[Pagina precedente]...ntaminare la casa, così nessuno degli innumerevoli cani di Costantinopoli ha padrone. Formano tutti insieme una grande repubblica di vagabondi liberissimi, senza collare, senza nome, senza uffici, senza casa, senza leggi. Fanno tutto nella strada; vi si scavano delle piccole tane, vi dormono, vi mangiano, vi nascono, vi allattano i piccini, e vi muoiono; e nessuno, almeno a Stambul, li disturba menomamente dalle loro occupazioni e dai loro riposi. Essi sono i padroni della via. Nelle nostre città è il cane che si scansa per lasciar passare i cavalli e la gente. Là è la gente, sono i cavalli, i cammelli, gli asini che fanno anche un lungo giro per non pestare i cani. Nei luoghi più frequentati di Stambul, quattro o cinque cani raggomitolati e addormentati proprio nel bel mezzo della strada, si fanno girare intorno per una mezza giornata tutta la popolazione d'un quartiere. E lo stesso accade a Pera e a Galata, benchè qui siano lasciati in pace non già per rispetto, ma perchè sono tanti, che a volerseli cacciare di fra i piedi, bisognerebbe non far altro che tirar calci e legnate dal momento che s'esce di casa al momento che si ritorna. A mala pena si scomodano quando, nelle strade piane, si vedono venire addosso una carrozza a tiro a quattro, che va come il vento, e non ha più tempo di deviare. Allora si alzano, ma non prima dell'ultimo momento, quando hanno le zampe dei cavalli a un filo dalla testa, e trasportano stentatamente la loro pigrizia quattro dita più lontano: lo strettissimo necessario per salvare la vita. La pigrizia è il tratto distintivo dei cani di Costantinopoli. Si accucciano in mezzo alle strade, cinque, sei, dieci in fila od in cerchio, arrotondati in maniera che non paion più bestie, ma mucchi di sterco, e lì dormono delle giornate intere, fra un viavai e uno strepito assordante, e non c'è nè acqua, nè sole, nè freddo che li riscuota. Quando nevica, rimangon sotto la neve; quando piove, restano immersi nella mota fin sopra la testa, tanto che poi, alzandosi, paiono cani sbozzati nella creta, e non ci si vede più nè occhi, nè orecchie, nè muso. A Pera e a Galata, però, son meno indolenti che a Stambul, perchè ci trovano meno facilmente da mangiare. A Stambul sono in pensione, a Pera e a Galata mangiano alla carta. Sono le scope viventi delle strade. Quello che rifiutano i maiali, per loro è ghiottoneria. Fuor che i sassi mangiano tutto, e appena hanno tanto in corpo da non morire, tornano a raggomitolarsi in terra e ridormono fin che non li sveglia la fame. Dormono quasi sempre nello stesso luogo. La popolazione canina di Costantinopoli è divisa per quartieri come la popolazione umana. Ogni quartiere, ogni strada è abitata, o piuttosto posseduta da un certo numero di cani, parenti ed amici, che non se ne allontanano mai, e non vi lasciano penetrare stranieri. Esercitano una specie di servizio di polizia. Hanno i loro corpi di guardia, i loro posti avanzati, le loro sentinelle fanno la ronda e le esplorazioni. Guai se un cane d'un altro quartiere, spinto dalla fame, s'arrischia nei possedimenti dei suoi vicini! Una frotta di cagnacci insatanassati gli piomba addosso, e se lo coglie, lo finisce; se non può coglierlo, lo insegue rabbiosamente fino ai confini del quartiere. Sino ai confini, non più in là; il paese nemico è quasi sempre rispettato e temuto. Non si può dare un'idea delle battaglie, dei sottosopra che seguono per un osso, per una bella, o per una violazione di territorio. Ogni momento si vede una frotta di cani stringersi furiosamente in un gruppo intricato e confuso, e sparire in un nuvolo di polvere, e lì urli e latrati e guaiti da lacerare le orecchie ad un sordo; poi la frotta si sparpaglia, e a traverso il polverìo diradato si vedono distese sul terreno le vittime della mischia. Amori, gelosie, duelli, sangue, gambe rotte e orecchie lacerate, son l'affare d'ogni momento. Alle volte se ne radunan tanti e fanno tali