[Pagina precedente]...e, è da obs e cillo as, e vale quasi obciere, obmovere, obcire. Dico poi cillo as, non cillo is come il Forc., perchè è chiaro che nel luogo di Festo cillent (optativo) è voce della prima; perchè cillo dev'essere stato un diminutivo di cio o di cieo, come conscribillo ec. (v. la p.2986.) che sono della prima, benchè conscribo ec. sieno della 3a; perchè veggo oscillans, oscillatio, e il nostro oscillare ec. e lo stesso Forc. dice oscillo as, non is. V. in Forc. tutte queste voci e oscillum e cilleo. Se oscillo as fosse fatto da cillo is o cilleo es, esso apparterrebbe a questa nostra categoria, come obstino as, da teneo es, ec. Non pare che il Forc. si sia accorto che cilleo o cillo spetta indubitatamente a cio, o cieo. E così dunque altresì ben si dice ostendo cioè obstendo, obstino non obtino. I più moderni trascurarono questa regola e dissero obtendo, obtineo ec. In luogo del qual ultimo verbo pare che gli antichi dicessero obstineo, in significato però di ostendo. V. Forcell. in obstinet. E forse molti verbi o voci latine composte comincianti per os, le quali si dicono formate dal nome os, non lo sono infatti che da obs, come p.e. oscen inis che si dice fatto da os e cano (quasi si cantasse mai con altro che con la bocca), viene forse veramente da obs e cano. Infatti occinere cioè obcinere (che secondo l'antica regola sarebbe stato obscinere, e quindi oscinere come ostendere, il quale anch'esso da taluno è scioccamente derivato da os, in manifesto dispetto del significato) si diceva degli uccelli d'augurio, e dal modo in cui Livio l'adopra par che questa voce fosse solenne in tal [3003]proposito. V. Forcell. in occino, occento, occentus, occano, obcantatus, obcanto. Io dubito anche molto che quelle voci che si dicono derivate da sursum contratto in sus (eccetto susque) come sustineo, sustollo, suspendo, suspicio ec. ec. vengano infatti da sub (terza preposizione terminata in b, come ob ed ab), e sieno originariamente substineo, substollo ec. introdotta la s per proprietà di lingua; e vagliano tener di sotto, innalzar di sotto, cioè esprimano l'azione che si fa di sotto in su, come in ispagn. subir non vale già scendere o andar sotto, ma salire, cioè andare di sotto in su. Così spesso il latino subire. V. Forcell. nel quale troverai ancora subvenio per supervenio. V. p.3558. Subrepere nel luogo di Plinio cit. dal Forc. v. Sauroctonus, non è propriamente altro che repere di sotto in su, poichè questo è (s'io ben mi ricordo) quel che fa la lucerta nell'Apollo Saurottono del museo pio-clementino, la quale non repit clam, ma scopertamente, e non iscende, ma salisce su per un albero. Plinio poi usò il tema repere come appropriato alla lucerta, ch'è quasi un reptile. Il detto Apollo è certo una copia di quel di Prassitele, di cui Plinio. Del resto l'inserimento della s trovasi ancora dopo altre preposizioni, ed appunto al caso nostro fanno destino e praestino fratelli carnali di obstino, fatti da de o prae e da teneo (v. Forc. in Destino e Praestino) e non già da un sognato stino, come vogliono alcuni. E questi due verbi eziandio, spettano alla categoria di cui parliamo, massime che essi, e [3004]specialmente destino hanno forza tutte continuativa.
(21. Luglio. 1823.)
Frequentissimo nell'italiano scritto, e più nello spagnuolo scritto e parlato si è l'uso del verbo andare, andar (non ir), in senso di essere. Ecco Seneca tragico (ap. Forc. in eo is, col. 3. princip.), Non ibo inulta. Notate che noi abbiam preso indubitatamente quest'uso dagli spagnuoli (infatti esso è frequentissimo nei nostri secentisti con cento altri spagnuolismi: nei 500 o 300isti, non si trova, ch'io mi ricordi, o mai o quasi mai). E Seneca appunto è spagnuolo. La frase dell'egizio Claudiano qui vindicet ibit, cioè erit, è d'altro genere, perchè nè gli spagnuoli nè gl'italiani non usano andare per essere se non seguìto effettivamente o potenzialmente da un aggettivo che ha forza di predicato.42 Qua si deono forse riferire le frasi, andar la bisogna, la cosa ec. così andò il fatto, così va per così è, va bene, come va la salute ec. ec. V. i Diz. francesi e spagnoli.
