[Pagina precedente]...ia figlia della bellezza diversa dall'ordinario, ch'esso non è nelle forme e maniere degli uomini.
(27. Giugno 1823.). V. p.3177.
Dovunque non cade bellezza, non cade grazia. Dico relativamente agli uomini, perchè bellezza e bruttezza cade in qualsivoglia cosa, ma gli uomini non ne giudicano, e non ne ricevono il senso se non in certe. E in queste sole, dov'essi possono ricevere il senso della bellezza, possono anche ricever quello della grazia e concepirla. E viceversa similmente, dovunque cade bellezza, cade ancor grazia. Non che l'una non possa esser senza l'altra. Ma quel genere ch'è capace dell'una è capace dell'altra. E per bellezza, intendo quella ch'è propriamente e filosoficamente [2835]tale, cioè quella ch'è convenienza, non l'altre impropriamente chiamate bellezze.
(27. Giugno 1823.)
Pascitare da pascitus antico participio di pasco poi contratto in pastus, come noscitare da noscitus poi ristretto in notus, (siccome da suesco suetus ec.), del qual verbo noscitare ho detto altrove.
(28. Giugno 1823.)
Emptito o emtito frequentativo da emo-emptus emtus. Non vi sarebbe chi appresso Plauto Cas. 2. 5. 39. leggesse empsitem per emptitem se si fosse ben posto mente alla teoria ed alla formazione grammaticale de' frequentativi in ito, ed alla loro derivazione dai participii o supini, e non d'altronde.
(28. Giugno 1823.)
Ho recato altrove, in proposito dei sinonimi, alcuni esempi di voci che nelle lingue figlie della latina sono passati ad aver per proprii de' significati ben lontani da quelli che avevano nella latina, e tra queste il verbo quaerere (querer) che nella lingua spagnuola significa velle. Aggiungete l'esempio del verbo latino creare (criar) che in ispagnuolo significa allevare, educare, sì esso come i suoi derivati, crianza, criado ec.
(28. Giugno 1823.)
[2836]Solae communes natos, consortia tecta Urbis habent (apes), magnisque AGITANT sub legibus aevum. Georg. l.4. v.153-154. Qui il verbo agito non può esser più continuativo di quel ch'egli è; e veramente non so chi possa avere il coraggio di dire ch'egli in questo e ne' simili luoghi sia frequentativo.
(28. Giugno 1823.)
Ho mostrato altrove che i poeti e gli scrittori primitivi di qualunque lingua non potevano mai essere eleganti quanto alla lingua, mancando loro la principal materia di questa eleganza, che sono le parole e modi rimoti dall'uso comune, i quali ancora non esistevano nella lingua, perchè scrittori e poeti non v'erano stati, da' quali si potessero torre, e i quali conservassero quelle parole e modi che già furono in uso. Onde quando una lingua comincia ad essere scritta, tanto esiste della lingua quanto è nell'uso comune: tutto quello che già fu in uso, e che poi ne cadde, è dimenticato, non avendovi avuto chi lo conservasse, il che fanno gli scrittori, che ancora non vi sono stati. Togliere più che tante parole o forme da quella lingua la cui letteratura serve di modello alla nuova (come gl'italiani avrebbero potuto fare dalla lingua latina), è pericoloso in quei principii molto più che nel séguito (contro quello che si stimano i pedanti), anzi non si può, perchè quando nasce la letteratura [2837]di una nazione, questa nazione è naturalmente ignorante, e però lo scrittore o il poeta, così facendo, non sarebbe inteso, e la letteratura non prenderebbe piede, non si propagherebbe mai, non crescerebbe, non diverrebbe mai nazionale. Di più, il poeta sembrerebbe affettato. Vedi in questo proposito la p.3015. Questo medesimo vale anche per le parole della stessa lingua, rimote più che tanto dall'uso comune, sia per disuso (seppur lo scrittore stesso o il poeta avesse modo di conoscerle, mancando fin allora gli scrittori), sia per qualsivoglia altra cagione. Bisogna considerare che la nazione in quel tempo è ignorante, e non istudia, e non leggerebbe quella scrittura o quel poema, benchè scritto in volgare, le cui parole o modi non fossero alla sua portata, o egli non potesse capirli senza studiarvi sopra. E poca difficoltà , poca ricercatezza di parole o di forme basta ad eccedere la capacità de' totalmente ignoranti, quali sono allora quasi tutti, e degli a tutt'altro avvezzi che allo studio. Ho dunque detto altrove che i poeti e scrittori primitivi tutti o quasi tutti, e sempre o per lo più, sì nella lingua sì nello stile, tirano al familiare. E questo viene, sì per adattarsi