[Pagina precedente]...ndo, affronti il pericolo ed eziandio la certezza di soffrirli, preponendo i mali o i pericoli esterni e materiali agl'interni e spirituali, [3490]e l'anima, per così dire, al corpo; e volendo innanzi soffrire ne' sensi, nella roba ec. che nello spirito, e morire piuttosto che patir la pena della vergogna. Chè in questo e non altro consiste quel coraggio che viene da sentimento di onore, e gli effetti del medesimo. Il qual coraggio ha origine e fondamento, anzi è esso stesso una spezie di timidità , o certo una spezie di qualità contraria alla sfrontatezza, all'impudenza, all'inverecondia.
(21. Sett. Festa della Beatissima Vergine Addolorata. 1823.). V. la pag. seg.
Non si dà nella orazione, qualunque ella sia, tratto veramente sublime, in cui il lavoro non ceda di grandissima lunga alla materia, cioè dove l'altezza e il pregio del pensiero, dell'immagine, e simili, non vinca d'assaissimo la nobiltà , l'eleganza, e il pregio dell'espressione e dello stile. Una sola virtù dell'espressione può e deve, in un luogo ch'abbia ad esser sublime, andar di pari coll'altezza del concetto, e questa si è la semplicità , o vogliamo dir la naturalezza e l'apparenza della sprezzatura.
(21. Sett. 1823.)
[3491]????? ????? ???? ?? ????? ???? ?????, (Isacco Casaub. scrive ????? ???? ??) ??? ???????? ???????? ?????? ??? ?????? ????? ?????????? ??? ??? ? ???? ???? ????????? ????? ????????, ??? ????????, ????? ?? ??? ?????????, ?? ?? ?? (il medesimo legge ????? ?? ??? ????????? ?????, ?? ?? ??). Epicarmo comico dell'antica commedia, Coo di patria, ma vissuto in Sicilia, contemporaneo di Gerone tiranno. Frammento recato da Alcimo appresso Diog. Laerz. in Plat. lib.3. segm.16. p.175. ed. Amstel. 1692. Wetsten.
(21. Sett. Festa di Maria SS. Addolorata. 1823.)
Rasito as da rado is - rasus, frequentativo. Il continuativo si trova in francese, cioè raser, che resta in luogo del positivo, mancante in quella lingua. (22. Settembre 1823.). V. ancora nello spagnuolo, arrasar.
Alla p. precedente. I timidi (cioè paurosi della vergogna, soggetti alla ???????, mauvaise honte) non solo sono capaci di non temere nè fuggire il pericolo, il danno, il sacrifizio, ma eziandio di cercarlo, di desiderarlo, di amarlo, di bramar la morte, di proccurarsela colle proprie mani. Le stesse qualità morali o fisiche che portano sovente alla timidezza (ciò sono fra l'altre, la riflessione, la delicatezza [3492]e profondità di spirito ec.125 onde Rousseau era strabocchevolmente e invincibilmente timido), portano ancora alla noia della vita, al disinganno, all'infelicità , e quindi alla disperazione. È veramente mirabile e tristo, non men che vero, come un uomo che non solo non teme nè fugge, ma desidera supremamente la morte, un uomo ch'è disperato di se stesso, che conta già la vita e le cose umane per nulla, un uomo ch'è risoluto eziandio di morire, tema ancor tuttavia l'aspetto degli uomini, si perda di coraggio nella società , si spaventi del rischio di essere ridicolo (rischio ch'egli ha sempre davanti agli occhi, e il cui pensiero e timore si è quello che lo rende timido), e non abbia coraggio d'intraprender nulla per migliorare o render meno penosa la sua condizione, e ciò per tema di peggiorar quella vita della quale egli non fa più caso alcuno, della quale ei dispera, che non può parergli possibile a divenir peggiore, odiandola già egli tanto da desiderar sommamente d'esserne liberato, o da volere determinatamente gittarla via. È mirabile che un uomo desideroso o [3493]risoluto di morire, un uomo che ripone il suo meglio nel non essere, che non trova per lui miglior cosa che il rinunziare a ogni cosa; stimi ancora di aver qualche cosa a perdere, e cosa tanto importante, ch'egli tema sommamente di perderla; e che questa opinione e questo timore gli renda impossibile la franchezza, e il gittarsi disperatamente nella vita ch'ei nulla stima; ch'egli ami meglio rinunziare decisamente a ogni cosa e perdere ogni cosa, che mettersi, com'ei