[Pagina precedente]...n consentaneo negli animali. La natura è vita. Ella è esistenza. Ella stessa ama la vita, e proccura in tutti i modi la vita, e tende in ogni sua operazione alla vita. Perciocch'ella esiste e vive. Se la natura fosse morte, ella non sarebbe. Esser morte, son termini contraddittorii. S'ella tendesse in alcun modo alla morte, se in alcun modo la proccurasse, ella tenderebbe e proccurerebbe contro se stessa. S'ella non proccurasse la vita con ogni sua forza possibile, s'ella non amasse la vita quanto più si può amare, e se la vita non fosse tanto più cara alla natura, quanto maggiore e più intensa e in maggior grado, la natura non amerebbe se stessa (vedi la pagina 3785. principio), non proccurerebbe se stessa o il proprio bene, o non si amerebbe quanto più può (cosa impossibile), nè amerebbe il suo maggior [3814]possibile bene, e non proccurerebbe il suo maggior bene possibile (cose che parimente, come negl'individui e nelle specie ec., così sono impossibili nella natura). Quello che noi chiamiamo natura non è principalmente altro che l'esistenza, l'essere, la vita, sensitiva o non sensitiva, delle cose. Quindi non vi può esser cosa nè fine più naturale, nè più naturalmente amabile e desiderabile e ricercabile, che l'esistenza e la vita, la quale è quasi tutt'uno colla stessa natura, nè amore più naturale, nè naturalmente maggiore che quel della vita. (La felicità non è che la perfezione il compimento e il proprio stato della vita, secondo la sua diversa proprietà ne' diversi generi di cose esistenti. Quindi ell'è in certo modo la vita o l'esistenza stessa, siccome l'infelicità in certo modo è lo stesso che morte, o non vita, perchè vita non secondo il suo essere, e vita imperfetta ec. Quindi la natura, ch'è vita, è anche felicità.). E quindi è necessario alle cose esistenti amare e cercare la maggior vita possibile a ciascuna di loro. E il piacere non è altro che vita ec. E la vita è piacere necessariamente, e maggior piacere, quanto essa vita è maggiore e più viva. La vita generalmente è tutt'uno colla natura, la vita divisa ne' particolari è tutt'uno co' rispettivi subbietti esistenti. Quindi ciascuno essere, amando la vita, ama se stesso: pertanto non può non amarla, e non amarla quanto si possa il più. L'essere esistente non può amar la morte, (in quanto la morte abbia rispetto a lui) veramente parlando, non può tendervi, non può proccurarla, non può non odiarla il più ch'ei possa, in veruno istante dell'esser suo; per la stessa ragione per cui egli non può [3815]odiar se stesso, proccurare, amare il suo male, tendere al suo male, non odiarlo sopra ogni cosa e il più ch'ei possa, non amarsi, non solo sopra ogni cosa, ma il più ch'egli possa onninamente amare. Sicchè l'uomo, l'animale ec. ama le sensazioni vive ec. ec. e vi prova piacere, perch'egli ama se stesso.
(31. Ott. 1823.)
Al mio discorso sopra avvisare, divisare ec. aggiungi il franc. Deviser.
(31. Ott. 1823.)
Alla p.2928. fine. Noi abbiamo ancora, bensì in diversi significati, intenso ed intento. (intensità ec.). V. i francesi e gli spagnuoli. Nel lat. intensus è ben raro. V. Forcell. Tensus è de' più moderni. Extensus ec. e gli altri composti, veggasene il Forcellini.
(1. Nov. 1823.)
Come altrove ho congetturato dalla voce ?????, anche nel greco, come sì sovente in latino, lo spirito denso si cangia talora in s. Peresempio, da ??? ?????? ec. V. i Lessici. Così in lat. sal, salum ec. dalla stessa voce.
(1. Nov. 1823.)
A quello che nella teoria de' continuativi ho detto per mostrare che sector aris è contrazione di secutor, aggiungi persector aris, che i francesi dicono infatti persécuter, noi perseguitare, e gli spagnuoli se non fallo, persecutar.
(1. Nov. 1823.)
Alla p.3036. marg. Periurus, cioè qui peieravit, o periuravit, non sembra essere altro che contrazione di periuratus (che pur si trova, come anche peieratus, in senso passivo), siccome coniuratus, qui coniuravit; iuratus, qui iuravit ec. (iuratus ha pure il senso passivo: non così periurus).
