[Pagina precedente]...to nella lingua francese, cioè che lo stile degli scrittori moderni di qualsivoglia lingua non differisca oramai se non se ne' sentimenti, e consista tutto nelle cose. E in verità quanto allo stile propriamente detto, v'è minor divario oggidì fra due scrittori di due lingue disparatissime e in diversissime materie, che non v'era anticamente fra due scrittori contemporanei, compatriotti, d'una stessa lingua e materia. (Pongasi per esempio Platone e Senofonte). Lascio poi quanta poca varietà di stile si possa trovare in uno stesso scrittore. Gli stili de' moderni non si diversificano se non per le sentenze. Anzi tutti gli scrittori e tutte le opere escono, quanto allo stile, da una stessa scuola, vestono d'uno stesso panno, anzi hanno una sola fisonomia, una sola attitudine, gli stessi gesti e movimenti, le stesse fattezze e circostanze esteriori: solo si distinguono l'une dall'altre perchè dicono diverse cose, benchè collo stesso tuono e modo di recitazione. Sicchè, proporzionatamente, accade oggi nel mondo civile quel medesimo che ho detto accadere in Francia; quasi niuno scrittore ha stile [2915]proprio: non v'è che uno stile per tutti, e questo consiste assai più nelle sentenze che nelle parole: poco oramai si guarda allo stile nelle opere che escono in luce, o se vi si guarda, ciò è più per vedere s'egli segue l'uso e la forma di stile universalmente accettata, o no: se la segue, non si parla del suo stile; se non la segue, allora solo il suo stile dà nell'occhio, e per lo più è ripreso, e ordinariamente con ragione. La differenza ch'è in questo particolar dello stile fra la lingua francese e l'altre moderne, si è che se in quella lo scrittore non ha stile proprio, egli è perchè la lingua n'ha un solo; se il suo stile non è vario, egli è che la lingua non ha varietà di stile. Ma nelle altre lingue il difetto viene dallo scrittore: egli è che manca di varietà di stile, e non la lingua; e s'ei non ha stile proprio, egli può averlo; almeno la lingua sua non glielo impedisce; ma ei non ha stile proprio, perchè un solo stile ha, non la sua lingua, che molti ne ammette, ma, per così dire, la lingua europea, ossia l'uso e lo spirito universale della letteratura e della civiltà [2916]presente, e del nostro secolo. V. p.3471.
Del resto egli è certissimo che quantunque le moderne lingue, almeno parecchie di esse, sieno capacissime d'ogni sorta di varietà , qualità , e perfezion di stile, nondimeno niuna delle medesime è, che possa mostrare neppur ne' suoi antichi e nel suo secolo aureo nè tanta varietà , nè di gran lunga tanta perfezione di stile propriamente detto, quanta ne possono mostrare nei loro le lingue antiche. I moderni poi, quanto vincono gli antichi nel fatto delle sentenze, tanto cedono loro tutti in tutte le parti dello stile propriamente detto, e nel culto delle parole preso in tutta l'estension del termine. E non solo non mettono nè sanno mettere in pratica, ma nè pur conoscono perfettamente tutte le squisitezze degli artifizi e degli accorgimenti che gli antichi insegnavano comunemente e adoperavano intorno a esso culto, e che si possono vedere negli scritti rettorici di Cicerone e di Quintiliano. I moderni non ne conoscono generalmente neppure i nomi, e neppur ne hanno tanta idea che basti a poter valutare in confuso a che segno [2917]arrivasse questa squisitezza. Nei moderni le sentenze, e la spiritualità del secolo, nocciono alle parole e allo stile, all'arte del quale niuno di loro si applica da senno, o ci pone tanto studio e tempo quanto bisognerebbe. Negli antichi classici di ciascuna lingua moderna, ne' quali non aveano luogo le dette circostanze, e ciascuno de' quali facea dell'arte dello stile il suo principale studio, e attendeva più alle parole che alle cose, ogni volta che si metteva da vero a comporre; pure in nessuno o in quasi niuno di loro si trovò arte o capacità bastante, nè quanto si richiedeva a conseguire quell'alto grado di perfezione, neppur relativamente e limitatamente alle forze, indole, qualità , e capacità delle rispettive lingue.
(8. Luglio 1823.)