alla capacità della nazione, sì perchè, mancando loro, come s'è detto, la principal materia dell'eleganza [2838]di lingua, sono costretti a pigliare una lingua domestica e rimessa, e non volendo che questa ripugni e disconvenga allo stile, sono altresì costretti di tenere anche questo, per così dire, a mezz'aria, e di familiarizzarlo. Onde accade che questi tali poeti e scrittori sappiano di familiare anche ai posteri, quando le loro parole e forme, già divenute abbastanza lontane dall'uso comune, hanno pure acquistato quel che bisogna ad essere elegantissime, perlochè già elle come tali s'adoprano dagli scrittori e poeti della nazione, ne' più alti stili. Ma non essendo elle ancora eleganti a' tempi di que' poeti e scrittori, questi dovettero assumere un tuono e uno stile adattato a parole non eleganti, e un'aria, una maniera, nel totale, domestica e familiare, le quali cose ancora restano, e queste qualità ancora si sentono, come nel Petrarca, benchè l'eleganza sia sopravvenuta alle loro parole e a' loro modi che non l'avevano, com'è sopravvenuta, e somma, a quei del Petrarca. Queste considerazioni si possono fare, e questi effetti si scorgono, massimamente ne' poeti, non solo perchè gli scrittori primitivi di una lingua e i fondatori di una letteratura [2839]sono per lo più poeti, ma perchè mancando ad essi la detta materia dell'eleganza niente meno che a' prosatori, questa mancanza e lo stile familiare che ne risulta è molto più sensibile in essi che nella prosa, la quale non ha bisogno di voci o frasi molto rimote dall'uso comune per esser elegante di quella eleganza che le conviene, e deve sempre tener qualche poco del familiare. Quindi avviene che lo stile del Boccaccio, benchè familiare anch'esso, massime ad ora ad ora, pur ci sa meno familiare, e ci rende più il senso dell'eleganza e della squisitezza che quello del Petrarca, e dimostra meno sprezzatura, ch'è però nel Petrarca bellissima. Così è: la condizione del poeta e del prosatore in quel tempo, quanto ai materiali che si trovano aver nella lingua, è la stessa (a differenza de' tempi nostri che abbiamo appoco appoco acquistato un linguaggio poetico tutto distinto): il prosatore si trova dunque aver poco meno del suo bisogno, e quasi anche tanto che gli basti a una certa eleganza: il poeta che non si trova aver niente di più, bisogna che si contenti di uno stile e di una maniera che si accosti alla prosa. Ed infatti è benissimo definita [2840]la familiarità che si sente ne' poeti primitivi, dicendo che il loro stile, senza essere però basso, perchè tutto in loro è ben proporzionato e corrispondente, tiene della prosa. Come fa l'Eneida del Caro, che quantunque non sia poema primitivo, pure essendo stato quasi un primo tentame di poema eroico in questa lingua, che ancora non n'era creduta capace, com'esso medesimo scrive, può dirsi primitivo in certo modo nel genere e nello stile eroico.
Tutto questo discorso sui poeti e scrittori primitivi di una lingua, si deve intender di quelli che meritano veramente, il nome di poeti o di scrittori, e non di quei primissimi e rozzissimi, ne' quali non cade sapore nè di familiarità nè d'eleganza, nè d'altra cosa alcuna determinata e che si possa ben sentire, fuorchè d'insipidezza, non avendo essi nè lingua, nè stile, nè maniera, nè carattere formato, sviluppato, costante e uniforme. E il sopraddetto discorso ha massimamente luogo, e i sunnotati effetti avvengono principalmente nel caso che sui principii di una letteratura compariscano tali e così grandi ingegni che o la creino [2841]quasi in un tratto, o tanto innanzi la spingano dal luogo ove la trovano, ch'essa paia poco meno che opera loro. Il qual caso avvenne alla letteratura greca e alla italiana25. Perciocchè quando la letteratura si va formando appoco appoco, e con tanta uniformità di progressi, che mai un suo passo non sia fuor d'ogni proporzione cogli antecedenti, i summentovati effetti sono manco notabili, e manco facili a vedere, trovandosi l'eleganza delle parole e dei modi già fatta possibile coll'abbondanza degli scrittori e l'arricchimento della lingua che dà luogo alla scelta, e la nazione già capace e colta e studiosa, prima che la letteratura giunga a produr cosa alta e perfetta, e che un grande ingegno faccia uso dell'una e dell'altra disposizione, cioè di quella della lingua, e di quella de' suoi nazionali.