(1. Nov. 1823.)
[3816]Participii in us in senso attivo o neutro ec. Periurus. V. il pensiero precedente (1. Nov. 1823.). Giurato, juré ec.
Alla p.2779. Al contrario da ??? fur ec.
(1. Nov. 1823.)
Diminutivi positivati. Libella (it. livella, livello, franc. niveau, spagn. se non erro, nivel; livellare ec., niveler ec., ec.) per libra che pur si dice nello stesso significato. V. Forcellini. Circulus (circulo as, circularis ec. ec.) per circus, voce antiquata ec. (benchè pur si trova) se non nel senso dell'anfiteatro romano ec. ec. V. Forc.
(2 Nov. 1823.)
Mestare, rimestare ec. da misceo-mixtus o mistus, quasi mistare o mixtare. V. il Gloss. i Diz. franc. e spagn. ec. (2. Nov. dì de' morti. 1823.). Expulser franc. da expellere-expulsus, come da pello-pulsus, pulso as ec. V. Forcell. in expulso ed expulsatus.
(2. Nov. dì de' morti. 1823.)
Alla p.3067. Non altrimenti, al tempo di Voltaire e in quei contorni (quando l'unica letteratura d'Europa era, si può dir, la francese, benchè già ben decaduta; essendo spenta l'italiana e la spagnuola; la tedesca non ancor nata, o bambina, o tutta francese; l'inglese quasi interrotta, o francese anch'essa, ma già priva de' capi di quella scuola anglo-gallica, cioè Pope, Addison, ec.: e parlo qui della letteratura non delle scienze e filosofia, dove gl'inglesi anche allora fiorivano), le epistole e poesie indirizzate o da Voltaire medesimo o dagli altri poeti francesi ai principi di Svezia, di Russia, d'Alemagna ec. o composte in loro lode, o su di loro, o sui loro affari, o sugli avvenimenti ec. si leggevano, si applaudivano, si ricercavano, si diffondevano, davano materia di discorso nelle rispettive corti e capitali, e nell'altre corti d'Europa ec. e da' rispettivi principi ec. (lasciando anche da parte il re e la corte [3817]e capitale, e quasi tutto il regno, di Prussia, ch'era tutta francese ec.). Così anche l'altre opere in versi o in prosa, di francesi o scritte in francese, di letteratura e di poesia, non che di filosofia ec. Sicchè la lingua italiana occupava nel sopraddetto tempo il grado che la francese non solo occupa presentemente, ma quello ancora che occupò quando essa letteratura francese era unica; sì per universalità e diffusione, sì per riputazione, dignità, gusto e cura diffusane generalmente ec. come si vede anche per questa somiglianza d'esser ella in quei tempi così e sopra tutte gradita nelle corti, come lo fu nel 700, oltre la lingua, che ancor lo è sopra tutte, anche la letteratura francese, che or non lo è più se non di pari coll'altre moderne (dal qual numero l'italiana d'oggidì è fuori niente meno che la spagnuola).
(2. Nov. dì de' morti. 1823.)
Alla p.2685. marg. ???, ???? ec. significa anche mancare mancante ec., e tale si è appresso appoco il suo significato nelle dette frasi, onde elle sono le stesse che le addotte italiane. Similmente il francese falloir vale propriamente mancare (dal lat. fallere, spagn. faltar, it. fallire, fallare ec. ed anche in franc. faillir), e riunisce i significati di mancare e bisognare appunto come il greco ???, o l'impersonale ???. Simiglianza che non è da trascurare nè dev'esser casuale ec. Nelle addotte frasi il suo significato è parimente di mancare. In greco si dice anche semplicemente ??????, ??????, ??????, senza il verbo ???? per fere, quasi ec. come noi per poco e di poco senz'altro verbo. V. la Crusca in di poco e in per §.98. e i Lessici greci. Si dice ancora in greco assolutamente ?????? [3818]????, ??????, ?????? ????. Ovvero concordato col subbietto ?????? ??????, ??????? ec. Ovvero p.e. ????? ?????? ?????? cioè diciotto ec., ?????? ???? ???? cioè quasi uguale ec. Anche si dice ???? ?????? ?????? ????? ?????? che risponde precisamente al nostro per poco mancai di far questo: ovvero di poco ec. V. i Lessici in ???. Qua si dee riferire il nostro di gran lunga e d'assai (à beaucoup près) in quelle frasi: egli non è di gran lunga, o d'assai, così grande (beaucoup s'en faut). Ovvero ei non fu ec. (beaucoup s'en fallut ec.). Dove il verbo mancare o simile, è soppresso, come nelle frasi greche ?????? ovvero ?????? ????????, ?????? ??????? e simili, dove è taciuto il verbo ????. ?????? così assoluto non mi par che si dica.