L'argomento con cui altrove dall'aggettivo potus, che io chiamo vero participio, e da' sostantivi potus us (fatto da esso participio, secondo la regola da me altrove assegnata) e potio onis paragonati con potatio, ho dimostrato l'esistenza di un antico verbo poo; riceve forza dai composti appotus ed epotus, veri participii, [2918]come di forma così di significazione (che in quello è attiva33, in questo passiva); da' quali forse si potrebbe anche raccorre l'antica esistenza de' verbi composti appoo ed epoo diverso da epoto. Avvi ancora compotatio, compotor sost. e compotrix.
(8. Luglio 1823.)
Da quello che ho detto p.2789-90. si rileva che il nostro aggettivo ratto, non è se non il participio raptus e che questo dovette essere usato dagli antichi latini e volgarmente, in senso di veloce, come ratto fra noi. Perocchè dire che questo sia nato dall'avverbio italiano ratto, e quest'avverbio da raptim, onde ratto per veloce venga da raptim è derivazione o formazione priva d'ogni esempio. E per lo contrario è certissimo che ratto avverbio viene da ratto aggettivo, anzi è lo stesso aggettivo neutralmente e avverbialmente posto, il che è proprietà ed uso della nostra lingua di fare, come alto, forte, (anche i francesi fort avverbio e aggettivo) presto, tosto, piano e mill'altri, per altamente ec. Anzi è in libertà dello scrittore o parlatore italiano di far così de' nuovi avverbi dagli aggettivi, [2919]non già viceversa. V. il Forcell. in Rapio col.1. fine, Rapto fine, Raptus l'esempio di Claudiano. Gli spagnuoli similmente hanno p.e. demasiado avv. e aggett. ec.
(8. Luglio 1823.)
Noi usiamo volgarmente il verbo volere applicandolo a cose inanimate, o ad esseri immaginari, e talvolta impersonalmente, in modo ch'egli o sta per potere, o ridonda e non fa che servire a una perifrasi, per idiotismo, e per proprietà di lingua. Per esempio, La piaga non se gli vuole rammarginare. Cioè, Non si può far che la piaga se gli rammargini, ossia La piaga non se gli può ancora rammarginare. Qui volere sta per potere. Se il cielo si vorrà serenare, se la stagione si vorrà scaldare, se il vento vorrà cessare, se il negozio vorrà camminar bene, se la pianta vorrà pigliar piede, l'erba non ci vuol nascere. Cioè, Se piglierà piede, Non ci nasce. Qui volere ridonda. Da più mesi non è voluto piovere. Cioè, non è piovuto. Qui volere ridonda ed è impersonale. Anche in francese: cette machine ne veut pas aller, ce bois ne veut pas brûler. Alberti. Così, mi pare, anche in ispagnuolo.
Ora questo grazioso idiotismo proprio della nostra lingua, fu proprio altresì della più pura lingua greca (anzi secondo i grammatici egli è un atticismo) e fu adoperato [2920]dagli scrittori più eleganti, e massime da Platone, primo modello dell'atticismo. Nel Convito, Opp. ed Astii, Lips. 1819-... t.3. 1821. p.460. v.16-17. D. ??? ??? ??? ????? ???????? ? ????, se ti vorrà passare il singhiozzo, in vece di ??? ??? ??? ??????? ? ????. Qui ??????? ridonda. V. lo Scapula in ??????, e ????. Corinto ???? ?????????. ???????? ??? ?? ????? ???? ??? ??????? ?? ? ?????? (nel principio del Fedro), ?? ????? ????? ?? ?????? ?????????. Ma non è vero che stia sempre, in questo tale idiotismo per potere, come dice anche lo Scapula ne' due citati luoghi. Per potere sta assolutamente nel Sofista, t.2. 1820. p.314. v.18-19. D-E. ??? ??? ?? ?? ?? ?????? ?????????, ? ????? ? ????? ? ?? ??? ???????, ?? ?? ?? ???????????? che altre cose possano mescolarsi insieme, altre no. Ma nel passo del Convivio, e in quello di Omero presso lo Scapula, ??????? ridonda, come sovente in italiano volere, nel detto nostro idiotismo, e malissimo si spiegherebbe per potere. In quello del Fedro altresì in sostanza ridonda, perchè il luogo vale ?? ????? ????? ?? ????????. Se diremo ????? ?? ??????? ????????, [2921]diremo forse altrettanto, ma non lo stesso, e benchè diremo il vero, non perciò diremo quel medesimo appunto che dice Socrate. In questo e in altri molti casi simili, tanto nel greco quanto nell'italiano, spiegando il verbo volere per potere, l'espressione riesce vera e giusta, ma non pertanto l'intenzione della frase non era di dir potere. Perchè spesso nell'esprimerci noi abbiamo due intenzioni l'una finale (e questa nel caso nostro sarà ugualmente bene spiegata rendendo volere per potere, che dicendo ch'egli ridonda), l'altra immediata (e questa nel caso nostro non si otterrebbe con dir potere, nè si spiegherebbe con questa voce); da ambedue le quali intenzioni è diversa quella intenzione o significato che ha la locuzione letteralmente presa. (8. Luglio. 