[Pagina precedente]...e veniva gente d'ogni paese. Alla tavola rotonda sedevano ogni giorno venti nazioni. Desinando, non mi potevo levar dalla testa d'essere un delegato del governo italiano, e di dover prendere la parola alle frutta su qualche grande questione internazionale. C'erano visi rosei di lady, teste scapigliate d'artisti, grinte d'avventurieri da batterci moneta sopra, testine di vergini bizantine a cui non mancava che il nimbo d'oro, faccie bizzarre e sinistre; e ogni giorno cangiavano. Alle frutta, quando tutti parlavano, pareva d'essere nella torre di Babele. Vi conobbi fin dal primo giorno parecchi russi infatuati di Costantinopoli. Ogni sera ci ritrovavamo là, di ritorno dai punti estremi della città, e ognuno aveva un viaggio da raccontare. Chi era salito in cima alla torre del Seraschiere, chi aveva visitato i cimiteri di Eyub, chi veniva da Scutari, chi aveva fatto una corsa sul Bosforo; la conversazione era tutta ordita di descrizioni piene di colori e di luce; e quando mancava la parola, i vini dolci e profumati dell'Arcipelago facevano da suggeritori. C'erano pure alcuni miei concittadini, bellimbusti danarosi, che mi fecero divorar molta stizza, perchè dalla minestra alle frutta non facevano che dire ira d'Iddio di Costantinopoli: e che non c'eran marciapiedi, e che i teatri erano oscuri, e che non si sapeva come passar la sera. Erano venuti a Costantinopoli per passar la sera. Uno di costoro aveva fatto il viaggio sul Danubio. Gli domandai se gli era piaciuto il gran fiume. Mi rispose che in nessuna parte del mondo si cucinava lo storione come sui piroscafi della reale e imperiale Compagnia austriaca. Un altro era un tipo amenissimo di viaggiatore amoroso; uno di coloro che viaggiano per sedurre, col taccuino delle conquiste. Era un contino lungo e biondo, largamente dotato dell'ottavo dono dello Spirito Santo, che quando il discorso cadeva sulle donne turche, chinava la testa con un sorriso misterioso, e non pigliava parte alla conversazione se non con mezze parole troncate sempre artificialmente da una sorsata di vino. Arrivava tutti i giorni a desinare un po' più tardi degli altri, tutto ansante, coll'aria d'averla fatta al Sultano un quarto d'ora prima, e tra un piatto e l'altro faceva passare di tasca in tasca, con molta cautela, dei bigliettini piegati, che dovevano parere lettere d'odalische, ed erano sicurissimamente note d'albergo. Ma i soggetti che s'inciampano in questi alberghi di città cosmopolite! Bisogna esserci stati per crederci. V'era un giovane ungherese, sulla trentina, alto, nervoso, con due occhi diabolici e una parlantina febbrile, il quale, dopo aver fatto il segretario d'un ricco signore a Parigi, era andato ad arruolarsi fra gli zuavi francesi in Algeria, era stato ferito e preso prigioniero dagli Arabi, poi scappato nel Marocco, poi ritornato in Europa e corso all'Aja a chiedere il grado d'ufficiale per andare a combattere contro gli Accinesi; respinto all'Aja, aveva deciso d'arrolarsi nell'esercito turco; ma passando a Vienna per venire a Costantinopoli, s'era preso una palla di pistola nel collo, in un duello per una donna, e faceva vedere la cicatrice; respinto anche a Costantinopoli, - cos'ho da fare? - diceva - je suis enfant de l'aventure; bisogna bene ch'io mi batta; ho già trovato chi mi conduce alle Indie, - e mostrava il biglietto d'imbarco -; mi farò soldato inglese; nell'interno c'è sempre qualcosa da fare; io non cerco che di battermi; che cosa m'importa di morire? Tanto ho un polmone rovinato. - Un altro bell'originale era un francese, la cui vita pareva non fosse altro che una perpetua guerra colla posta: aveva una quistione pendente con la posta austriaca, colla francese, coll'inglese; mandava articoli di protesta alla Neue Freie Presse; lanciava impertinenze telegrafiche a tutte le stazioni postali del continente, aveva ogni giorno un diverbio a qualche finestrino di posta, non riceveva una lettera a tempo, non ne scriveva una che arrivasse dov'era mandata, e raccontava a