[Pagina precedente]... come appartenente a pinsere (la quale appartenenza e parentela, quantunque il Forcellini non la riconosce o non la esprime, e fa derivar piso is, ed anche, a quel che pare, piso as dal greco ??????, qual ch'ella si voglia che sia, chi la può mettere in dubbio?) potrebbe anche riferirsi a quella categoria di cui p.2813. segg. e 2930. Ma le addotte ragioni mi persuadono piuttosto ch'esso appartenga dirittamente alla classe degli ordinarii continuativi. Forse piuttosto alla sopraddetta categoria potrebbe appartenere pinso as, se questo verbo fosse pur vero, del che vedi il Forcellini in pinso.
(10. Luglio 1823.)
Cespicare, incespicare, incespare. Vedi il Forcellini in Caespitator e il Glossario in Cespitare.
(10. Luglio. 1823.)
[2936]Le cose ch'esistono non sono certamente per se nè piccole nè vili: nè anche una gran parte di quelle fatte dall'uomo. Ma esse e la grandezza e le qualità loro sono di un altro genere da quello che l'uomo desidererebbe, che sarebbe, o ch'ei pensa esser necessario alla sua felicità , ch'egli s'immaginava nella sua fanciullezza e prima gioventù, e ch'ei s'immagina ancora tutte le volte ch'ei s'abbandona alla fantasia, e che mira le cose da lungi. Ed essendo di un altro genere, benchè grandi, e forse talora più grandi di quello che il fanciullo o l'uomo s'immaginava, l'uomo nè il fanciullo non è giammai contento ogni volta che giunge loro dappresso, che le vede, le tocca, o in qualunque modo ne fa sperienza. E così le cose esistenti, e niuna opera della natura nè dell'uomo, non sono atte alla felicità dell'uomo. (10. Luglio. 1823.). Non ch'elle sieno cose da nulla, ma non sono di quella sorta che l'uomo indeterminatamente vorrebbe, e ch'egli confusamente giudica, prima di sperimentarle. Così elleno son nulla alla felicità dell'uomo, non essendo un nulla per se medesime. E chi potrebbe chiamare un nulla la [2937]miracolosa e stupenda opera della natura, e l'immensa egualmente che artificiosissima macchina e mole dei mondi, benchè a noi per verità ed in sostanza nulla serva? poichè non ci porta in niun modo mai alla felicità . Chi potrebbe disprezzare l'immensurabile e arcano spettacolo dell'esistenza, di quell'esistenza di cui non possiamo nemmeno stabilire nè conoscere o sufficientemente immaginare nè i limiti, nè le ragioni, nè le origini; qual uomo potrebbe, dico, disprezzare questo per la umana cognizione infinito e misterioso spettacolo della esistenza e della vita delle cose, benchè nè l'esistenza e vita nostra, nè quella degli altri esseri giovi veramente nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici? ed essendo per noi l'esistenza così nostra come universale scompagnata dalla felicità , ch'è la perfezione e il fine dell'esistenza, anzi l'unica utilità che l'esistenza rechi a quello ch'esiste? e quindi esistendo noi e facendo parte della università della esistenza, senza niun frutto per noi? Ma con tutto ciò come possiamo chiamar vile e nulla quell'opera di cui non vediamo [2938]nè potremo mai vedere nemmeno i limiti? nè arrivar mai ad intendere nè anche a sufficientemente ammirare l'artifizio e il modo? anzi neppur la qualità della massima parte di lei? cioè la qualità dell'esistenza della più parte delle cose comprese in essa opera; o vogliamo dir la massima parte di esse cose, cioè degli esseri ch'esistono. Pochissimi de' quali, a rispetto della loro immensa moltitudine, son quelli che noi conosciamo pure in qualunque modo, anche imperfettamente. Senza parlar delle ragioni e maniere occulte dell'esistenza che noi non conosciamo nè intendiamo punto, neppur quanto agli esseri che meglio conosciamo, e neppur quanto alla nostra specie e al nostro proprio individuo.
(10. Luglio. 1823.)
