[Pagina precedente]...rità . Uomini la più parte da nulla, tutti pieni di difetti. Le massime di giustizia, di virtù, di eroismo, di compassione, d'amor patrio sonavano negli antichi drammi sulle bocche del coro, cioè di una moltitudine indefinita, e spesso innominata, giacchè il poeta non dichiarava in alcun modo di quali persone s'intendesse composto il suo coro. Esse erano espresse in versi lirici, questi si cantavano, ed erano accompagnati dalla musica degl'istrumenti. Tutte queste circostanze, che noi possiamo condannare quanto ci piace come contrarie alla verisimiglianza, come assurde, ec. quale altra impressione potevano produrre, se non un'impressione vaga e indeterminata, e quindi tutta grande, tutta bella, tutta poetica? Quelle massime non erano poste in bocca di un individuo, che le recitasse in tuono ordinario e naturale. [2806]Per grande e perfetto che il poeta avesse finto questo individuo, la idea medesima d'individuo è troppo determinata e ristretta, per produrre una sensazione o concezione indeterminata ed immensa. Queste qualità contrastano con quelle, e quelle avrebbero direttamente impedita questa concezione, non che potessero produrla. Gli uditori avrebbero conosciuto il nome, le azioni, le qualità , le avventure di quell'individuo. Egli sarebbe stato sempre quel tal Teseo, quel tal Edipo, re di Tebe, uccisore del padre, marito della madre, e cose simili. La nazione intera, la stessa posterità compariva sulla scena. Ella non parlava come ciascuno de' mortali che rappresentavano l'azione: ella s'esprimeva in versi lirici e pieni di poesia. Il suono della sua voce non era quello degl'individui umani: egli era una musica un'armonia. Negl'intervalli della rappresentazione questo attore ignoto, innominato, questa moltitudine di mortali, prendeva a far delle profonde o sublimi riflessioni [2807]sugli avvenimenti ch'erano passati o dovevano passare sotto gli occhi dello spettatore, piangeva le miserie dell'umanità , sospirava, malediceva il vizio, eseguiva la vendetta dell'innocenza e della virtù, la sola vendetta che sia loro concessa in questo mondo, cioè l'esecrare che fa il pubblico e la posterità gli oppressori delle medesime; esaltava l'eroismo, rendeva merito di lodi ai benefattori degli uomini, al sangue dato per la patria. (V. Oraz. art. poet. v.193-201.). Questo era quasi lo stesso che legare sulla scena il mondo reale col mondo ideale e morale, come essi sono legati nella vita: e legarli drammaticamente, cioè recando questo legame sotto i sensi dello spettatore, secondo l'uffizio e il costume del poeta drammatico, e quanto è possibile al dramma di rappresentare quello che è. Questo era personificare le immaginazioni del poeta, e i sentimenti degli uditori e della nazione a cui lo spettacolo si rappresentava. Gli avvenimenti erano [2808]rappresentati dagl'individui; i sentimenti, le riflessioni, le passioni, gli effetti ch'essi producevano o dovevano produrre nelle persone poste fuori di essi avvenimenti erano rappresentati dalla moltitudine, da una specie di essere ideale. Questo s'incaricava di raccogliere ed esprimere l'utilità che si cava dall'esempio di quelli avvenimenti. E per certo modo gli uditori venivano ad udire gli stessi sentimenti che la rappresentazione ispirava loro, rappresentati altresì sulla scena, e si vedevano quasi trasportati essi medesimi sul palco a fare la loro parte; o imitati dal coro, non meno che si fossero gli eroi imitati e rappresentati dagli attori individui. Anche quando il coro prendeva parte diretta all'azione, questo fare agir nel dramma la moltitudine, era più poetico, e doveva produrre maggiore e più vivo effetto, che il divider tutta l'azione fra pochi individui, come noi facciamo.
Da queste considerazioni si argomenti se [2809]sia giusto il dire che l'uso del coro nuoce all'illusione. Qual grata illusione senza il vago e l'indefinito? E qual dolce grande e poetica illusione doveva nascere dalle circostanze sovra esposte! (21. Giugno. 1823.). Nelle commedie la moltitudine serve altresì all'entusiasmo e al vago della gioia, alla ???????, a dar qualche apparente e illusorio peso alle cagioni sempre vane e false che noi abbiamo di rallegrarci e godere, a strascinare in certo modo lo spettatore nell'allegrezza e nel riso, come accecandolo, inebbriandolo, vincendolo coll'autorità della vaga moltitudine. V. p.2905.