tavola tutte le sue disgrazie e tutte le sue baruffe, concludendo sempre coll'assicurarci che la Posta gli avrebbe accorciata la vita. Mi ricordo pure d'una signora greca, un viso di spiritata, vestita bizzarramente, e sempre sola, che ogni sera si alzava da tavola a metà del desinare, e se n'andava dopo aver fatto sul piatto un segno cabalistico di cui nessuno riuscì mai a capire il significato. Non ho più dimenticata nemmeno una coppia valacca, un bel giovane sui venticinque anni e una giovanetta sul primo sboccio, comparsi una sera sola, che erano indubitatamente due fuggiaschi; lui rapitore, lei complice; perchè bastava fissarli un momento per farli arrossire, e ogni volta che s'apriva la porta, scattavano come due molle. Di chi altri mi ricordo? di cento altri, se ci pensassi. Era una lanterna magica. Ci divertivamo, il mio amico ed io, i giorni dell'arrivo d'un piroscafo, a veder entrare la gente per la porta di strada: tutti stanchi, sbalorditi, qualcuno ancora commosso dallo spettacolo della prima entrata; faccie che dicevano: - Che mondo è questo? Dove siamo venuti a cascare? - Un giorno entrò un giovinetto, arrivato allora, che pareva matto dalla contentezza di essere finalmente a Costantinopoli, sogno della sua infanzia, e stringeva con tutt'e due le mani la mano di suo padre; e suo padre gli diceva con voce commossa: - Je suis heureux de te voir heureux, mon cher enfant. - Poi passavamo le ore calde alla finestra a guardare la Torre della fanciulla, che s'alza, bianca come la neve, sopra uno scoglio solitario del Bosforo, in faccia a Scutari; e mentre fantasticavamo sulla leggenda del principe di Persia che va a succhiare il veleno dal braccio della bella sultana, morsicata dall'aspide, da una finestra della casa in faccia, ogni giorno alla stess'ora, un ragazzo di cinque anni ci faceva le corna. Tutto era curioso in quell'albergo. Fra le altre cose, dinanzi alla porta, trovavamo ogni sera uno o due soggetti di faccia equivoca, che dovevano essere provveditori di modelle per i pittori, e che pigliando tutti per pittori, a tutti domandavano a bassa voce: - Una turca? una greca? un'armena? un'ebrea? una nera?
COSTANTINOPOLI
Ma torniamo a Costantinopoli, e spaziamovi come gli uccelli nel cielo. Qui ci si può levare tutti i capricci. Si può accendere il sigaro in Europa e andare a buttar la cenere in Asia. La mattina, levandoci, possiamo domandarci: - Che parte del mondo vedrò quest'oggi? - Si può scegliere fra due continenti e due mari. S'ha a nostra disposizione dei cavalli sellati in ogni piazzetta, delle barchette a vela in ogni seno, dei piroscafi a cento scali; il caicco che guizza, la talika che vola, e un esercito di ciceroni che parlano tutte le lingue d'Europa. Volete sentir la commedia italiana? veder ballare i dervis? sentir le buffonate di Caragheuz, il pulcinella turco? udire le canzonette licenziose dei teatrini di Parigi? assistere alle rappresentazioni ginnastiche degli zingari? farvi raccontare una leggenda araba da un rapsodo? andare al teatro greco? sentir predicare un iman? veder passare il Sultano? Chiedete e domandate. Tutte le nazioni sono al vostro servizio: l'armeno per farvi la barba, l'ebreo per lustrarvi le scarpe, il turco per condurvi in barca, il nero per strofinarvi nel bagno, il greco per porgervi il caffè, e tutti quanti per truffarvi. Per dissetarvi, passeggiando, trovate dei gelati fatti colla neve dell'Olimpo; se siete golosi, potete bere dell'acqua del Nilo, come il Sultano; se siete deboli di stomaco, acqua dell'Eufrate; se siete nervosi, acqua del Danubio. Potete desinare come l'arabo nel deserto o come l'epulone alla Maison dorée. Per far la siesta, avete i cimiteri; per stordirvi, il ponte della Sultana Validè; per sognare, il Bosforo; per passar la domenica, l'Arcipelago dei Principi; per veder l'Asia Minore, il monte di Bulgurlù; per vedere il Corno d'Oro, la torre di Galata; per veder ogni cosa, la torre del Seraschiere. Ma è una città ancora più strana che bella. Le cose che non si