socievole, si potrà trovare che abbiano mai nè mai avessero luogo non pur costumi, ma fatti particolari, non pur così snaturati come quelli degl'individui e popoli umani in qualunque società , ma molto meno. Eccetto solo qualche accidentalissimo disordine, o involontario, e quindi da non attribuirsi alla specie, o volontario, ma di volontà determinata da qualche straordinarissima circostanza e casualissima. E la somma di questi casi non sarà neppure in una intera specie, contando dal principio del mondo, comparabile a quella de' casi di tal natura in una sola popolazione di uomini dentro un secolo, [3884]anzi talora dentro un anno. Questo prova bene che la naturale società ch'è tra gli animali non è causa di cose contrarie a natura per se medesima e necessariamente, ma per solo accidente, e il contrario circa la società umana. E si conferma che l'uomo è per natura molto men disposto a società che moltissimi altri animali ec.
(14. Nov. 1823.)
Les Dames vous devront ce que la langue italienne devait au Tasse; cette langue d'ailleurs molle et dépourvue de force, prenait un air male et de l'énergie lorsqu'elle était maniée par cet habile poëte. Così scriveva il principe reale di Prussia, poi Federico II alla marchesa du Châtelet, da Rémusberg agli 9. Nov. 1738. (Oeuvres complettes de Frédéric II. Roi de Prusse. 1790. tome 16. Lettres du Roi de Prusse et de la Marquise du Châtelet. Lettre 5e p.307.) E nóto queste parole perchè si veda l'esattezza del giudizio degli stranieri sulla nostra letteratura, e la verità della material cognizione ch'essi ne hanno. Lascio quello che Federico dice in generale sulla nostra lingua, ma il particolare del Tasso, ch'è un fatto, e che poco si richiedeva a essere istruito come stésse, non è egli tutto il contrario del vero? Federico dice del Tasso quel ch'è vero di Dante, del quale il Tasso è tutto il contrario, anche più dell'Ariosto, e quasi dello stesso Petrarca ec. V. p.3900. (14. Nov. 1823.). Eccetto se Federico non considera o non intende di parlare del Tasso in comparazione del Metastasio, e più se de' frugoniani, degli arcadici de' nostri poeti e prosatori sia puristi sia barbaristi del [3885]passato secolo, insomma di quelli che nè scrissero nè seppero l'italiano; nel qual caso il suo detto è certamente esente da ogni rimprovero e controversia.
(15. Nov. 1823.). V. p.3949.
Alla p.3706. Se però, come dubito, fuvi per fui non è un raddoppiamento dell'u, fatto per proprietà di pronunzia, della qual proprietà in questo e simili casi v'hanno molti altri esempi ec. (v. la pag.3881. ec.). Il qual raddoppiamento bensì può avere avuto luogo e occasione dal voler evitare l'iato, ma in modo che ad evitarlo sia stato interposto il v, non in quanto semplicemente atto e solito ad interporsi tra le vocali ianti, ma in quanto l'una e la più sonante di queste nel nostro caso era l'u, cioè appunto un altro v, secondo il detto altrove circa la medesimezza di queste lettere u e v presso i latini massimamente. I quali non usavano che un carattere per esprimer l'una e l'altra, cioè anticamente e nel maiuscolo il V, più recentemente e nel semimaiuscolo o unciale, o forse in quello ch'era allora, o anche anticamente, il corsivo e l'usuale, sia tutt'uno coll'unciale, sia diverso, ec. l'u, come ne' palimpsesti vaticani, ambrogiani, sangallesi, veronesi ec.
(15. Nov. 1823.)
Alla p.3588. marg. Di ciò che io, sapendo essere vostro...
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