DIALOGO
DI MESSER PIETRO ARETINO
NEL QUALE LA NANNA IL PRIMO GIORNO
INSEGNA A LA PIPPA SUA FIGLIUOLA
A ESSER PUTTANA,
NEL SECONDO GLI CONTA I TRADIMENTI
CHE FANNO GLI UOMINI
A LE MESCHINE CHE GLI CREDANO,
NEL TERZO E ULTIMO
LA NANNA E LA PIPPA SEDENDO NE L'ORTO
ASCOLTANO LA COMARE E LA BALIA
CHE RAGIONANO DE LA RUFFIANIA.
AL GENTILE E ONORATO MESSER BERNARDO VALDAURA
REALE ESSEMPIO DI CORTESIA
PIETRO ARETINO.
Certamente se il mio animo, il quale è con voi quasi sempre, non mi vi rammentava, io era a peggior partito che non sono i vizi còlti in uggio da lo odio che in eterno gli portarà quella libertà di natura concessami da le stelle: perché, sendo io tenuto di molto obligo con una schiera di mezzi iddii, non sapeva a chi mi intitolare la istoria che io vi intitolo. S'io la dedicava al re di Francia, ingiuriava quel dei Romani. Offerendola al gran genero di Cesare e gran duca di Fiorenza, lume di giustizia e di continenzia, mi dimostrava ingrato a la somma bontà di Ferrara. Volgendola al magno Antonio da Leva, che averia detto di me l'ottima eccellenzia di Mantova e l'onorato marchese del Vasto? Porgendola al buon prencipe di Salerno, dispiaceva al fedel conte Massimiano Stampa. Se io la indrizzava a don Lopes Soria, con qual fronte mi rivolgeva io dintorno al conte Guido Rangone e al signor Luigi Gonzaga suo cognato, le cui qualità onorano tanto l'armi e le lettere quanto l'armi e le lettere onorano lui? Se io la presentava a Loreno, chi mi assicurava de la grazia di Trento? Che sodisfazione dava io a Claudio Rangone, lampa di gloria, colocandola nel signor Livio Liviano, o nel generoso cavalier da Legge? Come trattava io l'ottimo signor Diomede Caraffa e il mio signor Giambattista Castaldo, a la gentilezza del quale tanto debbo, caso che io ne avesse ornato qualcuno altro? Ma lo apparirmi voi ne la mente è stato cagione che io vi porgo i presenti ragionamenti: e ben lo meritano le condizioni le quali vi fanno risplendere come ne le loro risplendono i miei benefattori. E se io vi teneva in fantasia quando consacrai i tre giorni dei Capricci al Bagattino, per avere egli la qualità dei gran maestri (che io odio per grazia de la loro avarizia), uscivano forse in campo a nome vostro: solo per aver voi di quelle parti le quali hanno i grandi uomini che io per lor vertù adoro, e sète mercatante nel procacciare e re nel dispensare, né senza quale vi congiugneste di carnal benivolenzia col tanto animoso quanto infelice Marco di Nicolò. E vergogninsi i monarchi terreni: non parlo del saggio e valoroso duca Francesco Maria, ai meriti del quale mi inchino mattina e sera, ma di quelli che lasciano le lodi che se gli solevano dare e i libri che si imprimevano a nome loro, non pure a privati gentiluomini, ma a le scimie ancora, e merita di sedere a la destra de le Croniche del Iovio l'atto del Molza e del Tolomeo, i quali fecero recitare una lor comedia a tutti gli staffieri e a tutti i famigli di stalla di Medici magnanima memoria, facendo star di fuora tutte le gran gentaglie. E per dirvi, Omero nel formare Ulisse non lo imbellettò con la varietà de le scienze, ma lo fece conoscitore dei costumi de le genti. E perciò io mi sforzo di ritrarre le nature altrui con la vivacità che il mirabile Tiziano ritrae questo e quel volto; e perché i buoni pittori apprezzano molto un bel groppo di figure abozzate lascio stampare le mie cose così fatte, né mi curo punto di miniar parole: perché la fatica sta nel disegno, e se bene i colori son belli da per sé, non fanno che i cartocci loro non sieno cartocci, e tutto è ciancia, eccetto il far presto e del suo. Eccovi là i Salmi, eccovi la Istoria di Cristo, eccovi le Comedie, eccovi il Dialogo, eccovi i volumi divoti e allegri, secondo i subietti; e ho partorito ogni opera quasi in un dì: e perché si fornisca di vedere ciò che sa far la dote che si ha ne le fasce tosto udiransi i furori de l'armi e le passioni d'amore, che io doveria lasciar di cantare per descrivere i gesti di