presentarono mai insieme alla nostra mente, là si presentano insieme al nostro sguardo. Da Scutari parte la carovana per la Mecca e parte il treno diretto per Brussa, l'antica metropoli; fra le mura misteriose del vecchio serraglio, passa la strada ferrata che va a Sofia; i soldati turchi scortano il prete cattolico che porta il Santo Sacramento; il popolo fa festa nei cimiteri; la vita, la morte, i piaceri, tutto s'allaccia e si confonde. V'è il movimento di Londra e la letargia dell'ozio orientale, un'immensa vita pubblica e un impenetrabile mistero nella vita privata; un governo assoluto e una libertà senza confini. Per i primi giorni non si raccapezza nulla; pare che d'ora in ora o debba cessare quel disordine o seguire una rivoluzione; ogni sera, tornando a casa, ci sembra di tornare da un viaggio; ogni mattina uno si domanda: - Ma è proprio qui vicina Stambul? - Non si sa dove andare a battere il capo, un'impressione cancella l'altra, i desiderii s'affollano, il tempo fugge; si vorrebbe restar là tutta la vita, si vorrebbe partire il giorno dopo. E quando poi s'ha da descriverlo questo caos? A momenti vi vien la tentazione di fare un fascio di tutti i libri e di tutti i fogli che ho sul tavolino, e di buttare ogni cosa dalla finestra.
GALATA
Il mio amico ed io non mettemmo testa a partito che il quarto giorno dopo l'arrivo. Eravamo sul ponte, di buon mattino, ancora incerti di quello che avremmo fatto nella giornata, quando Yunk mi propose di fare una prima grande passeggiata, con una meta determinata, coll'animo tranquillo, per osservare e studiare. - Percorriamo, - mi disse, - tutta la riva settentrionale del Corno d'Oro, anche a costo di camminare fino a notte. Faremo colezione in una taverna turca, faremo la siesta all'ombra d'un platano e ritorneremo in caicco. - Accettai la proposta; ci provvedemmo di sigari e di spiccioli, e data un'occhiata alla carta della città, ci avviammo verso Galata.
Il lettore che vuol conoscer bene Costantinopoli faccia il sacrifizio d'accompagnarci.
Arriviamo a Galata. Di qui deve cominciare la nostra escursione. Galata è posta sopra una collina che forma promontorio tra il Corno d'Oro ed il Bosforo, dov'era il grande cimitero dei Bizantini antichi. È la city di Costantinopoli. Son quasi tutte vie strette e tortuose, fiancheggiate da taverne, da botteghe di pasticcieri, di barbieri e di macellai, da caffè greci ed armeni, da ufficii di negozianti, da officine, da baracche; tutto fosco, umido, fangoso, viscoso, come nei bassi quartieri di Londra. Una folla fitta e affaccendata va e viene per le vie, aprendosi continuamente per dar passo ai facchini, alle carrozze, agli asini, agli omnibus. Quasi tutto il commercio di Costantinopoli passa per questo borgo. Qui la Borsa, la Dogana, gli uffici del Lloyd austriaco, quelli delle Messaggerie francesi; chiese, conventi, ospedali, magazzeni. Una strada ferrata sotterranea unisce Galata a Pera. Se non si vedessero per le strade dei turbanti e dei fez, non parrebbe d'essere in Oriente. Da tutte le parti si sente parlar francese, italiano e genovese. Qui i Genovesi sono quasi in casa propria, e si danno ancora un po' d'aria di padroni, come quando chiudevano il porto a loro piacimento, e rispondevano col cannone alle minaccie degl'Imperatori. Ma della loro potenza non rimangono più altri monumenti che alcune vecchie case sostenute da grossi pilastri e da arcate pesanti, e l'antico edifizio dove risiedeva il Podestà. La Galata antica è quasi interamente sparita. Migliaia di casupole sono state rase al suolo per far luogo a due lunghe strade: una delle quali rimonta la collina verso Pera, e l'altra corre parallela alla riva del mare da un'estremità all'altra di Galata. Per questa c'innoltrammo il mio amico ed io, rifugiandoci ogni momento nelle botteghe per lasciar passare dei grandi omnibus, preceduti da turchi scamiciati che sgombravano la strada a colpi di verga. A ogni passo ci suonava nell'orecchio un grido. Il facchino turco urlava: - Sac...
[Pagina successiva]