(21. Luglio. 1823.). V. p.3008.
[3005]Alla p.2844. Così lo spagn. avistar. - A questo discorso appartengono il franc. viser, deviser, francese antico, per s'entretenir familièrement etc. (V. il Gloss. Cang. in Visores, 2.) e l'ital. divisare, il quale però ancora, almeno in alcuni sensi, può esser continuativo barbaro di divido-divisus e lo stesso che il franc. diviser. V. la Crusca, e il Forc. e Gloss. s'hanno nulla.
A questo proposito è da notare circa la voce guisa, franc. guise, di cui altrove ho parlato, ch'ella non è altro che come dir visa, e dovette da principio significare aspetto, quel ch'apparisce e si vede, forma, onde poi modo, maniera, façon. Del primo significato e della forma ch'ebbe primieramente questa voce ne fanno fede il nostro divisa sust.43 (il quale non credo che venga da divisare per variare); il francese devise; divisato per de-formato, contraffatto, déguisé, travestito, che il Salvini disse barbaramente diguisato;44 divisamento per assisa. Guisar in ispagn. è vestire ec. Ma vedi i Diz. spagn. Travisare, travisato, travisamento, traviso vagliono travestire, quasi traguisar. Svisare vedilo nella Crusca. Veggasi il Gloss. se ha nulla.
(21. Luglio 1823.)
[3006]Suso, giuso. Così i più antichi latini per sursum deorsum. V. Forcellini in Susum ec. e il Gloss. se ha nulla.
Alla p.2814. Vindicare, indicare che risponderebbe forse a indicere com'educare a educere. Ma si può pur dubitare che quello venga da vindex icis, questo da index icis;45 e così iudicare da iudex icis, educare da un e-dux ucis, (in senso reciproco come redux da reduco) jugare da jux o junx jugis ch'esiste oggidì ne' composti coniux ec. come ho detto altrove. E così si può molto dubitare che tutta questa categoria di verbi venga da nomi verbali o noti o ignoti, non da' verbi originarii a dirittura. In ogni modo, posto quello che ho congetturato altrove, che tali nomi, come dux, dex (iu-dex, in-dex ec.), ceps (parti-ceps, au-ceps ec.), fex (arti-fex ec.), spex (aru-spex ec.), fer (luci-fer ec.), e simili, sieno anteriori ai rispettivi verbi, seguirebbe da ciò che i verbi di questa categoria formati da tali nomi fossero fratelli e non figli di que' della terza corrispondenti, e sempre sarebbe importante e a proposito nostro il notare come di due verbi fatti da una radice, quello [3007]che ha o che da principio ebbe senso continuativo, sia della prima coniugazione, e l'altro della terza ec. Si può anche discorrere in questo modo. Educare può venire da dux, aggiunta la preposizione al solo verbo, e non al nome; onde non è necessario supporre un nome composto edux. Basta il nome semplice. Così sacrificare (p.2903.) può venir da un sacrifex ed anche dal semplice fex. Così occupare (p.2996.) può venire da un occeps occupis (come auceps aucupis onde aucupare), ovvero occeps occipis che sarebbe il medesimo (giacchè la mutazione scambievole dell'i ed u in questi tali nomi è ordinarissima siccome in ogni altro caso; e quindi mancipium e mancupium etc.), può venir dico da questo nome composto, ovvero dal semplice ceps. Mancipo o mancupo, secondo questo discorso, non verrà da manus e capio, ma da manceps ipis, che anticamente si dovette anche dir manceps cupis. V. p.3019. fine. Opitulare (p.2997.) verrà da opitulus. E così, se non tutti, almeno una gran parte de' verbi di questa categoria.46.
(22. Luglio. 1823.)
[3008]Alla p.3004. fine. Congiunto coi participii passivi il verbo andare appo gli spagnuoli fa quasi l'officio di verbo ausiliare e le veci di essere, come appo noi il verbo venire (venire ucciso ec. per essere ucciso, ed è anche dell'Ariosto: e vedi la Crusca): ma quello significa ordinariamente una passione più continua o durevole. Non so se si direbbe fulano andò muerto o matado per fuè matado.