(3. Nov. 1823.)
Alla p.3573. Questa proposizione è molto azzardata. Bisogna intenderla lassamente. Per rispetto alla lingua francese è vera, parlando generalmente. Ma per rispetto all'italiana, dubito che sia vero neppur generalmente, ben compensate che sieno insieme le conformità estrinseche che hanno le lingue italiana e spagnuola colla latina. Il suono della lingua spagnuola ha più del latino, ma questa è quasi un'illusione de' sensi. Perchè quei tali suoni latini non sono nello spagnuolo a quei luoghi in cui erano nel latino. Per esempio la moltitudine degli s contribuisce, e forse principalmente, a rassomigliare il suon dell'una lingua a quello dell'altra. Ma lo spagnuolo abbonda di s, principalmente perchè in essa [3819]lingua tutti i plurali terminano in quella lettera. Non così in latino. (Vero è però che in latino la terminazione in s è propria di tutti gli accusativi plurali non neutri. Ora, secondo Perticari, i nomi latini trasportati nelle lingue figlie, son tutti fatti dagli accusativi delle declinazioni rispettive latine. Quindi che nello spagnuolo la terminazione in s sia caratteristica de' plurali, potrebb'esser preso dal latino, e cosa anch'essa latina. E quest'osservazione può essere di non poco peso a confermare l'opinione di Perticari; (sebben ei parla solamente de' singolari, i quali fatti dall'accusativo latino generano poi i plurali al modo nostro) mentre altri con più apparenza di ragione, ma forse men verità, vogliono che i nostri nomi sieno gli ablativi latini. P.e. amore ec. Ma veramente non si vede perchè, dovendosi perder l'uso degli altri casi, e restare un solo per tutti, com'è avvenuto nelle lingue moderne, e come, certo in gran parte, dovette avvenire anche nell'antico latino volgare e parlato, avesse a prevaler l'uso dell'ablativo. Ben è consentaneo che l'accusativo si usasse in vece degli altri casi ec. v. p.3907. L'aggiunger sempre la es ai singolari terminati in consonante non è uso latino, se non in certi casi, e nella terza declinazione. (Noi per la terminazione de' plurali imitiamo i nominativi latini della seconda e della prima. Sicchè quanto alla terminazione de' plurali, la conformità dello spagnuolo col latino, supposta eziandio e conceduta, come sopra, non si può dire che superi punto quella dell'italiano. Del resto quel continuo s che si sente nello spagnuolo fa un suono che tutto insieme considerato è così poco, o tanto, latino, quanto le continue terminazioni vocali dell'italiano. Il latino è temperato di queste e di quelle, ed eziandio insieme d'altre molte terminazioni; sicchè veramente il suo suono, parlando pure in generale e astrattamente non è nè quello dell'italiano nè anche quello dello spagnuolo. Ben è vero che nello spagnuolo le terminazioni consonanti sono miste come in latino, alle vocali, laddove in italiano non v'ha quasi che le vocali; e nello spagnuolo, benchè la terminazione in s sia, almeno tra le consonanti, la più frequente, pur v'ha diverse terminazioni consonanti, come in latino; e niuna terminazione in consonante, che non sia propria, credo, anche del latino (al contrario che in francese in tedesco ec.), benchè non sempre, anzi non il più delle volte, ne' casi stessi; e le terminazioni vocali son piane come in latino e non acute ossia tronche come in francese. Sotto questi aspetti il suono dello spagnuolo è veramente più conforme al latino che non è non solo il francese ma neppur l'italiano. E da queste ragioni nasce che udendo lo spagnuolo si possa più facilmente confonderlo col latino che non fa il francese nè anche l'italiano. E questo effetto, sotto questi aspetti, non è un'illusione, nè una cosa che non meriti esser considerata, e che non abbia un principio e una ragione di conformità o simiglianza rea...
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