[Pagina precedente]...ioè proprie dell'antichissimo latino, antiquate o non mai ammesse nello scritto, ammesse e perpetuamente conservate nel volgare, come di molte e frasi e voci, ancor viventi fra noi, o no, greche o qualunque, ec. s'è fatto da noi vedere manifestamente essere accaduto: massime ne' nostri discorsi sui continuativi. ec.
(7. Ott. 1823.).
Monosillabi latini. Falx, calx (calcagno).
(7. Ott. 1823.)
Participii in us di verbi neutri in senso neutro. V. Forcell. in Desitus confrontando quegli esempi col quarto esempio di Desino appresso il medesimo Forcellini.
(7. Ott. 1823.)
Materia p. legno, legname. Del qual significato ho detto altrove in proposito della voce silva e d'???. V. Forc. in materiarius, materiatio, materiatura, materiatus, materio, materior. In ispagnuolo oltre madera per legno, v'è maderamen per legname, ec. ec.
(7. Ott. 1823.)
[3622]Sempre che l'uomo non prova piacere alcuno, ei prova noia, se non quando o prova dolore, o vogliamo dir dispiacere qualunque, o e' non s'accorge di vivere. Or dunque non accadendo mai propriamente che l'uomo provi piacer vero, segue che mai per niuno intervallo di tempo ei non senta di vivere, che ciò non sia o con dispiacere o con noia. Ed essendo la noia, pena e dispiacere, segue che l'uomo, quanto ei sente la vita, tanto ei senta dispiacere e pena. Massime quando l'uomo non ha distrazioni, o troppo deboli per divertirlo potentemente dal desiderio continuo del piacere; cioè insomma quando egli è in quello stato che noi chiamiamo particolarmente di noia. V. p.3713.
(7. Ott. 1823.)
Vermiglio, vermeil, vermejo vien da vermiculus, come a pagg.3514. fine e 3515. fine. Or dunque questa voce vermiculus è comune a tutte e tre le lingue figlie per significare il rosso ec. Dunque dico io che questo significato di vermiculus dovette essere del volgare latino. E tanto più, quanto è noto che il color della porpora ec. si faceva appunto con certi vermicelli. V. gli antiquarii, e fra gli altri la Dissertaz. del Cav. Rosa sulla porpora. Onde è naturalissima la metafora da' vermicelli, vermiculi, al color rosso, e specialmente al rosso profondo, vermiglio, qual doveva essere [3623]quel della porpora, che noi ben potremmo chiamare vermiglia. Niente meno che sia naturale la metafora da' vermicelli a quell'opus vermiculatum, che si trova detto pure vermiculus (vedi Forcell.). Anzi assai più naturale è quella che questa. E notisi che l'uso di fare il color della porpora ec. co' vermetti, fu dismesso da gran secoli addietro, tanto che ora non si può certamente sapere che sorta di vermetti fossero quelli. E s'io non m'inganno, l'uso medesimo della porpora propria, fu tralasciato ne' tempi bassi a causa del suo gran costo, e della povertà di que' tempi, e dell'interrotto commercio colle Indie, donde, se non fallo, s'avevano que' vermicelli, o dove le porpore si fabbricavano ec. Laonde, essendo evidentissimo che il significato di rosso a vermiculus venne dal detto uso; ed essendo questo uso antichissimo, e fino ab antichissimo dimenticato o tralasciato; ed essendo detta significazione comune a tutte le tre lingue figlie della latina, le quali da' tempi romani in poi, non ebbero fra loro alcun commercio diretto e notabile ec. se non negli ultimi tempi; ed essendo detta voce e significazione in tutte tre le lingue antica e propria [3624]e natia ec., parmi evidente che vermiculus per rubicondo, purpureo ec. fu dell'antico volgare latino altrettanto che de' moderni, e di là viene. V. il Gloss. se ha nulla. V. anche il Forcell. circa il proprio color della porpora o purpureo, in purpura, purpureus ec. Secondo lui però la porpora si faceva non con vermi, ma con una sorta di conca marina detta purpura. Il color coccineus si facea colla grana. Il conchyliatus colla stessa conchiglia detta purpura, o con altra simile ec. Certo la nostra cocciniglia è un color fatto d'una specie di vermi, che anch'essi si chiamano cocciniglie. Così conchylium è la conchiglia e il colore che se ne fa. Così dunque vermiculus fu il verme e il colore. Similmente coccum, conchylium, ?????????, sono sì la grana o la conchiglia, sì la lana, il panno, la veste, il filo, tinti con esse. Fucus si trova eziandio pel colore fatto del fuco.