si crede, al pericolo di perdere quella tal cosa, cioè quella riputazione e quella stima altrui che l'uomo timido teme a ogni momento di perdere, conversando nella società , e ch'egli sa però bene di non avere, o di perderla, mostrandosi timido; ma contuttociò lo rende incapace di franchezza il timore continuo di perdere, e la continua e affannosa cura di conservare, quello ch'ei comprende di non possedere, quello ch'ei ben s'avvede o di perdere necessariamente o di non mai potere acquistare se non deponendo quel continuo ed eccessivo timore, quella continua ed eccessiva cura. Tutte queste misere e strane contraddizioni [3494]e tutti questi accidenti hanno luogo (proporzionatamente più o meno ec.) nelle persone timide, e più quanto elle sono di spirito più delicato ec. delicatezza che bene spesso è la sola o la principal cagione della timidità . Ma quanto al temere ancora la vergogna desiderando la morte o essendo disposto di proccurarsela, si spiega col vedere che quel coraggio il quale non nasce da cause fisiche, nè da atto o abito naturale o acquisito d'irriflessione, ma per lo contrario nasce da riflessione accompagnata col sentimento d'onore, e da delicatezza d'animo (non da grossezza, come quell'altro) preferisce effettivamente la morte alla vergogna, e tanto è più pauroso di questa che di quella, che ad occhi aperti e deliberatamente sceglie in fatto la prima piuttosto che la seconda, e antepone il non vivere alla pena di vergognarsi vivendo.
(22. Sett. 1823.)
Si suol dire che gli antichi attribuivano agli Dei le qualità umane, perch'essi avevano troppo bassa idea della divinità . Che questa idea non fosse appo loro così alta come [3495]tra noi, non posso contrastarlo, ma ben dico che se essi attribuirono agli Dei le qualità umane, ne fu causa eziandio grandemente l'aver essi degli uomini e delle cose umane e di quaggiù troppo più alta idea che noi non abbiamo. E soggiungo che umanizzando gli Dei, non tanto vollero abbassar questi, quanto onorare e inalzar gli uomini; e ch'effettivamente non più fecero umana la divinità che divina l'umanità , sì nella lor propria immaginazione e nella stima popolare, sì nella espressione ec. dell'una e dell'altra, nelle favole, nelle invenzioni, ne' poemi, nelle costumanze, ne' riti, nelle apoteosi, ne' dogmi e nelle discipline religiose ec. (22. Sett. 1823.). Tanto grande idea ebbero gli antichi dell'uomo e delle cose umane, tanto poco intervallo posero fra quello e la divinità , fra queste e le cose divine (non per abbassar l'une ma per elevar l'altre, nè per disistima dell'une ma per altissimo concetto dell'altre), ch'essi stimarono la divinità e l'umanità potersi congiungere insieme in un solo subbietto, formando una persona sola. Onde immaginarono un intiero genere participante [3496]dell'umano e del divino, participazione che lor sembrò naturalissima, e ciò furono i semidei. E similmente i fauni, le ninfe, i pani ed altre tali divinità , anzi semidivinità 126 terrestri, acquatiche, aeree, insomma sublunari, reputate mortali, si possono ridurre a questo genere di partecipanti (vedi il Forcellini in Nympha): sebben elle erano inferiori ai semidei, come Ercole (di cui vedi Luciano Dial. d'Ercole e Diogene, che fa molto a proposito), cioè participanti forse di minor parte di divinità e più d'umanità o mortalità ; siccome gli eroi, finch'essi sono mortali possono parere un grado inferiori a' Pani, ninfe ec. cioè men divini. (V. Forcell. in Heros, Indigetes, Semideus; e Platone nel Convito ed. Astii t.3. 498. D- 500. E, che fa ottimamente al caso).127 Gli antichi non trovarono maggior difficoltà a comporre in un suggetto medesimo l'umanità e la divinità , di quel che a comporre i due sessi umani, il maschio e la femmina, negl'immaginari ermafroditi; quasi l'umano e il divino fossero, non altrimenti che il virile e il donnesco, due diverse specie, per dir così, d'un genere istesso, nè maggior differenza, o intervallo, [3497]o distinzion di natura fosse tra loro.