Questo ch'io dico delle opere della natura, dicasi eziandio proporzionatamente di molte o grandi o belle o per qualunque cagione notabili e maravigliose opere degli uomini, o sieno materiali, o appartengano puramente alla ragione; o di mano o d'intelletto o d'immaginativa; scoperte, invenzioni, scienze, speculazioni ec. ec. [2939]discipline pratiche o teoriche; navigazioni, manifatture, edifizi, costruzioni d'ogni genere, opere d'arte ec. ec.
(11. Luglio. 1823.)
Dalle lunghe considerazioni da me fatte circa quello che voglia significare nella Genesi l'albero della scienza ec., dalla favola di Psiche della quale ho parlato altrove, e da altre o favole o dogmi ec. antichissimi, che mi pare avere accennato in diversi luoghi, si può raccogliere non solo quello che generalmente si dice, che la corruzione e decadenza del genere umano da uno stato migliore, sia comprovata da una remotissima, universale, costante e continua tradizione, ma che eziandio sia comprovato da una tal tradizione e dai monumenti della più antica storia e sapienza, che questa corruttela e decadimento del genere umano da uno stato felice, sia nato dal sapere, e dal troppo conoscere, e che l'origine della sua infelicità sia stata la scienza e di se stesso e del mondo, e il troppo uso della ragione. E pare che questa verità fosse nota ai più antichi sapienti, e una [2940]delle principali e capitali fra quelle che essi, forse come pericolose a sapersi, enunziavano sotto il velo dell'allegoria e coprivano di mistero e vestivano di finzioni, o si contentavano di accennare confusamente al popolo; il quale era in quei tempi assai più diviso per ogni rispetto dalla classe de' sapienti, che oggi non è: onde nasceva l'arcano in cui dovevano restare quei dogmi ch'essendo sempre proprii de' soli sapienti, non erano allora quasi per niun modo communicati al popolo, separato affatto dai saggi. Oltrechè in quei tempi l'immaginazione influiva e dominava così nel popolo, come anche nei sapienti medesimi, onde nasceva che questi, eziandio senz'alcuna intenzione di misteriosità , e senz'alcun secondo fine, vestissero le verità di figure, e le rappresentassero altrui con sembianza di favole. E infatti i primi sapienti furono i poeti, o vogliamo dire i primi sapienti si servirono della poesia, e le prime verità furono annunziate in versi, non, cred'io, con espressa intenzione di velarle e farle poco intelligibili, ma perchè esse si presentavano [2941]alla mente stessa dei saggi in un abito lavorato dall'immaginazione, e in gran parte erano trovate da questa anzi che dalla ragione, anzi avevano eziandio gran parte d'immaginario, specialmente riguardo alle cagioni ec., benchè di buona fede creduto dai sapienti che le concepivano o annunziavano. E inoltre per propria inclinazione e per secondar quella degli uditori, cioè de' popoli a cui parlavano, i saggi si servivano della poesia e della favola per annunziar le verità , benchè niuna intenzione avessero di renderle méconnaissables.
(11. Luglio 1823.)
Il principal difetto della ragione non è, come si dice, di essere impotente. In verità ella può moltissimo, e basta per accertarsene il paragonare l'animo e l'intelletto di un gran filosofo con quello di un selvaggio o di un fanciullo, o di questo medesimo filosofo avanti il suo primo uso della ragione: e così il paragonare il mondo civile presente sì materiale che morale, col mondo selvaggio presente, e più col primitivo. Che cosa non può la ragione umana nella speculazione? Non penetra ella fino all'essenza delle cose che esistono, ed anche di se medesima? non ascende fino al trono di Dio, e non [2942]giunge ad analizzare fino ad un certo segno la natura del sommo Essere? (Vedi quello che ho detto altrove in questo proposito). La ragione dunque per se, e come ragione, non è impotente nè debole, anzi per facoltà di un ente finito, è potentissima; ma ella è dannosa, ella rende impotente colui che l'usa, e tanto più quanto maggiore uso ei ne fa, e a proporzione che cresce il suo potere, scema quello di chi l'esercita e la possiede, e più ella si perfeziona, più l'essere ragionante diviene imperfetto: ella rende piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti sopra i quali ella si esercita, annulla il grande, il bello, e per così dir la stessa esistenza, è vera madre e cagione del nulla, e le cose tanto più impiccoliscono quanto ella cresce; e quanto è maggiore la sua esistenza in intensità e in estensione, tanto l'esser delle cose si scema e restringe ed accosta verso il nulla. Non diciamo che la ragione vede poco. In effetto la sua vista si stende quasi in infinito, ed è acutissima sopra ciascuno oggetto, ma essa vista ha questa proprietà che lo spazio e gli oggetti le appariscono tanto più piccoli quanto ella più si stende [2943]e quanto meglio e più finamente vede. Così ch'ella vede sempre poco, e in ultimo nulla, non perch'ella sia grossa e corta, ma perchè gli oggetti e lo spazio tanto più le mancano quanto ella più n'abbraccia, e più minutamente gli scorge. Così che il poco e il nulla è negli oggetti e non nella ragione. (benchè gli oggetti sieno, e sieno grandi a qualunqu'altra cosa, eccetto solamente ch'alla ragione). Perciocch'ella per se può vedere assaissimo, ma in atto ella tanto meno vede quanto più vede. Vede però tutto il visibile, e in tanto in quanto esso è e può mai esser visibile a qualsivoglia vista.
