[Pagina precedente]...giatori, marinai, turchi, europei, bambini. Non si sentiva uno zitto. Non si sapeva più da che parte guardare. Avevamo da una parte Scutari e Kadi-Kioi; dall'altra la collina del Serraglio; in faccia Galata, Pera, il Bosforo. Per vedere ogni cosa, bisognava girare sopra sè stessi; e giravano, lanciando da tutte le parti degli sguardi fiammeggianti, e ridendo e gesticolando senza parlare, con un piacere che ci soffocava. Che bei momenti, Dio eterno!
Eppure il più grande e il più bello rimaneva da vedere. Noi eravamo ancora immobili al di qua della punta del Serraglio; senza oltrepassare la quale non si può vedere il Corno d'oro, e la più meravigliosa veduta di Costantinopoli è sul Corno d'oro. - Signori, stiano attenti - esclamò il capitano prima di dar l'ordine d'andare avanti; - ora viene il momento critico. In tre minuti siamo in faccia a Costantinopoli!
Provai un senso di freddo.
Si aspettò qualche altro momento.
Ah! come mi saltava il cuore! Con che febbre nell'anima aspettavo quella benedetta parola: - Avanti!
- Avanti! - gridò il capitano.
Il bastimento si mosse.
Andiamo! Re, principi, Cresi, potenti e fortunati della terra, in quel momento io ebbi compassione di voi; il mio posto sul bastimento valeva tutti i vostri tesori, e non avrei venduto un mio sguardo per un impero.
Un minuto - un altro minuto - si passa la punta del Serraglio - intravvedo un enorme spazio pieno di luce e un'immensità di cose e di colori - la punta è passata... Ecco Costantinopoli! Costantinopoli sterminata, superba, sublime! Gloria alla creazione ed all'uomo! Io non avevo sognato questa bellezza!
Ed ora descrivi, miserabile! profana colla tua parola questa visione divina! Chi osa descrivere Costantinopoli? Chateaubriand, Lamartine, Gautier, che cosa avete balbettato? Eppure le immagini e le parole s'affollano alla mente e fuggono dalla penna. Vedo, parlo, scrivo, tutto ad un tempo, senza speranza, ma con una voluttà che m'innebria. Vediamo dunque. Il Corno d'oro, diritto dinanzi a noi, come un largo fiume; e sulle due rive, due catene d'alture su cui s'innalzano e s'allungano due catene parallele di città , che abbracciano otto miglia di colli, di vallette, di seni, di promontorii; cento anfiteatri di monumenti e di giardini; una doppia immensa gradinata di case, di moschee, di bazar, di serragli, di bagni, di chioschi, svariati di colori infiniti; in mezzo ai quali migliaia di minareti dalla punta lucente s'alzano al cielo come smisurate colonne d'avorio; e sporgono boschi di cipressi che discendono in striscie cupe dalle alture al mare, inghirlandando sobborghi e forti; e una possente vegetazione sparsa si rizza e ribocca da ogni parte, impennacchia le cime, serpeggia fra i tetti e si curva sulle sponde. A destra, Galata con dinanzi una selva di antenne e di bandiere; sopra Galata, Pera che disegna sul cielo i possenti contorni dei suoi palazzi europei; dinanzi, un ponte che unisce le due rive, corso da due opposte folle variopinte; a sinistra, Stambul, distesa sulle sue larghe colline, ognuna delle quali sorregge una moschea gigantesca dalla cupola di piombo e dalle guglie d'oro: Santa Sofia, bianca e rosata; Sultano Ahmed, fiancheggiata da sei minareti; Solimano il Grande, coronata di dieci cupole; Sultana Validè, che si specchia nelle acque; sulla quarta collina, la moschea di Maometto II; sulla quinta, la moschea di Selim; sulla sesta, il serraglio di Tekyr; e al disopra di tutte le altezze, la torre bianca del Seraschiere che domina le rive dei due continenti dai Dardanelli al mar Nero. Di là dalla sesta collina di Stambul e di là da Galata non si vedono più che profili vaghi, punte di città e di sobborghi, scorci di porti, di flotte e di boschi, quasi svaniti in una atmosfera azzurrina, che non paiono più cose reali, ma inganni dell'aria e della luce. Come afferrare i particolari di questo quadro prodigioso? Lo sguardo si fissa per qualche momento sulle rive vicine, sopra una casetta turca o sopra un minareto dorato; ma subito si rilancia in