(22. Sett. 1823.)
Le speranze che dà all'uomo il Cristianesimo sono pur troppo poco atte a consolare l'infelice e il travagliato in questo mondo, a dar riposo all'animo di chi si trova impediti quaggiù i suoi desiderii, ributtato dal mondo, perseguitato o disprezzato dagli uomini, chiuso l'adito ai piaceri, alle comodità , alle utilità , agli onori temporali, inimicato dalla fortuna. La promessa e l'aspettativa di una felicità grandissima e somma ed intiera bensì, ma 1°. che l'uomo non può comprendere nè immaginare nè pur concepire o congetturare in niun modo di che natura sia, nemmen per approssimazione, 2°. ch'egli sa bene di non poter mai nè concepire nè immaginare nè averne veruna idea finchè gli durerà questa vita, 3°. ch'egli sa espressamente esser di natura affatto diversa ed aliena da quella che in questo mondo ei desidera, da quella che quaggiù gli è negata, da quella il cui desiderio e la cui privazione forma il soggetto e la causa della sua infelicità ; una tal promessa, dico, e una tale [3498]espettativa è ben poco atta a consolare in questa vita l'infelice e lo sfortunato, a placare e sospendere i suoi desiderii, a compensare quaggiù le sue privazioni. La felicità che l'uomo naturalmente desidera è una felicità temporale, una felicità materiale, e da essere sperimentata dai sensi o da questo nostro animo tal qual egli è presentemente e qual noi lo sentiamo; una felicità insomma di questa vita e di questa esistenza, non di un'altra vita e di una esistenza che noi sappiamo dover essere affatto da questa diversa, e non sappiamo in niun modo concepire di che qualità sia per essere. La felicità è la perfezione e il fine dell'esistenza. Noi desideriamo di esser felici perocchè esistiamo.128 Così chiunque vive. È chiaro adunque che noi desideriamo di esser felici, non comunque si voglia, ma felici secondo il modo nel quale infatti esistiamo. È chiaro che la nostra esistenza desidera la perfezione e il fin suo, non già di un'altra esistenza, e questa a lei inconcepibile. La nostra esistenza desidera dunque la sua propria felicità ; chè desiderando quella di un'altra esistenza, ancorch'ella in questa s'avesse poi a tramutare, desidererebbe, si può dire, una felicità non propria ma altrui, [3499]ed avrebbe per ultimo e vero fine non se stessa, ma altrui, il che è essenzialmente impossibile a qualsivoglia Essere in qualsivoglia operazione o inclinazione o pensiero ec. Laonde la felicità che l'uomo desidera è necessariamente una felicità conveniente e propria al suo presente modo di esistere, e della quale sia capace la sua presente esistenza. Nè egli può mai lasciar di desiderar questa felicità per niuna ragione, nè per niuna ragione può mai desiderare altra felicità che questa. E non è più possibile che l'uomo mortale desideri veramente la felicità de' Beati, di quello che il cavallo la felicità dell'uomo, o la pianta quella dell'animale; di quel che l'animale erbivoro invidii al carnivoro o la sua natura, o la carne di cui lo vegga cibarsi, all'uomo il piacere degli studi e delle cognizioni, piacere che l'animale non può concepire nè che possa esser piacere, nè come, nè qual piacere sia; e così discorrendo. E ben vero che nè l'uomo, nè forse l'animale nè verun altro essere, può esattamente definire nè a se stesso nè agli altri, qual sia assolutamente e in generale la felicità ch'ei desidera; perocchè [3500]niuno forse l'ha mai provata, nè proveralla, e perchè infiniti altri nostri concetti, ancorchè ordinarissimi e giornalieri, sono per noi indefinibili. Massime quelli che tengono più della sensazione che dell'idea; che nascono più dall'inclinazione e dall'appetito, che dall'intelletto, dalla ragione, dalla scienza; che sono più materiali che spirituali. Le idee sono per lo più definibili, ma i sentimenti quasi mai; quelle si possono bene e chiaramente e distintamente comprendere ed abbracciare e precisar col pensiero, questi assai di rado o non mai. Ma ciò non ostante, sì l'animale che l'uomo sa bene e comprende, o certo sente, che la felicità ch'ei desidera è cosa terr...
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