[Pagina precedente]...o. Queste condizioni sono essenziali al perfetto, anzi al vero e proprio coraggio; e quel che n'è senza, o non è propriamente coraggio, o imperfetto ec.
(26-7. Sett. 1823.)
[3541]Ho discorso altrove del verbo periclitor mostrando ch'egli è continuativo di un antico periculor, fatto dal participio di questo, cioè da periculatus contratto in periclatus come periculum in periclum, e mutata l'a in i secondo la solita regola, come in mussito da mussatus. Ora vedi appunto tal participio periculatus nel Forcellini in essa voce. E nóta ch'ei dimostra il detto verbo periculor, perocchè dice periculatus sum, tempo perfetto di periculor come periclitatus sum di periclitor.
(27. Sett. 1823.)
Altrove ho notato e raccolto parecchie metafore delle voci caput, capo ec. Aggiungi Aristot. Polit. lib.2. ediz. Flor. 1576. p.159. fine ???? ??????? per testa, a testa, cioè per uno, per ciascuno, ciascuno, singuli. E v. la Crusca in Testa. ec.
(27. Sett. 1823.)
Monosillabi latini. Pes, spes,134 dies, nox, fax, nix, res. Nótisi che questi e tutti gli altri monosillabi da me raccolti, sono radici (anche rex, lex ec. come ho mostrato). E che i nomi greci corrispondenti, bene spesso, oltre al non essere monosillabi, non sono radici: come ????? (lat. sol monosillabo) si deriva da ??? [3542]ec. ec. e ?????? (res) viene da ?????? indubitabilmente. Ed essendo verisimile che i nomi delle cose più necessarie e frequenti a nominarsi, più materiali ec., delle cose che sembrano dover essere state le prime nominate ec. (come sono, almeno in gran parte, quelle significate ne' monosillabi latini da me raccolti ec.) fossero radici, non meno che monosillabi; par che ne segua che in greco, ove tali nomi non sono radici, essi non siano i nomi primitivi greci delle dette cose, e che questi sieno perduti, e che il latino all'incontro gli abbia conservati; e così si confermi la maggior conservazione dell'antichità nel latino che nel greco. E probabilmente i detti nomi latini saranno stati una volta anche greci, e saranno venuti da quella lingua onde il greco e il latino scaturirono, ma il latino gli avrà sempre conservati, sino a trasmettergli alle lingue oggi viventi, e nel greco si saranno poi perduti o disusati ec. ec.
(27. Sett. 1823.)
Verbi in uare. Perpetuo as da perpetuus. (28. Sett. Domenica. 1823.). Continuo as, Obliquo as. V. p.3571.
Continuativo o frequentativo. Perpetuito as da perpetuo asperpetuatus. Vedi Forcell. in Perpetuitassint. [3543]Se già questa voce non fosse fatta (che nol credo) da perpetuitas, come forse necessitare ital. ec. da necessitas, di che ho detto altrove.
(28. Sett. 1823.)
Tonsito as da tondeo-tonsus, frequentativo. Il continuativo l'abbiamo noi; tosare (quasi tonsare). V. il Gloss. ec.
(28. Sett. Domenica. 1823.)
Nella Bibbia bisogna considerare l'immaginazione orientale e l'immaginazione antichissima, (anzi di un popolo quasi primitivo affatto ne' costumi ec. e certo la più antica immaginazione che si conosca oggidì). Ben attese e pesate e valutate quanto si deve queste due qualità che nella Scrittura si congiungono,135 niuno più si farà maraviglia della straordinaria forza ch'apparisce ne' Salmi, ne' cantici, nel Cantico, ne' Profeti, nelle parti e nell'espressioni poetiche della Bibbia, alla qual forza basterebbe forse una sola di dette qualità . E veggansi le poesie orientali anche non antichissime, le sascrite antichissime ma de' tempi civili dell'India.
(28. Sett. 1823. Domenica.)
Intorno allo spagn. pintar ho detto altrove che il primitivo e regolare participio di pingo, tingo e simili, fu pingitus, tingitus ec.? Poi pinctus, tinctus ec., poi pinctus, (e quindi pintar, quasi pinctare); [3544]e in questo 3° stato molti di tali participii rimasero, come tinctus, cinctus ec. Molti altri passarono a un quarto stato, ove si fermarono, come pictus, fictus ec. Ma noi li conserviamo per lo più nel 3° stato: pinto, finto. franc. peint, feint. Abbiamo anche pitto, fitto, ma antichi o poetici ec. Lo spagnuolo (regolarissimo ne' participii passivi sopra ogni altra sorella, e sopra la stessa latina ec. nel modo che altrove ho detto)136 conserva il primitivo fingitus in fingido.