quella profondità luminosa e spazia a caso fra quelle due fughe di città fantastiche, seguito a stento dalla mente sbalordita. Una maestà infinitamente serena è diffusa su tutta quella bellezza: un non so che di giovanile e d'amoroso, che risveglia mille rimembranze di racconti di fate e di sogni primaverili; un che d'aereo, d'arcano e di grande, che rapisce la fantasia fuori del vero. Il cielo, sfumato a finissime tinte opaline ed argentee, contorna con una nettezza meravigliosa tutte le cose; il mare, color di zaffiro, tutto picchiettato di gavitelli porporini, fa tremolare i lunghi riflessi bianchi dei minareti; le cupole scintillano; tutta quella immensa vegetazione s'agita e freme all'aria della mattina; nuvoli di colombi svolazzano intorno alle moschee; migliaia di caicchi dipinti e dorati guizzano sulle acque; il venticello del Mar Nero porta i profumi di dieci miglia di giardini; e quando inebriati da questo paradiso, e già dimentichi d'ogni altra cosa, ci si volta indietro, si vede con un sentimento nuovo di meraviglia la riva dell'Asia che chiude il panorama colla bellezza pomposa di Scutari e colle cime nevose dell'Olimpo di Bitinia; il mar di Marmara sparso d'isolette e biancheggiante di vele; e il Bosforo coperto di navi, che serpeggia fra due file interminabili di chioschi, di palazzi e di ville, e si perde misteriosamente in mezzo alle più ridenti colline dell'Oriente. Ah sì! Questo è il più bello spettacolo della terra; chi lo nega è ingrato a Dio e ingiuria la creazione; una più grande bellezza soverchierebbe i sensi dell'uomo!
Passata la prima emozione, guardai i viaggiatori: tutte le faccie erano mutate. Le due signore ateniesi avevano gli occhi inumiditi; la signora russa, nel momento solenne, s'era stretta sul cuore la piccola Olga; persino il freddo prete inglese faceva sentire per la prima volta la sua voce, esclamando di tratto in tratto: - wonderful! wonderful! - (stupendo stupendo!).
Il bastimento s'era fermato poco lontano dal ponte; in pochi minuti vi si radunò intorno un visibilio di barchette e irruppe sopra coperta una folla di facchini turchi, greci, armeni ed ebrei, che bestemmiando un italiano dell'altro mondo, s'impadronirono delle nostre robe e delle nostre persone.
Dopo un tentativo inutile di resistenza, diedi un abbraccio al capitano, un bacio a Olga, un addio a tutti e scesi col mio amico in un caicco a quattro remi, che ci condusse alla dogana, di dove ci arrampicammo per un labirinto di stradicciuole fino all'albergo di Bisanzio, sulla sommità della collina di Pera.
CINQUE ORE DOPO
La visione di stamattina è svanita. Quella Costantinopoli tutta luce e tutta bellezza è una città mostruosa, sparpagliata per un saliscendi infinito di colline e di valli; è un labirinto di formicai umani, di cimiteri, di rovine, di solitudini; una confusione non mai veduta di civiltà e di barbarie, che presenta un'immagine di tutte le città della terra e raccoglie in sè tutti gli aspetti della vita umana. Non ha veramente di una grande città che lo scheletro, che è la piccola parte in muratura; il resto è un enorme agglomeramento di baracche, uno sterminato accampamento asiatico, in cui brulica una popolazione che non fu mai numerata, di gente d'ogni razza e d'ogni religione. È una grande città in trasformazione, composta di città vecchie che si sfasciano, di città nuove sorte ieri, d'altre città che stanno sorgendo. Tutto v'è sossopra; da ogni parte si vedono le traccie d'un gigantesco lavoro: monti traforati, colli sfiancati, borghi rasi al suolo, grandi strade disegnate; un immenso sparpagliamento di macerie e d'avanzi d'incendi sopra un terreno perpetuamente tormentato dalla mano dell'uomo. È un disordine, una confusione d'aspetti disparati, un succedersi continuo di vedute imprevedibili e strane, che dà il capogiro. Andate in fondo a una strada signorile, è chiusa da un burrone; uscite dal teatro, vi trovate in mezzo alle tombe; giungete sulla sommità d'una collina, vi vedete un bosco sotto i piedi, e un'altra città sulla