(22. Luglio 1823.)
Alla p.2953. Così ci accade nello apprendere o appresa che abbiamo alcuna lingua straniera; così ci accade dico in ordine a riportare al corrispondente carattere del suo alfabeto l'idea di que' suoni che non si trovano nella nostra lingua, o che non sono espressi nel nostro alfabeto distintamente dagli altri, o ch'essendo composti sono però espressi nell'alfabeto di quella lingua straniera con un carattere particolare, sia perchè tal composizione di suoni non s'usi nella nostra lingua, e molto s'usi in quell'altra, sia che la nostra scrittura la significhi con più d'un carattere, e quella straniera con un solo (come la greca il p ed s con ?). Del che potete vedere la p.2740. seqq. 2745 fine - 46, e [3009]segg.
(22. Luglio 1823.). V. p.3024.
Alla p.2841. Lo stile e il linguaggio poetico in una letteratura già formata, e che n'abbia uno, non si distingue solamente dal prosaico nè si divide e allontana solamente dal volgo per l'uso di voci e frasi che sebbene intese, non sono però adoperate nel discorso familiare nè nella prosa, le quali voci e frasi non sono per lo più altro che dizioni e locuzioni antiche, andate, fuor che ne' poemi, in disuso; ma esso linguaggio si distingue eziandio grandemente dal prosaico e volgare per la diversa inflessione materiale di quelle stesse voci e frasi che il volgo e la prosa adoprano ancora. Ond'è che spessissimo una tal voce o frase è poetica pronunziata o scritta in un tal modo, e prosaica, anzi talora affatto impoetica, anzi pure ignobilissima e volgarissima in un altro modo. E in quello è tutta elegante, in questo affatto triviale, eziandio talvolta per li prosatori. Questo mezzo di distinguere e separare il linguaggio d'un poema da quello della prosa e del volgo inflettendo o condizionando diversamente [3010]dall'uso la forma estrinseca d'una voce o frase prosaica e familiare, è frequentissimamente adoperato in ogni lingua che ha linguaggio poetico distinto, lo fu da' greci sempre, lo è dagl'italiani: anzi parlando puramente del linguaggio, e non dello stile, poetico, il detto mezzo è l'uno de' più frequenti che s'adoprino a conseguire il detto fine, e più frequente forse di quello delle voci o frasi inusitate.
Or questa diversa e poetica inflessione e pronunzia de' vocaboli correnti, che altro è per l'ordinario, se non inflessione e pronunzia antica, usitata dagli antichi prosatori, nell'antico discorso, ed ora andata in disuso nella prosa e nel parlar familiare? di modo che quelle parole così pronunziate e scritte non altro sono veramente che parole antiche e arcaismi, in quanto così sono scritte e pronunziate? nè altro è ordinariamente dire inflessioni, licenze, voci poetiche se non arcaismi? Vedi in questo proposito una bella riflessione di Perticari, Apologia, Capo 14. fine p.131-2. Certo questa diversità d'inflessione per la più parte non è se [3011]non quello ch'io dico: così ne' poeti greci, così ne' latini (più schivi però dell'antico, e quindi il loro linguaggio poetico è assai meno distinto dalla lor prosa quanto a' vocaboli, che il greco), così negl'italiani. Perocchè non è da credere che la inflession d'una voce sia stimata, e quindi veramente sia, più elegante o per la prosa o pel verso, perchè e quanto ella è più conforme all'etimologia, ma solamente perchè e quanto ella è meno trita dall'uso familiare, essendo però bene intesa e non riuscendo ricercata. (Anzi bene spesso è trivialissima l'inflessione regolare ed etimologica, ed elegantissima e tutta poetica la medesima voce storpiata, come dichiaro in altro luogo). E questo non esser trita, nè anche ricercata, ma pur bene intesa, come può accadere a una voce, o ad una cotale inflessione della medesima? Il pigliarla da un particolar dialetto o l'infletterla secondo questo fa ch'ella non riesca trita all'universale, ma difficilmente può far ch'ella e non paia ricercata e sia bene intesa da tutti. Oltre ch'ella riesce anche trita a quella parte della nazione di cui quel dialetto è proprio. In verità i dialetti particolari sono scarso sussidio e fonte al linguaggio poetico, e all'eleganza qualunque. Lo vedi...
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