(28. Sett. 1823.)
Alla p.3341. Vedi a questo proposito Fabric. B. Lat. ed Ven. t.1. p.76. princip. l. I c.6. de Corn. Nep. §.3. fine. E nótisi che Catullo, come di stil familiare, inclina ai modernismi nella sua latinità .
(28. Sett. 1823.). V. p.3584.
Alla p.3496. Platone nel cit. luogo non par che supponga i démoni un composto d'uomo e Dio, bensì un genere intermedio tra questo e quello, che serviva, com'egli espressam. dice, di gradazione, e a riempiere il vôto che sarebbe stato nella serie degli ésseri, tra il divino e l'umano genere. Pareva dunque agli antichi anche filosofi profondi che tra questi due generi, tra l'uomo e il Dio, avesse luogo ottimamente la gradazione, niente manco che tra [3545]specie e specie d'animali, tra il regno animale il vegetabile ec. Ed erano così lontani dal credere, come oggi si fa, che la distanza fra l'umano e 'l divino fosse infinita, e infiniti, o molto numerosi, i gradi intermedi; che anzi egli stimavano che un solo anello s'intrapponesse nella catena fra' sopraddetti due, e bastasse a congiungerli o continuarli, e che dall'uomo al Dio un solo grado passasse, due soli gradi s'avesse a montare, e la serie nonpertanto fosse continua. Aggiungi gli amori degli Dei verso le mortali e delle Dee verso i mortali (tanto gli antichi stimavano la bellezza umana), e il congiungersi di quelli o di queste con quelle o con questi (come se il divino e l'umano non fossero pur due specie assai prossime, ma appresso a poco una stessa, così diversa, come in molte specie d'animali vi sono delle sottospecie, altre più forti, belle, maggiori ec. altre meno), e il generarsi o partorirsi figliuoli mortali dagli Dei e dalle Dee, mortali affatto, o semidei, come Bacco. ec.
(28. Sett. 1823.)
Il più deciso effetto, e quasi la somma degli effetti che produce in un uomo di raro ed elevato spirito la cognizione e l'esperienza degli uomini, si è il renderlo indulgentissimo verso qualunque maggiore e più eccessiva debolezza, piccolezza, sciocchezza, ignoranza, stoltezza, malvagità , vizio e difetto altrui, naturale o acquisito; laddove egli era verso queste cose severissimo prima di tal cognizione; e il renderlo facilissimo ad apprezzare e lodare le menome virtù e i piccolissimi pregi, che innanzi alla detta esperienza ei soleva dispregiare, non curare, stimare indegni di lode, e quasi confondere o non distinguere dalle [3546]imperfezioni; insomma il renderlo facilissimo e solito a stimare, e difficilissimo, insolito, anzi quasi dimentico del dispregiare e del non curare, tutto all'opposto di quel ch'egli era per lo innanzi. Tanto poco vagliono gli uomini. E da ciò si può dedurre e far esatto giudizio quanto sia il valor vero e la virtù vera degli uomini.
(28. Sett. 1823.). V. p.3720.
In una città piccola, massime dove sia poca conversazione, non essendo determinato il tuono della società , (neppur un tuono proprio particolarmente d'essa città , qual sempre sarebbe in una città piccola, quando veggiamo che anche le grandi hanno sempre notabilissime nuances di tuono lor proprio, e differenze da quello dell'altre, anche dentro una stessa nazione) ciascun fa tuono da se, e la maniera di ciascuno, qual ch'ella sia, è tollerata e giudicata per buona e conveniente. Così a proporzione in una nazione, dove non v'abbia se non pochissima società , come in Italia. Il tuono sociale di questa nazione non esiste: ciascuno ha il suo. Infatti non v'è tuono di società che possa dirsi italiano. Ciascuno italiano ha la sua maniera di conversare, o naturale, o imparata dagli stranieri, o comunque acquistata. Laddove in una nazione socievole, e così a proporzione in una città grande, non è, non solo stimato, ma neppur tollerato, chi non si [3547]conforma alla maniera comune di trattare, e chi non ha il tuono degli altri, perchè questa maniera comune esiste, e il tuono di società è determinato, più o meno strettamente, e non è lecito uscirne senza esser messo, nella società ec., fuor della legge, e considerato come da men degli altri, perchè dagli altri diverso, diverso dai più.