Io non so quali abbiano ragione intorno all'origine del verbo latino accuso, o quelli che lo derivano da causa, o quelli che lo fanno venire da un verbo cuso continuativo di cudere, del qual cuso non recano però nessuno esempio. (V. Forcell. v. accuso fin. v. cuso.). Forse a questi ultimi potrebbe esser favorevole il nostro antico cusare, il quale se venisse da cuso e non da causari, o se non fosse uno storpiamento d'accusare, sarebbe un antichissimo tema perduto o disusato nel latino scritto, e conservato nell'italiano; e sarebbe il semplice dei verbi composti accuso, incuso, excuso, recuso. È da notare però che il nostro volgo (almeno quello della Marca) usa il verbo causare nel significato appunto del nostro antico cusare, e del latino causari, cioè in senso, non di cagionare, ma di recare per cagione o come [2810]cagione, accagionare: l'usa dico in questa frase avverbiale causando che, cioè atteso che, poichè. Il qual significato di causare e il qual modo avverbiale non è notato dalla Crusca, ma trovasi pure usato da Lorenzo de' Medici nella famosa lettera a Gio. de' Medici Card. suo figliuolo, poi Papa Leone X, verso il fine, dove però nella raccolta di Prose, stampata in Torino 1753. vol.2. p.782. trovo cagionando che per causando che, che sta nelle Lettere di diversi eccellentissimi huomini, raccolte dal Dolce, Venez. appresso Gabriel Giolito de' Ferrari et fratelli 1554. p.303. e nelle Lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellentissimi ingegni stampate da Paolo Manuzio in Venez. 1544. carte 6. p.2. (In ogni modo anche la frase avverbiale cagionando che manca nella Crusca.) Nelle Lettere di XIII Huomini illustri, Ven. per Comin da Trino di Monferrato 1561. p.485. trovo pensando che. Vedi il Magnifico di Roscoe, dove quella lettera è riportata.
Del resto il verbo accuso o accudo, o cudo-cusus semplice ha il suo continuativo o frequentativo accusito. (23. Giugno. 1823.). Se accuso è quasi accauso, tanto e tanto è da notare questo continuativo, che sarà quasi accausito dal participio accausatus.
[2811]Alla p.2775. Il verbo ????? che oggi si pone come tema, non è certamente altro che reduplicazione di un tema più semplice, il che è dimostrato sì dalla voce ????, sì dal verbo ??? presso Omero, sì dalla voce ??????? usata più volte da Plutarco per temere. ????????, ?????????, ????????? da ??????? per reduplicazione. ???????? da ??????. ??????? da ????? o da ?????. V. p.4109. Anche in latino titillo è fatto per duplicazione da ?????. E altre tali duplicazioni alla greca si trovano pure in latino (come quelle de' perfetti memini, cecidi ec.), sieno veramente latine di origine, o greche, o comuni anticamente ad ambe le lingue, ec. ec.
(23. Giugno. 1823.)
Institutum autem eius (Moeridis in ??????????) est annotare et inter se conferre voces quibus Attici, et quibus Graeci in aliis dialectis, maxime illa ????? utebantur: interdum notat et ?????? vulgi, illudque diversum facit non modo ab Attico sed etiam ????????, ut in ????????, ???????, ??????, ?????, ????????, ????, ???????. Fabric. B. G. edit. vet. l.5. c.38.§.9. num.157. vol.9 p.420.
(23. Giugno. 1823.)