quel Carlo Augusto che inalza più gli uomini a consentire che se gli dica uomo, che non abbassa gli dèi a non sopportare che se gli dica iddio. E quando io non fosse degno di onor veruno mercé de le invenzioni con le quali do l'anima a lo stile, merito pur qualche poco di gloria per avere spinto la verità ne le camere e ne le orecchie dei potenti a onta de la adulazione e de la menzogna, e per non difraudare il mio grado, usarò le parole istesse del singulare messer Gian Iacopo imbasciadore d'Urbino: "Noi che spendiamo il tempo nei servigi dei prencipi, insieme con ogni uomo di corte e con ciascun vertuoso, siamo riguardati e riconosciuti dai nostri padroni bontà dei gastighi che gli ha dati la penna di Pietro". E lo sa Milano come cadde de la sacra bocca di colui che in pochi mesi mi ha arricchito di due coppe d'oro: "L'Aretino è più necessario a la vita umana che le predicazioni, e che sia il vero, esse pongano in su le dritte strade le persone semplici, e i suoi scritti le signorili"; e il mio non è vanto, ma un modo di procedere per sostener se medesimo osservato da Enea dove non era conosciuto. E per conchiuderla, accettate il dono che io vi faccio, con quel core che io ve lo appresento; e in premio di ciò, fate riverenza a don Pedro di Toledo, marchese di Villa Franca e veceré di Napoli, in mio nome.
IN QUESTA PRIMA GIORNATA
DEL DIALOGO DI MESSER PIETRO ARETINO
LA NANNA INSEGNA A LA SUA FIGLIUOLA PIPPA
L'ARTE PUTTANESCA.
NANNA. Che collera, che stizza, che rabbia, che smania, che batticuore e che sfinimento e che senepe è cotesta tua, fastidiosetta che tu sei?
PIPPA. Egli mi monta la mosca, perché non mi volete far cortigiana come vi ha consigliata monna Antonia mia santola.
NANNA. Altro che terza bisogna per desinare.
PIPPA. Voi sète una matrigna, uh, uh...
NANNA. Piagni su, bambolina mia.
PIPPA. Io piagnerò per certo.
NANNA. Pon giuso la superbia, ponla giuso dico: perché se non muti vezzi, Pippa, se non gli muti, non arai mai brache al culo, perché oggidì è tanta la copia de le puttane, che chi non fa miracoli col saperci vivere non accozza mai la cena con la merenda e non basta lo esser buona robba, aver begli occhi, le trecce bionde: arte o sorte ne cava la macchia, le altre cose son bubbole.
PIPPA. Sì dite voi.
NANNA. Così è, Pippa, ma se farai a mio senno, se aprirai ben le orecchie ai miei ricordi, beata te, beata te, beata te.
PIPPA. Se vi spacciate a farmi signora, io le aprirò a fatto a fine.
NANNA. Caso che tu voglia ascoltarmi e lasciar di baloccare ad ogni pelo che vola, avendo il capo ai grilli come usi di fare mentre io ti rammento il tuo utile, ti stragiuro per questi paternostri che io mastico tuttavia, che fra .XV. dì a la più lunga ti metto a mano.
PIPPA. Dio il volesse, mamma.
NANNA. Vogli pur tu.
PIPPA. Io voglio, mammina cara, mammina d'oro.
NANNA. Se tu vuoi, anche io voglio; e sappi figliuola, che son più che certa del tuo diventar maggiore di qual sia mai suta favorita di papi, e ti veggo al Cielo: e perciò bada a me.
PIPPA. Ecco che io ci bado.
NANNA. Pippa, se bene ti faccio tener da la gente di .XVI. anni tu ne hai .XX. netti e schietti, e nascesti poco doppo al roinare del conchiavi di Leone, e quando per tutta Roma si gridava "palle, palle", io raitava "oimè, oimè": e appunto si appiccavano l'armi dei Medici su la porta di San Pietro quando io ti feci.
PIPPA. E perciò non mi tenete più a vendemiar nebbia: che mi dice Sandra mia cugina che si usano di .XI. e di .XII. per tutto il mondo, e che l'altre non hanno credito.
NANNA. Non tel nego, ma tu non ne mostri .XIV. E per tornare a me, dico che tu mi attenda senza trasognare, e fà conto che io sia il maestro e tu il fanciullo che impara a compitare, anzi pensati che io sia il predicatore e tu il cristiano: ma se vuoi esser il fanciullo, ascoltami come fa egli quando ha paura di non andare a cavallo, se vuoi essere il cristiano, fa pensiero di odirmi nel modo che ode la predica colui che non vuole andare a casa maladetta.