(11. Luglio 1823.)
Come gli antichi riponessero la consolazione, anche della morte, non in altro che nella vita, (del che ho detto altrove), e giudicassero la morte una sventura appunto in quanto privazion della vita, e che il morto fosse avido della vita e dell'azione, e prendesse assai più parte, almeno col desiderio e coll'interesse, alle cose di questo mondo che di quello nel quale stimavano pure ch'egli abitasse e dovesse eternamente abitare, e di cui lo stimavano divenuto per sempre un membro, si può vedere ancora in quell'antichissimo costume di onorar l'esequie e gli anniversari ec. di [2944]un morto coi giuochi funebri. I quali giuochi erano le opere più vivaci, più forti, più energiche, più solenni, più giovanili, più vigorose, più vitali che si potessero fare. Quasi volessero intrattenere il morto collo spettacolo più energico della più energica e florida e vivida vita, e credessero che poich'egli non poteva più prender parte attiva in essa vita, si dilettasse e disannoiasse a contemplarne gli effetti e l'esercizio in altrui.
(11. Luglio 1823.)
Gridano che la poesia debba esserci contemporanea, cioè adoperare il linguaggio e le idee e dipingere i costumi, e fors'anche gli accidenti de' nostri tempi. Onde condannano l'uso delle antiche finzioni, opinioni, costumi, avvenimenti. Puoi vedere la p.3152. Ma io dico che tutt'altro potrà esser contemporaneo a questo secolo fuorchè la poesia. Come può il poeta adoperare il linguaggio e seguir le idee e mostrare i costumi d'una generazione d'uomini per cui la gloria è un fantasma, la libertà la patria l'amor patrio non esistono, l'amor vero è una [2945]fanciullaggine, e insomma le illusioni son tutte svanite, le passioni, non solo grandi e nobili e belle, ma tutte le passioni estinte? Come può, dico, ciò fare, ed esser poeta? Un poeta, una poesia, senza illusioni senza passioni, sono termini che reggano in logica? Un poeta in quanto poeta può egli essere egoista e metafisico? e il nostro secolo non è tale caratteristicamente? come dunque può il poeta essere caratteristicamente contemporaneo in quanto poeta?
Osservisi che gli antichi poetavano al popolo, o almeno a gente per la più parte non dotta, non filosofa. I moderni all'opposto; perchè i poeti oggidì non hanno altri lettori che la gente colta e istruita, e al linguaggio e all'idee di questa gente vuolsi che il poeta si conformi, quando si dice ch'ei debba esser contemporaneo; non già al linguaggio e alle idee del popolo presente, il quale delle presenti nè delle antiche poesie non sa nulla nè partecipa in conto alcuno. Ora ogni uomo colto e istruito oggidì, è immancabilmente egoista e filosofo, privo d'ogni notabile illusione, spoglio di vive passioni; e ogni donna altresì. Come può il poeta essere per [2946]carattere e per ispirito, contemporaneo e conforme a tali persone in quanto poeta? che v'ha di poetico in esse, nel loro linguaggio, pensieri, opinioni, inclina...
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