(7. Ott. 1823.). V. p.3632.
Purgito as da purgo as.
(7. Ott. 1823.)
Il v non fu che un'aspirazione che si metteva, per evitare l'iato, fra più vocali; e tralasciavasi spessissimo ec. ec. come altrove in più luoghi. [3625]V. il Forcellini in Fuam.
(7. Ott. 1823.)
Alla p.2821. fine. Nótisi il significato continuativo di confuto nell'esempio di Titinnio appo il Forcell. dove questo verbo sta nel senso proprio, e questo si è quello di confundo, ma continuato, come excepto in un luogo di Virgilio da me altrove esaminato, per excipio. Nótisi ancora che nell'improprio suo ma più comune significato, confuto è vero continuativo di confundo. Anche noi diciamo (e così i francesi ec.) confondere uno colle ragioni, confondere le ragioni di uno, confondere l'avversario ec. e ciò vale confutare, ma questo esprime azione e quello è quasi un atto, e quasi il termine e l'effetto del confutare ec. Le quali osservazioni confermano la derivazione di confuto da noi e dagli etimologi stabilita. Così mi par di spiegare la traslazione del suo significato da quel di mescere insieme a quel di confutare, e così mi par di doverlo intendere; non ispiegarlo per compescere e derivar la metafora da questo lato, come fa il Vossio (ap. Forcell.) il quale anche [3626]par che derivi confuto da futum nome (dunque da questo anche futo?), per la solita ignoranza in materia de' continuativi. E se tal derivazione egli dà (come è anche più naturale ch'ei faccia) anche al confuto di Titinnio, e lo spiega pure per compesco, s'inganna assai. Significazioni analoghe a quella nostra metaforica di confondere gli avversari ec. vedile nel Forcell. in confundo, confusio, confusus, ec.151 e nel Gloss. in Confundere, avvertendo che la lingua latina antichissima aveva delle metafore e degli usi di parole molto più simili ai moderni che non ebbe poi l'aurea latinità , o piuttosto il latino più illustre scritto; e n'ebbe in grandissima copia; e che queste parole e questi usi, e generalmente le proprietà del volgare o familiar latino, più si veggono negli scrittori de' bassi tempi (or v. gli esempi di Sulpicio Severo nel Forc. in confundo e confusus), e ne' volgari moderni che negli aurei scrittori, perchè questi seguivano più l'illustre, e quelli il familiare, questi fuggivano il volgo, e quelli o per ignoranza o [3627]per elezione, gli andavan dietro, questi avevano una lingua illustre e una parlata, quelli non avevano già più una lingua illustre che fosse per essere intesa quando anche l'avessero saputa scrivere, ma lingua scritta e parlata era per loro una cosa sola, o tra se molto meno diversa che non nell'aureo secolo e ne' prossimi a quello. Siccome eziandio tra gli scrittori aurei, i più antichi e i più familiari, semplici e rimessi di stile, più conservano dell'antico latino, più rappresentano della frase volgare e parlata, più hanno delle voci e locuzioni, e delle significazioni ed usi di voci, conformi ai volgari. Così Cornelio, Fedro, Celso ec. più somigliano quella degli scrittori bassi e de' volgari moderni. I più antichi (coi quali vanno quelli che più si tennero all'antico per loro instituto, come Varrone, Frontone ec.) perchè il linguaggio illustre e scritto non era ancor ben formato e determinato, nè molto nè ben distinto dal parlato e familiare. I più semplici e rimessi perchè o per istituto o per un poco meno di abilità nello scrivere e minore studio fatto della lingua, o minor diligenza posta nel comporre, non vollero o non seppero troppo scostarsi dal linguaggio più noto e succhiato da loro col latte, cioè dal familiare e parlato. Onde a noi [3628]paiono amabilissimi e pregevolissimi per la loro semplicità ec. ma certo a' contemporanei dovettero riuscire poco colti. Osservo infatti che fra gli scrittori dell'aureo secolo quelli che fra noi tengono le prime lodi per la semplicità e dello stile e della lingua (la quale in loro è sempre notabilmente affine alla frase