(28. Sett. 1823.)
Circa la radice monosillaba di jungo da me notata altrove in con-iux o con-iunx ec. aggiungi bi-iux o bi-iunx, il quale io credo che sia il vero nominativo del genitivo biiugis, e non, come scrive il Forcell., biiugis biiuge. Ben credo che il detto nominativo non si trovi, ma neanche, io credo, questo secondo, e quello mi par più conforme all'analogia di coniux ec. Dicesi ancora biiugus a um.
(29. Sett. Festa di S. Michele Arcangelo. 1823.)
Radice monosillaba di capio, come altrove ec. For-ceps. Di facio For-fex.
(29. Sett. 1823.)
Scambio del g e del v di cui altrove. [3548]Parvolo, parvulo, parvulino (vera pronunzia, da parvulus, e nondimeno disusata). - Pargolo (antico), pargoletto, pargoleggiare ec. (moderni ed usati).
(29. Sett. 1823.)
Insetare (che noi volgarmente ma più correttamente diciamo insitare, e forse così tutti fuor di Toscana, come anche diciamo insito per innesto) è continuativo di insero-insevi-insitus (diverso da insero erui ertum); e ben s'ingannerebbe chi lo facesse tutt'uno coll'altro insetare (da seta) come par che faccia la Crusca. Il franc. enter forse ha la stessa origine, se non è fatto dal nome ente. Gli spagnuoli hanno in questo significato il verbo originale enxerir (insero, insitum o ertum), come ancor noi l'abbiamo oltre al sopraddetto, ma tra noi è tutto poetico, cioè introdotto da' poeti, e da loro usato; benchè da essi pigliandolo, anche in prosa ben l'useremmo.
(29. Sett. 1823.)
Il fine del poeta epico (e simili, e in quanto gli altri gli son simili), non dev'esser già di narrare, ma di descrivere, di commuovere, di destare [3549]immagini e affetti, di elevar l'animo, di riscaldarlo, di correggere i costumi, d'infiammare alla virtù, alla gloria, all'amor della patria, di lodare, di riprendere, di accender l'emulazione, di esaltare i pregi della propria nazione, de' propri avi, degli eroi domestici ec. Tutti questi o parte di questi hanno da essere i veri e proprii fini del poeta epico, non il narrare; ma il poeta epico dee però fare in modo che apparisca il suo vero e proprio, o certo principal fine, non esser altro che il narrare. Appena merita il nome di poesia un poema il quale in verità non faccia altro che raccontare, cioè non produca altro effetto che di stuzzicare e pascere la semplice curiosità del lettore, ossia coll'intreccio bene intrigato e avviluppato, ossia con qualunque mezzo. Queste sono piuttosto novelle che poesie, per quanto l'azione raccontata potesse esser nobile sublime interessante ec. (Di questa specie sono l'Orlando innamorato, il Ricciardetto e simili). E possono ben essere di questa natura anche i poemi tessuti o sparsi d'invenzioni capricciose e di favole ec. come i veri poemi. Anche favoleggiando [3550]sempre o quasi sempre, un poema può non far veramente altro che raccontare. Questi tali non sono poemi perchè il poeta ha veramente e principalmente per fine quel ch'ei non dee senon far vista di avere, cioè il narrare. Ma per lo contrario i poemi pieni di lunghe descrizioni, di dissertazioni e declamazioni morali, politiche ec., di sentenze, di elogi, di biasimi, di esortazioni, di dissuasioni ec. in persona del poeta ec. e di simili cose, non sono poemi epici ec. perchè il poeta mostra veramente di avere per principali fini, quei ch'e' non deve se non avere senza mostrarlo.
(29 Sett. 1823.). V. p.3552.
Alla p.2861. fine. Questa proposizione corrisponde a quell'altra da me in più luoghi esposta, che il piacere è sempre o passato o futuro, non mai presente, e che quindi non v'ha momento alcuno di piacer vero, benchè possa parere. Così non v'ha nè vi può aver momento alcuno senza vero patimento, benchè possa parer che ve n'abbia (perocchè il patimento venendo a essere perpetuo...
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