Alla p.2776. margine. Lo stesso discorso si può fare di ?????, il quale è pur verbo esprimente un suono, e fatto per imitazione di questo suono; il qual suono come è similissimo a quello di ????, così non ha niente che fare con ?????. Ma questa e simili interposizioni della lettera ? [2812]e d'altre tali, sono state fatte o per evitare l'iato o per altre diverse cagioni, nel processo della lingua, quando già non v'era più bisogno che il vocabolo per essere inteso, esprimesse e rappresentasse collo stesso suo suono l'oggetto significato, ma egli era già inteso generalmente per se, e non per virtù della sua origine; e quando già nella lingua si guardava più alla dolcezza ec. che alla necessità ec. ne' quali modi le parole in tutte le lingue si sono allontanate dalla forma primitiva e hanno spesso perduto affatto quel suono rappresentativo che prima avevano e sul quale furono modellati e creati, e nel quale da principio consisteva la ragione della loro significanza. I latini dal tema ???? o bauare fecero baubari, interponendo un b (il quale in questo caso è più adattato all'imitazione) invece del ?. Noi baiare, che per verità potrebb'essere appunto quello stesso originale ???? ch'è affatto perduto nella lingua greca e nella latina scritta: e ben si potrebbe credere che fosse totalmente [2813]voce antica latina, conservata nel volgare; dal che si dedurrebbe, primo, che l'antico latino, e di poi il suo volgare perpetuamente conservò puro il verbo originale ???? (giacchè l'? greco in latino antico ora risponde a un u, ora ad un i), quantunque non si trovi nel latino scritto; verbo inusitato affatto nell'antica e moderna grecità nota; secondo, che questo antichissimo verbo, perduto, o vogliamo dire alterato nel greco, perduto ossia alterato nel latino scritto, conservasi ancora purissimo e senz'alterazione alcuna nell'italiano, e vedi la pag.2704. Si potrebbe anche credere che i primi latini e il volgo, invece di baubari dicessero bauari (appunto ??????), e che la mutazione dell'u in i (vocali che spessissimo si scambiano, per esser le più esili, come ho detto altrove) seguisse nell'italiano e nel francese ec. Ovvero che gli antichi dicessero bauari, e poi il volgo baiari.
(24. Giugno 1823.)
I continuativi latini, tutti (se non forse visere da visus di video, co' suoi composti inviso, reviso ec., e forse qualche altro, che io chiamerò continuativi anomali) appartenenti alla prima congiugazione, sono fatti dal participio o dal supino del verbo originale come ho dimostrato. Nondimeno io trovo alcuni pochi verbi, pur della prima maniera, i quali sono evidentemente fratelli o figli di altri verbi della terza, ed hanno una significazione evidentemente continuativa della significazione di questi, ma non sono fatti da' loro participii. Quelli che io ho osservati sono 1. cubare, co' suoi composti accubare, incubare, decubare, secubare, recubare, ec. il significato de' quali è manifestissimamente [2814]continuativo di quello di cumbere (inusitato, fuorchè nella voce cubui ec. e cubitum che ora s'attribuiscono a cubare), incumbere, accumbere ec. tanto che ogni volta che si dee esprimere azione continuata, si usano immancabilmente quelli e non questi, (come anche viceversa nel caso opposto) e appena si troverà buono esempio del contrario, quale potrebb'esser quello di Virgilio Aen. 2. 513-14. Ingens ara fuit; juxtaque veterrima laurus Incumbens arae, invece d'incubans. 2. educare continuativo di educere quanto al significato. 3. jugare parimente di jungere, e così conjugare, abiugare, deiugare, e s'altro composto ve n'ha. 4. dicare similmente di dicere, e così i composti judicare, di ius dicere; dedicare, praedicare, abdicare ec. V. p.3006. 5. labare di labere inusitato, cioè labi deponente. È nóto che questi verbi della terza hanno anche i loro continuativi formati regolarmente da' loro participii, ma con significato diverso da quello de' soprascritti verbi della prima, sebbene anch'esso continuativo; come dicere ha pur dictare e dictitare; ducere, onde educere, ha ductare e ductitare; jungere ha nel basso latino e nello spagnuolo junctare, (noi volgarmente aggiuntare, i franc. ajouter); labi o labere ha pur lapsare22. Cubitare, accubitare ec. possono venire da accubatus [2815]inusitato e da accubitus, ec. e quindi essere derivativi così di accumbere come di accubare. Ma questo, con tutti i suoi fratelli e col suo semplice cubo, non ha del proprio nè il preterito perfetto nè i tempi che da questo si formano, nè il participio in us, nè il supino,...
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