(28. Giugno. 1823.). V. p.3009. 3413.
Participii in us di verbi attivi o neutri, non deponenti, in senso attivo o neutro, alla foggia di quelli de' deponenti. Dissimulatus a um, pransus a um, impransus a um, coenatus a um, incoenatus a um, potus a um, (dall'antico po o poo, di cui altrove) appotus a um, iuratus a um, coniuratus a um, iniuratus e simili, solitus a um, insolitus a um, suetus a um co' suoi composti, hausus (Forc. haurio fin.). Vedi la pag.2904. fine. 3072. esus a um, ventus a um [2842]appresso Plauto, gavisus a um (gavisus sum, per l'antico gavisi). Vedi il Forcellini sì in questi participii, sì ne' verbi loro, specialmente in coeno, edo, venio ec. (28. Giugno 1823). obstinatus a um; obitus a um, e altri composti di eo, come interitus a um, praeteritus a um. Placitus a um, come gavisus. V. Forc. V. p.3060.
Continuativi delle lingue figlie della latina. Diventare ital. da devenio-deventus. Sepultar spagn. da sepelio sepultus. Questo verbo sepultare trovasi usato da Venanzio Fortunato, poeta e scrittore italiano del sesto secolo, Carm. lib.8. Hymno de vitae aeternae gaudiis. (Glossar. Cang.) Pressare, presser, prensar, oppressare, oppressé, soppressare, expressar ec. da premo-pressus. V. il Glossar. Tritare da tero-tritus. Il Gloss. Tritare, Frequenter terere, Ioh. de Ianua cioè genovese del secolo 13o, autore di un Lessico edito. Cautare, incautare da caveo-cautus. V. il Glossar. Gozar spagnuolo da gaudeo gavisus. Fecesi ne' bassi tempi di gavisus gausus, onde gosus, onde gosare, e gozar. Ovvero di gavisus gavisare, gausare, gosare, gozar. Trovasi nelle antiche glosse latino-greche gaviso ?????. V. il Glossar. Cang. in Gavisci, ed anche in Gavisio, Gausida (goduta sostantivo) e Gausita. Vedi quivi anche Gauzita, dove trovi già il z di gozar. Da questo, o da gavisio, gausio, gosio, anzi da gavisus us, gausus, gosus credo io che sia fatto lo spagnuolo gozo, godimento, piuttosto che da gaudium. Gozar assai spesso, come il nostro godere e il francese jouir, è vero continuativo di gaudere, non meno per il significato che per la forma, equivalendo a frui. Il verbo jouir, jouissons, jouissez, jouissent ec. dee esser venuto similmente da gavisare, prima che questo fosse mutato in [2843]gausare, e ne sparisse la i, che manca in gozar, ma con tutto ciò è più sfigurato. Così dite di joie, jouissance, joyeux ec. e di gioia, gioire, ec. che di là vengono. Pransare o pranzare ital. da pransus di prandeo onde il frequentativo latino pransitare. Incettare non da un barbaro incaptare, come pensa Giordani nel principio della lettera a Monti, Proposta vol.1. parte 2., ma appunto da un inceptare mutato l'a di captare in e per virtù della composizione, come in attrectare, contrectare, detrectare, obtrectare, ec. da tractare o da detractus ec. di detraho, in affectare ec. da affectus di afficio il quale viene da facio, in coniectare, subiectare, obiectare ec. da coniectus di coniicio che viene da iacio, in descendo, ascendo ec. da scando, in occento da occentus di occino da cano, in aggredior ec. da gradior, in accendo, incendo, succendo da candeo o dall'inusitato cando, v. p.3298. e in molti simili, benchè più generalmente e regolarmente l'a della prima sillaba de' verbi dissillabi26 si muti per la composizione i...
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