[Pagina precedente]..., è noia, la quale è pur passione. Or che vuol dire che il vivente, sempre che non gode nè soffre, non può fare che non s'annoi? Vuol dire ch'e' non può mai fare ch'e' non desideri la felicità , cioè il piacere e il godimento. Questo [3715]desiderio, quando e' non è nè soddisfatto, nè dirittamente contrariato dall'opposto del godimento, è noia. La noia è il desiderio della felicità , lasciato, per così dir, puro. Questo desiderio è passione. Quindi l'animo del vivente non può mai veramente essere senza passione. Questa passione, quando ella si trova sola, quando altra attualmente non occupa l'animo, è quello che noi chiamiamo noia. La quale è una prova della perpetua continuità di quella passione. Che se ciò non fosse, ella non esisterebbe affatto, non ch'ella si trovasse sempre ove l'altre mancano.
(17. Ott. 1823.). V. p.3879.
Alla p.3700. marg. Che la desinenza ui nel perfetto della 2da, sia stata introdotta nel modo che abbiam detto, mostrasi ancora col considerarla in alcuni verbi della 1a. Della quale niuno dubita che il perfetto regolare e proprio non sia quello in avi. Ma pur parecchi suoi verbi l'hanno in ui: domui, secui, vetui, necui, crepui ec. co' loro composti enecui, perdomui ec.173 Or da che è venuta quest'anomalia? Dalla stessa cagione che l'ha introdotta ne' verbi della 2da, [3716]nella quale ella, per esser più comune assai che nella prima, e più comune che non è ciascuna dell'altre desinenze, non si chiama anomalia, anzi regola; e piuttosto chiamasi anomalia quella in evi perchè divenuta più rara, e una di quell'altre meno comuni. Ma parlando esattamente e guardando all'origine, quella in ui è anomalia o alterazione nella seconda non meno che nella prima, e quella in evi è così regolare nella 2. come nella prima quella in avi. E più comune si è la desinenza in ui nella seconda che nella prima, perchè l'ommissione della vocale, da cui essa deriva, era ed è più facile e naturale circa la e che circa la a, lettera più vasta, per servirmi dell'espressione di Cicerone in altro proposito (Orat. c.45. circa l'x.). Del resto, come parecchi della seconda hanno il perfetto così in evi come in ui, qualunque de' due sia più comune, così tutti o quasi tutti quelli della 1. che l'hanno in ui, conservano pur quello in avi, o che questo sia in essi il più usitato, o viceversa. [3717]E tutti altresì, se non erro, hanno il supino in itum, come quelli della seconda ch'hanno il perfetto in ui (mentre quelli che l'hanno in evi conservano altresì il vero supino in etum, credo, tutti); ovvero in ctum contratto da citum (nectum, sectum ec.) come appunto lo sogliono avere quelli della seconda che hanno il perfetto in ui, come docui-doctum contratto da docitum.174 Plico as (v. Forc.) plicatus. Adplico, explico ec. avi atum, ui itum. Frico as ui ctum, fricatum. Perfrico ec. Sono as avi atum, ui, sonitus us. V. p.3868. Mico as ui, micatus us. Emico as ui, emicatio, emicatim. Ma molti di que' della 1. che hanno il supino in itum, conservano altresì, come il vero perfetto in avi, così il vero supino in atum (o il participio in atus o in aturus ec. ch'è tutt'uno, e lo dimostra) più o meno usitato di quello in itum, non altrimenti che alcuni della seconda conservino forse accanto del supino in etum il vero in etum. Dico, forse, perchè ora non me ne soccorre esempio.
(17. Ott. 1823.)