PIPPA. Così faccio.
NANNA. Figlia, coloro che gittano la robba, l'onore, il tempo e se stessi dirieto a le bagasce, si lamentano sempre del poco cervello di questa e di quella non altrimenti che il loro esser pazze gli roinasse, e non si avvedendo che le fanfalughe che hanno in capo sono la lor ventura, le vituperano e le minacciano. Onde io delibero che il tuo esser savia gli faccia toccar con mano che guai ai meschini che ci incappano, se le puttane non fosser ladre, traditore, ribalde, cervelline, asine, trascurate, manigolde, da poche, briache, lorde, ignoranti, villane e il diavolo e peggio.
PIPPA. Perché, voi?
NANNA. Perché s'elle avessero tanta bontà quanta hanno malizia la gente che pure a la fine è ralluminata dai tradimenti e da le assassinarie che si veggano fare di dì e di notte, doppo un sopportare di sei, sette e dieci anni, cacciatele a le forche, hanno più piacere di vederle stentare che non ebbero dispiacere di vedersi sempre rubar da loro: e non è altro il morirsi di fame di qualunche si sia, mentre saziano di se stesse la lebbra, il cancaro e il mal francioso che le scanna, che il non esser mai state una ora in proposito.
PIPPA. Io comincio a intenderla.
NANNA. Odimi pure e ficcati nel capo le mie pistole e i miei vangeli, i quali ti chiariscano in due parole dicendoti: se un dottore, un filosofo, un mercatante, un soldato, un frate, un prete, un romito, un signore e un monsignore e un Salamone è fatto parer bestia da le pazzarone, come credi tu che quelle che hanno sale in zucca trattassero i babbioni?
PIPPA. Male gli trattarebbono.
NANNA. E perciò non è il diventar puttana mestiere da sciocche e io, che il so, non corro a furia col fatto tuo, e bisogna altro che alzarsi i panni e dir "Fà, che io fo", chi non vuol fallire il di che apre bottega. E per venir al midollo, egli interverrà, sentendosi che tu sei manomessa, che molti vorranno esser dei primi serviti, e io somigliarò un confessore che riconcili la ciurma, cotanti pissi pissi arò ne le orecchie dagli imbasciadori di questo e di quello, e sempre sarai caparrata da una dozzina: talché ci verria bene che la stomana avesse più di che non ha il mese, ma eccoti che io sto in su le mie, e rispondo a un servidor di messer tale: "Egli è il vero che Pippa mia ci è stata colta Iddio sa come (comar vacca, comar ruffiana, io te ne pagarò) e la mia figliuola, più pura che un colombo, non ci ha colpa, e da leal Nanna, una volta sola ha consentito, e vorria esser ben barba chi mi recassi a dargnele, ma sua Signoria mi ha incantata di sorte che io non ho lingua che sappia dirgli di no: sì che ella verrà poco doppo l'avemaria". E tu, in quello che il messo si move per trottare a portar la imbasciata, atraversa un tratto la casa, e fingendo che i capegli te si sleghino, làsciategli cader giù per le spalle ed entra in camera, alzando tanto il viso che il famiglio ti dia una occhiatina.
PIPPA. Che importa il farlo?
NANNA. Importa che i garzoni sono tutti frappatori e ciurmatori dei lor signori; e giugnendo questo che io dico dinanzi al suo, per furar le grazie ansciando e tutto affannato dirà: "Padrone, io ho tanto fatto, che ho visto la putta: ella ha le trecce che paiano fila d'oro, ha due occhi che ne disgrazio un falcone, una altra cosa: io vi mentovai a posta per vedere che segno faceva udendo di voi; che più? ella mi è suta per abbrusciare con un sospiro".
PIPPA. Che pro' mi faranno cotali bugie?
NANNA. Ti cacciaranno in grazia di colui che ti desidera, facendogli parer mille anni lo aspettarti una ora: e quanti corrivi credi tu che ci sieno, i quali s'innamorano per sentire lodare da le fanti le lor padrone, e vengano in succhio mentre le bugiarde e infingarde le pongano sopra il ciel del forno?
PIPPA. Le fanti ancora sono de la buccia dei servidori?
NANNA. E peggio. Or tu te ne andrai a casa de l'uomo da bene che io ti do per essempio, e io con teco; e subito arrivata a lui, ti verrà incontra o in capo la scala o fino a l'uscio: fermati tutta in su la persona, che potria sgangararsi per la via; e ...
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