italiana e moderna, ed anche a quella de' tempi bassi), o non si trovano pur nominati dagli antichi, o appena, o in modo che la loro stima si vede essere stata come di autori, al più, di second'ordine. Tali sono Cornelio Nepote, Celso, Fedro, giudicato dal Le Fèvre il più vicino alla semplicità di Terenzio (v. Desbillons Disputat. II. de Phaedro, in fine), e simili. De' quali gli stessi moderni, vedendo la diversità della loro frase da quella degli altri aurei, e giudicandola non latina (perchè non molto illustre) hanno disputato se appartenessero al secol d'oro, ed anche se fossero antichi, ed hanno penato a riconoscerli per autori dell'aurea latinità ; e le Vite di Cornelio sono state attribuite ad Emilio Probo (autore assai basso) per ben lungo tempo e in molte edizioni ec., Celso è stato creduto più moderno di quello che è, ec. Fedro è stato attribuito al Perotti, [3629]e negato da molti che la sua latinità fosse latina ec. (v. la cit. Disput. del Desbillons). Non così è accaduto nè anticamente accadde agli scrittori greci più semplici. Effetto e segno che il linguaggio illustre in Grecia era, come altrove ho sostenuto, assai men diviso dal volgare e parlato, e che la lingua e lo stile greco per sua natura e per sua formazione e circostanze è più semplice ec. Onde lo stile e la lingua p.e. di Senofonte fu subito acclamata, non men che fosse quella di Platone ch'è lavoratissima, ec. e gli scrittori greci più semplici e familiari non hanno aspettato i tempi moderni a divenir famosi e lodati ec. Senofonte e Platone nel loro secolo sono i due estremi quello della semplicità e bella sprezzatura, questo dell'eleganza, diligenza e artifizio. Pur l'uno e l'altro furono sempre quanto allo stile quasi parimente stimati da' Greci e contemporanei e posteri, e così da' latini e dagli altri in perpetuo ec.
(8. Ott. 1823.)
A proposito del detto da me altrove sopra il verbo necessitare, notinsi i verbi felicitare, debilitare, nobilitare, impossibilitare, facilitare, difficultare, ereditare e simili che son fatti evidentemente da [3630]felicità , eredità e simili, ovvero da felicitas, hereditas ec.
(8. Ott. 1823.)
Quanto fosse incerta l'ortografia stessa italiana (che oggi è la più giusta di tutte) anche nel 600, cioè nel secolo dopo il miglior secolo della nostra letteratura, veggasi la prefazione all'ortografia del Bartoli, (uomo che fra tutti del suo tempo, e fors'anche di tutti i tempi, fu quello che e per teoria e scienza e per pratica, meglio e più profondamente e pienamente conobbe la nostra lingua), e il consiglio che quivi egli dà a chi vuole scrivere, di pigliarsi cioè o di formarsi un'ortografia a suo modo, e quella sempre seguire; consiglio che niuno certamente darebbe oggi in Italia ad alcuno, nè vi sarebbe più che una ortografia da poter pigliare cioè scegliere ec. Ma al contrario era allora, dopo tre secoli e più che si scriveva la nostra lingua, e ciò da letterati, non sol per uso della vita.
(8. Ott. 1823.)
Le forme regolari e perfette ec. de' participii e supini (e anche de' perfetti e lor dipendenze) della seconda e terza maniera massimamente, da me [3631]stabilite e richiamate nei verbi che più non le hanno, sono, oltre gli altri argomenti, confermate da' verbi delle stesse maniere che ancor le hanno, e che ne' participii o supini son regolari e perfetti, sia ch'essi abbiano anche degl'irregolari, o che gl'irregolari solamente; e ch'essi sieno regolari e perfetti in tutto, o che senza ciò lo sieno ne' participii o supini. P.e. habeo habes habui, verbo tutto regolare e perfetto, fa habitum e habitus a um, non habtum. Perchè dunque doceo doces docui, doctum, non docitum?152 E da tali osservazioni si vede che questo paradigma e quello di lego sono male scelti ad uso delle grammatiche, perchè ambo irregolari, o vogliamo dire alterati dalla prima lor forma, e dalla vera f...
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