Alla p.2980. Immaginazione continuamente fresca ed operante si richiede a poter saisir i rapporti, le affinità , le somiglianze ec. ec. o vere, o apparenti, poetiche ec. degli oggetti e delle cose tra loro, o a scoprire questi rapporti, o ad [3718]inventarli ec. cose che bisogna continuamente fare volendo parlar metaforico e figurato, e che queste metafore e figure e questo parlare abbiano del nuovo e originale e del proprio dell'autore. Lascio le similitudini: una metafora nuova che si contenga pure in una parola sola, ha bisogno dell'immaginazione e invenzione che ho detto. Or di queste metafore e figure ec. ne dev'esser composto tutto lo stile e tutta l'espressione de' concetti del poeta. Continua immaginazione, sempre viva, sempre rappresentante le cose agli occhi del poeta, e mostrantegliele come presenti, si richiede a poter significare le cose o le azioni o le idee ec. per mezzo di una o due circostanze o qualità o parti di esse le più minute, le più sfuggevoli, le meno notate, le meno solite ad essere espresse dagli altri poeti, o ad esser prese per rappresentare tutta l'immagine, le più efficaci ed atte o per se, per questa stessa novità o insolitezza di esser notate o espresse, o della loro [3719]applicazione ed uso ec., le più atte dico a significar l'idea da esprimersi, a rappresentarla al vivo, a destarla con efficacia ec. Tali sono assai spesso le espressioni, o vogliamo dire i mezzi d'espressione, e il modo di rappresentar le cose e destar le immagini ec. nuove o novamente, e per virtù della novità del modo ec. ec. usati da Virgilio, e massime, anzi peculiarmente, e come caratteristici del suo stile e poesia, da Dante ec. ec. Tutte queste cose si richiedono in uno stile come quel di Virgilio (e più o meno negli altri: ma quel di Virgilio, in quanto stile, è precisamente il più poetico di quanti si conoscono, e forse il non plus ultra della poetichità ); e questi infatti sono i mezzi ch'egli adopera e gli effetti ch'egli consegue. Or non si possono adoperar tali mezzi, nè produr tali effetti (che con altri mezzi, nello stile, non si ottengono) senza una continua e non mai interrotta azione, vivacità e freschezza d'immaginazione. E sempre ch'essa langue, langue lo stile, sia pure immaginosissima e poetichissima l'invenzione e la qualità delle cose in esso trattate ed espresse. Poetiche saranno le cose, lo stile no; e peggiore sarà l'effetto, che se quelle ancora fossero impoetiche; per il contrasto e sconvenienza ec. che sarà tanto maggiore quanto quelle e l'invenzione ec. saranno più immaginose e poetiche. [3720]Del resto è da vedere la p.3388-9.
(17. Ott. 1823.)
Alla p.3546. I detti effetti accadono in un gran letterato, in un gran filosofo, in un gran poeta, in un gran professore di qualsivoglia o letteratura o arte o scienza o abilità ec. verso quelli che si arrogano quella medesima arte, e la professano. ec. Severissimi, disprezzantissimi, intollerantissimi a principio, non per superbia (anzi questi tali sono sempre modestissimi) ma per non trovar niuno che non sia indegnissimo di stima per se, o che meriti più che pochissimo nella sua professione; e disprezzanti nel cuor loro, piuttosto ch'esternamente; a poco a poco persuadendosi che insomma non v'è di meglio di coloro ch'ei disprezzava, dalla mancanza de' veramente stimabili piglia argomento e in ultimo abitudine di tollerare il niun merito, e di stimare e lodare il piccolissimo, e di celebrare e fino ammirare il mediocre (non per se ma per la sua rarità , finalmente conosciuta, e conosciuta per universale) e insomma di contentarsi del poco e pochissimo, e di dare alle cose non il [3721]peso assoluto ma il peso relativo che meritano. Sicchè gli si viene a fare ben raro il caso nel quale ei possa e sappia totalmente disprezzare.
Passo più oltre, e dico che l'essere disprezzante, non curante, severissimo, esigente, incontentabile, intollerante ec. o verso gli uomini in genere, o verso quelli della propria professione, è segno certo, vista la qualità del mondo, o d'inesperienza, e poca o niuna cognizione e pratica degli uomini, o di poco talento, che dall'esperienza non è persuaso e non ne cava il profitto e le conseguenze che deve, e non sa mai da pochi particolari generalizzare, ma per ciascun particolare che gli occorre nella vita ha bisogno di nuova ed apposita esperienza, ch'è il caso, la proprietà e il distintivo degli uomini di poco ingegno; o finalmente è segno di poco o niun valore sia in genere, sia nella sua professione, perchè sempre chi poco vale, non potendo giustamente estimar se stesso nè gli altri, è superbo verso se, e verso gli altri disprezzante. Laddove chi molto vale, ben potendo intendere ed estimare il suo valore e l'altrui, sia in genere sia nella sua professione, e compararlo [3722]ec. può giustamente dispensare e dispensa, almeno nel suo interno, tanto a se stesso quanto agli altri, il grado di stima o assoluta o almen rispettiva, che a ciascun si conviene, e si mette al disopra o al disotto degli altri, e questi al disopra gli uni degli altri, secondo il merito rispettivo ec.