1823.). Del resto noi non usiamo in questo tal senso e modo il verbo volere, se non colle particelle negative o condizionali, o con interrogazione, come in quel verso di Anacreonte (od. 4 ???????? ???? ?????????) ?? ????? ???? ???? ?????; che vorrà essere questo sogno? Ma in locuzione, forma e significazione affermativa non s'usa [2922]mai il verbo volere nè dagl'italiani nè da' francesi ne' sovresposti sensi, se non se in quella frase voler dire o significare ec. che è greca anch'essa, e che può riferirsi all'idiotismo di cui ragioniamo. I greci ancora usano per lo più questo idiotismo fuori di affermazione, benchè non sempre. Affermativamente, e pur di cose inanimate o ideali e intellettuali, e come si dice, di ragione, usiamo noi il verbo volere, in un senso però differente dai sopraddetti, ed equivalente al greco ???????, ma con significanza di qualche dubitazione: come Questa guerra vuole andare in lungo, cioè, Pare che questa guerra sia per durar molto: Vuol piovere ec. In questo senso il verbo volere equivale al significato che sovente ha in italiano dovere, il quale talvolta significa assolutamente ??????? (come avere a, aver da cogl'infiniti), talvolta con qualche dubitazione, come Questa guerra deve andare in lungo, cioè, pare che ec. Dicesi ancora Questa guerra mostra di voler esser lunga, pare che voglia esser ec. E in simili modi: e così dovere. In altro modo ancora diciamo affermativamente il verbo volere per proprietà di lingua, eziandio di cose inanimate, con significazione di esser presso a, mancar poco che non; e in questo senso egli non s'usa se non nel passato o piucchè passato, benchè in un esempio della Crusca, Volere §.3., trovisi nel gerundio.
(9. Luglio. 1823.). V. p.3000.
[2923]Gl'italiani non hanno costumi: essi hanno delle usanze. Così tutti i popoli civili che non sono nazioni.
(9. Luglio. 1823.)
Bisogna (far grande stima) avere una grande idea di se stesso, per esser capace di sacrificar se stesso. Chi non ha molta e costante stima di se medesimo, non è buono all'amor vero, nè capace del dévouement e del totale sacrifizio ch'egli esige ed ispira.
(9. Luglio. 1823.)
Il verbo avere in senso di essere, usato impersonalmente dagl'italiani da' francesi dagli spagnuoli, talora eziandio personalmente dagl'italiani (v. il Corticelli), non è altro che il latino se habere (il qual parimente vale essere) omesso il pronome. Il volgo latino dovette dire p.e. nihil hic se habet, qui non si ha nulla, cioè non v'è; poi lasciato il pronome, nihil hic habet, qui non v'ha nulla. Cicerone: Attica belle se habet col pronome, e altrove: Terentia minus belle habet: ecco lasciato figuratamente il pronome nella stessa frase. (Forcell. in Belle). Bene habeo, bene habemus, bene habent tibi principia sono [2924]tutte locuzioni ellittiche per l'omissione del pronome se, nos, me. Bene habet, optime habet, sic habet; ecco oltre l'omission del pronome se, anche quella del nome res. Onde avviene che in queste locuzioni, che intere sarebbono bene se res habet, sic se res habet, il verbo habere per le dette ellissi venga a trovarsi impersonale. Ed ecco nel latino il verbo habere in significato di essere, neutro assoluto, cioè senza pronome, e impersonale. Quis hic habet? chi è qui? In questo e negli altri luoghi dove il verbo habere sta per abitare in significato neutro, esso verbo non va...
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