baldorie davanti a una bottega, che il bottegaio e i garzoni son costretti ad armarsi di stanghe e di seggiole e a fare una sortita militare in tutte le regole per sgombrare la strada; e allora si sentono risonar teste e schiene e pancie, e ululati che fanno venir giù l'aria. A Pera e a Galata in specie, quelle povere bestie sono tanto malmenate, tanto abituate a toccare una percossa ogni volta che vedono un bastone, che al solo sentir battere sul ciottolato un ombrello o una mazzina, o scappano o si preparano a scappare; ed anche quando sembra che dormano, tengono quasi sempre un occhio socchiuso, un puntino impercettibile di pupilla, con cui seguono attentissimamente, anche per un quarto d'ora filato, e a qualunque distanza, tutti i più leggieri movimenti di qualsiasi oggetto che abbia apparenza d'un bastone. E son così poco assuefatti a trattamenti umani, che basta, passando, accarezzarne uno, che dieci altri accorrono saltellando, mugolando, dimenando la coda, e accompagnano il protettore generoso fino in fondo alla strada, cogli occhi luccicanti di gioia e di gratitudine. La condizione d'un cane a Pera e a Galata è peggiore, ed è tutto dire, di quella d'un ragno in Olanda, che è l'essere più perseguitato di tutto il regno animale. Non si può, vedendoli, non credere che ci sia anche per loro un compenso dopo morte. Anch'essi, come ogni altra cosa a Costantinopoli, mi destavano una reminiscenza storica; ma era un'amara ironia; erano i cani delle caccie famose di Baiazet, che correvano per le foreste imperiali dell'Olimpo colle gualdrappine di porpora e coi collari imperlati. Quale diversità di condizione sociale! La loro sorte infelice dipende anche in parte dalla loro bruttezza. Sono quasi tutti cani della razza dei mastini o dei can lupi, e ritraggono un po' del lupo e della volpe; o piuttosto non ritraggono di nulla; sono orribili prodotti d'incrociamenti fortuiti, screziati di colori bizzarri, della grandezza dei così detti cani da macellaio, e magri che se ne possono contar le costole a venti passi. La maggior parte poi, oltre alla magrezza, son ridotti dalle risse in uno stato che, se non si vedessero camminare, si piglierebbero per carcami di cani macellati. Se ne vedono colla coda mozza, colle orecchie monche, col dorso spelato, col collo scorticato, orbi d'un occhio, zoppi di due gambe, coperti di guidaleschi e divorati dalle mosche; ridotti agli ultimi termini a cui si può ridurre un cane vivente; veri avanzi della fame, della guerra e della vaga venere. La coda, si può dire che è un membro di lusso: è raro il cane di Costantinopoli che la serbi intera per più di due mesi di vita pubblica. Povere bestie! metterebbero pietà in un cuore di sasso; eppure si vedono qualche volta potati e rosicchiati in un modo così strano, si vedono camminare con certi dondolamenti così svenevoli, con certi barcollii così grotteschi, che non si possono trattenere le risa. E non son nè la fame nè la guerra nè le legnate il loro peggiore flagello: è un uso crudele invalso da qualche tempo a Galata e a Pera. Sovente, di notte, i pacifici peroti sono svegliati nei loro letti da un baccano indiavolato; e affacciandosi alle finestre, vedon giù nella strada una ridda spaventevole di cani che spiccano salti altissimi, e fanno rivoltoloni furiosi e battono capate tremende nei muri; e la mattina all'alba la strada è coperta di cadaveri. È il dottorino o lo speziale del quartiere, che avendo l'abitudine di studiare la notte, e non volendo esser disturbati dalla canea, si sono procurati una settimana di silenzio con una distribuzione di polpette. Queste ed altre cagioni fanno sì che il numero dei cani diminuisca continuamente a Pera e a Galata; ma a che pro? Intanto a Stambul crescono e si moltiplicano, sin che non trovando più alimento nella città turca, migrano a poco a poco all'altra riva, e riempiono nella famiglia sterminata tutti i vuoti che v'han fatto le battaglie, la carestia e il veleno.