collina in faccia; il borgo che avete attraversato poc'anzi, lo vedete, voltandovi improvvisamente, in fondo a una valle profonda, mezzo nascosto dagli alberi; svoltate intorno a una casa, ecco un porto; scendete per una strada, addio città ! siete in una gola deserta, da cui non si vede altro che cielo; le città spuntano, si nascondono, balzan fuori continuamente sul vostro capo, ai vostri piedi, alle vostre spalle, vicine e lontane, al sole, nell'ombra, fra i boschi, sul mare; fate un passo avanti, vedete un panorama immenso; fate un passo indietro, non vedete più nulla; alzate il capo, mille punte di minareti; scendete d'un palmo, spariscon tutti e mille. Le strade, infinitamente reticolate, serpeggiano fra i poggi, corrono su terrapieni, rasentano precipizi, passano sotto gli acquedotti, si rompono in vicoli, discendono in gradinate, in mezzo ai cespugli, alle roccie, alle rovine, alle sabbie. Di tratto in tratto, la gran città piglia come un respiro nella solitudine della campagna, e poi ricomincia più fitta, più colorita, più allegra; qui pianeggia, là s'arrampica, più in là precipita, si disperde e poi si riaffolla; in un luogo fuma e strepita, in un altro dorme; in una parte rosseggia tutta, in un'altra parte è tutta bianca, in una terza vi domina il color d'oro, una quarta presenta l'aspetto d'un monte di fiori. La città elegante, il villaggio, la campagna, il giardino, il porto, il deserto, il mercato, la necropoli, si alternano senza fine innalzandosi l'uno sull'altro, a scaglioni, in modo che da certe alture si abbracciano con uno sguardo solo, sopra una sola china, tutte le varietà d'una provincia. Un'infinità di contorni bizzarri si disegna da ogni parte sul cielo e sulle acque, così fitti, così pazzamente spezzettati e dentellati dalla meravigliosa varietà delle architetture, che si confondono agli occhi come se tremolassero e s'intricassero gli uni cogli altri. In mezzo alle casette turche si alza il palazzo europeo; dietro il minareto, il campanile; sopra la terrazza, la cupola; dietro la cupola, il muro merlato; i tetti alla chinese dei chioschi sopra i frontoni dei teatri, i balconi ingraticolati degli arem di rimpetto ai finestroni a vetrate, le finestrine moresche in faccia ai terrazzi a balaustri, le nicchie delle madonne sotto gli archetti arabi, i sepolcri nei cortili, le torri fra i tugurii; le moschee, le sinagoghe, le chiese greche, le cattoliche, le armene, le une sulle altre, come se facessero a soverchiarsi, e in tutti i vani, cipressi, pini a ombrello, fichi e platani che stendono i rami sopra i tetti. Una indescrivibile architettura di ripiego asseconda gli infiniti capricci del terreno con un tritume di case tagliate a spicchi, in forma di torri triangolari, di piramidi diritte e rovesciate, circondate di ponti, di puntelli e di fossi, ammucchiate alla rinfusa, come massi franati da una montagna. A ogni cento passi tutto muta. Qui siete in una strada d'un sobborgo di Marsiglia; svoltate: è un villaggio asiatico; tornate a svoltare: è un quartiere greco; svoltate ancora: è un sobborgo di Trebisonda. Alla lingua, ai visi, all'aspetto delle case riconoscete di aver cangiato di stato; sono spicchi di Francia, striscie d'Italia, screziature d'Inghilterra, innesti di Russia. Sulla immensa faccia della città si vede rappresentata ad architetture e a colori la grande lotta che si combatte fra la famiglia cristiana che riconquista e la famiglia islamitica che difende colle ultime sue forze la terra sacra. Stambul, una volta tutta turca, è assalita da ogni parte da quartieri cristiani, che la rodono lentamente lungo la sponda del Corno d'oro e del Mar di Marmara; dall'altra parte la conquista procede in furia: le chiese, i palazzi, gli ospedali, i giardini pubblici, gli opifici, le scuole squarciano i quartieri musulmani, soverchiano i cimiteri, si avanzano di collina in collina, e già disegnano vagamente sul terreno sconvolto la forma d'una grande città che un giorno coprirà ...
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