(17-18. Ott. 1823.)
Alle cose da me dette nella teoria de' continuativi (sul principio) ed altrove, circa il verbo exspectare ec. aggiungi il franc. guetter che propriamente vuol dire osservare ec. e per metafora aspettare ec.
(18. Ott. 1823.)
Participii in us de' verbi attivi in senso attivo, ovvero neutro, o attivo intransitivo. Desperatus. Corn. Nep. in Attico c.8. lin. ult. Dove pare che desperatus sia qui desperavit.175
(18. Ott. 1823.)
Radice monosillaba di dico. Carisio e il Vossio credono che il genitivo dicis non venga da ????, ma da un dix, e spetti a dico ec. [3723]Probabilmente essi vorranno che dix venga da dico, ma sarebbe il contrario, come nella teoria de' continuativi s'è detto di lex, rex ec. Aggiungi grex monosillabo, significante un'idea primitivissima, e radice di più voci semplici e composte, come congregare ec. Simile dicasi di nubs. V. Forc.
(18. Ott. 1823.)
Alla p.3717. Quest'osservazione circa il trovarsi costantemente o quasi costantemente il supino in itum ne' verbi della 1. e della 2. ch'hanno il perfetto in ui, ancorchè e quel supino e quel perfetto ne' verbi della 1. senza controversia, e ne' verbi della 2. giusta le nostre osservazioni, sieno anomali ec.; par che dimostri una corrispondenza, una dipendenza che passasse nella lingua latina fra il perfetto e il supino (come fra il perfetto e i tempi che è già noto formarsi da questo, fra' quali niuno, ch'io sappia, ha mai ancora contato il supino); e che la formazione del supino seguisse e fosse determinata e modificata dalla forma del perfetto, e che in somma anche il supino nascesse in qualche modo dal perfetto, come assolutamente, in tutto, e senza controversia ne nasce il più che perfetto, il futuro dell'ottativo ec. ec. Questo sospetto si potrebbe anche, [3724]cred'io, confermare con molte altre osservazioni P.e. juvo as fa il perfetto iuvi, contratto da iuvavi o per evitare quel doppio v,176 o per effetto della pronunzia accelerata e confondente que' due v insieme: confusione e accelerazione passata poi in regola, onde venne iuvi solo perfetto di iuvo, e con un v solo e semplice. Perfetto che viene a essere anomalo, ma anomalia di cui ben si conosce l'origine e la cagione. Ora nel supino iuvo ha iutum per iuvatum. Participio anomalo, della cui anomalia non si conosce origine nè cagione, se non dicendo ch'egli è formato dal perfetto, il quale essendo iuvi, ne vien di ragione iutum, così bene come da iuvavi verrebbe iuvatum. V. Forcell. in Juvo fine. Si potrebbe però dire che iutum è fatto da iuvatum per evitare quel doppio u, benchè l'uno consonante l'altro vocale, e per sincope ed elisione dell'a, e per effetto di pronunzia ec. E certo non si può negare, perchè dà negli occhi, che qui il supino corrisponde al perfetto (e così in tutti i composti di iuvo; adiuvi, adiutum ec. ec.), e stolto sarebbe l'attribuire questa corrispondenza al caso, e il non volere, come sembra evidente, che l'anomalia del supino della quale non si vede ragione, venga [3725]da quella del perfetto la cui ragion si vede, e comparato col qual perfetto, e in ragione di lui, esso supino non è anomalo ec. ec. e il voler piuttosto che l'anomalia del supino sia casuale ec.
(18. Ott. 1823.). V. p.3732.
Alla p.3687. Quando però n'hanno alcuno. Giacchè grandissima e forse la maggior parte de' verbi in sco, non hanno nè perfetto nè supino alcuno, e niuno gliene attribuiscono i grammatici. Altra prova che niun di loro abbia perfetto nè supino proprio. Voglio dire che niun l'abbia oggidì, e avendolo, non sia il proprio. Giacchè anticamente l'ebbero...
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