*
* *
[Gli eunuchi]
Ma vi sono altri esseri, a Costantinopoli, che fanno più compassione dei cani, e son gli eunuchi, i quali, come s'introdussero fra i turchi malgrado i precetti formali del Corano che condannano questa infame degradazione della natura, sussistono ancora, malgrado la legge recente che ne proibisce il traffico, poichè è più forte della legge la scellerata avidità dell'oro che fa commettere il delitto, e l'egoismo spietato che se ne vale. Questi disgraziati s'incontrano ad ogni passo nelle strade, come s'incontrano, ad ogni passo nella storia. In fondo a ogni quadro della storia turca, campeggia una di queste figure sinistre, colle fila d'una congiura nel pugno; coperto d'oro o intriso di sangue, vittima, o favorito, o carnefice, palesemente od occultamente formidabile, ritto come uno spettro all'ombra del trono, o affacciato allo spiraglio d'una porta misteriosa. Così per Costantinopoli, in mezzo alla folla affaccendata dei bazar, tra la moltitudine allegra delle Acque dolci, fra le colonne delle moschee, accanto alle carrozze, nei piroscafi, nei caicchi, in tutte le feste, in tutte le folle, si vede questa larva d'uomo, questa figura dolorosa, che fa colla sua persona una macchia lugubre su tutti gli aspetti ridenti della vita orientale. Scemata l'onnipotenza della corte, è scemata la loro importanza politica, come rilassandosi la gelosia orientale, è diminuita la loro importanza nelle case private; i vantaggi del loro stato son quindi molto scaduti; essi non trovano più che assai difficilmente nella ricchezza e nella dominazione un compenso alla loro sventura; non si trovano più i Ghaznefer Agà che consentono alla mutilazione per diventar capi degli eunuchi bianchi; tutti sono ora certamente vittime, e vittime senza conforti; comprati o rubati bambini, in Abissinia od in Siria, uno su tre sopravvissuti al coltello infame, e rivenduti in onta alla legge, con una ipocrisia di segretezza, più odiosa d'un aperto mercato. Non c'è bisogno di farseli indicare, si riconoscono all'aspetto. Son quasi tutti d'alta statura, grassi, flosci, col viso imberbe e avvizzito, corti di busto, lunghissimi di gambe e di braccia. Portano il fez, un lungo soprabito scuro, i calzoni all'europea e uno staffile di cuoio d'ippopotamo, che è l'insegna del loro ufficio. Camminano a lunghi passi, mollemente, come grandi bambini. Accompagnano le signore a piedi o a cavallo, davanti e dietro le carrozze, quando uno, quando due insieme, e rivolgono sempre intorno un occhio vigilante, che al menomo sguardo o atto irriverente di chi passa, piglia un'espressione di rabbia ferina che mette paura e ribrezzo. Fuor di questi casi, il loro viso o non dice assolutamente nulla, o non esprime che un tedio infinito d'ogni cosa. Non mi ricordo d'averne visto ridere alcuno. Ce ne sono dei giovanissimi, che par che abbiano cinquant'anni; dei vecchi, che sembrano adolescenti invecchiati in un giorno; dei molto pingui, tondi, molli, lucidi, che sembrano enfiati o ingrassati apposta come bestie suine; tutti vestiti di panni fini, puliti e profumati come damerini vanitosi. Ci sono degli uomini senza cuore che passando accanto a quei disgraziati li guardano e ridono. Costoro credono forse che, essendo così come sono fin dall'infanzia, non comprendano la loro sventura. Si sa invece che la comprendono e che la sentono; ma se anche non si sapesse, come si potrebbe dubitarne? Non appartenere ad alcun sesso, non essere che una mostra d'uomo; vivere in mezzo agli uomini e vedersene separati da un abisso; sentir fremere la vita intorno a sè, come un mare, e dovervi rimanere in mezzo, immobili e solitarii come uno scoglio; sentire tutti i propri pensieri e tutti i sentimenti strozzati da un cerchio di ferro che nessuna virtù umana potrà mai spezzare; aver perpetuamente dinanzi un'immagine di felicità, a cui tutto tende, intorno a cui tutto gira, di cui tutto si colora e s'illumina, e sentirsene smisuratamente lontani, nell'oscurità, in un vuoto immenso e freddo, come creature maledette da Dio; essere anzi i custodi di quella felicità, la barriera che l'uomo geloso mette fra i suoi piaceri e...
[Pagina successiva]