[Pagina precedente]...ccie al falcone, all'avoltoio, allo sparviero ed al nibbio, seguito da una fila di cavalieri che portano in sella i gatti pardi ammaestrati alla caccia, e da una processione di falconieri, di scudieri, di squartatori, di guardiani di furetti, di drappelli di trombettieri e di mute di cani ingualdrappati e ingioiellati.
Un'altra folla compare. Gli spettatori accalcati si prostrano: è il Sultano! Non è ancora il Sultano; non è la testa, ma il cuore dell'esercito; il focolare del coraggio e dell'ira sacra, l'arca santa, il carroccio dei musulmani, intorno a cui s'alzeranno mucchi di cadaveri e scorreranno torrenti di sangue, la bandiera verde del Profeta, l'insegna delle insegne, tolta alla moschea del Sultano Ahmed, che sventola in mezzo a una turba feroce di dervis coperti di pelli d'orso e di leone, in mezzo a una corona di sceicchi predicatori dall'aspetto ispirato, ravvolti in mantelli di pelo di cammello; fra due schiere d'emiri, discendenti di Maometto, coronati di turbanti verdi, che levano tutti insieme un clamore minaccioso e sinistro di evviva, di ruggiti, di preghiere, di canti.
Esce un'altra ondata d'uomini e di cavalli. Non è ancora il Sultano. È uno stuolo di sciaù che brandiscono i loro bastoni inargentati per far largo al giudice di Costantinopoli e al gran giudice d'Asia e d'Europa, i cui turbanti enormi torreggiano al disopra della folla; sono il vizir favorito e il vizir caimacan, coi turbanti stelleggiati d'argento e gallonati d'oro; sono tutti i vizir del divano, dinanzi ai quali ondeggiano le code di cavallo tinte di henné, appese in cima a lancie rosse ed azzurre; e infine i giudici dell'esercito e un codazzo sterminato di servi vestiti di pelli di leopardo e armati di stocco, e paggi e armigeri e vivandieri.
Un altro barbaglio di colori e di splendori annunzia un altro corteo: è il Sultano finalmente! Non è ancora il Sultano. È il gran vizir, vestito d'un caffettano purpureo foderato di zibellino; montato sopra un cavallo coperto d'acciaio e d'oro, seguito da uno sciame di servi in abito di velluto rosso, attorniato da una folla di alti dignitari e di luogotenenti generali dei giannizzeri, fra i quali biancheggia il muftì, come un cigno in mezzo a uno stormo di pavoni; e dietro a costoro, fra due schiere di lancieri dai giustacuori dorati, fra due file d'arcieri dai pennacchi a mezzaluna, i palafrenieri sfarzosi del serraglio che conducono per mano una frotta di cavalli arabi, turcomanni, persiani, caramaniani, dalle selle di velluto, dalle nappine di canutiglia, dalle redini dorate, dalle staffe damaschinate, carichi di scudi e d'armi scintillanti di rubini e di smeraldi; e infine due cammelli consacrati, uno dei quali porta il Corano e l'altro una reliquia della Kaaba.
Passato il corteo del gran vizir, scoppia una musica fragorosa di trombe e di tamburi, gli spettatori fuggono, il cannone tuona, uno stuolo di battistrada irrompe fuor della porta mulinando le scimitarre, ed ecco in mezzo a una selva fitta di lancie, di pennacchi e di spade, tra uno sfolgorio abbagliante di caschi d'oro e d'argento, sotto un nuvolo di stendardi di raso, ecco il Sultano dei Sultani, il re dei re, il distributore delle corone ai principi del mondo, l'ombra di Dio sulla terra, l'imperatore e signore sovrano del mar bianco e del mar nero, della Rumelia e dell'Anatolia, della provincia di Sulkadr, del Diarbekir, del Kurdistan, dell'Aderbigian, dell'Agiem, dello Sciam, di Haleb, d'Egitto, della Mecca, di Medina, di Gerusalemme, di tutte le contrade dell'Arabia e dell'Yemen e di tutte le altre provincie conquistate dai suoi gloriosi predecessori ed augusti antenati o sottomesse alla sua gloriosa maestà dalla sua spada fiammeggiante e trionfatrice. Il corteo solenne e tremendo passa lentamente, aprendo a quando a quando un piccolo spiraglio; e allora s'intravvedono i tre pennacchi imperlati del turbante del Dio, il viso pallido e grave e il petto lampeggiante di diamanti; poi il cerchio si richiude, la cavalcata s'allontana, le scimitarre minacciose s'abbassano, gli spettatori atterriti rialzano la fronte, la visione è svanita.
Al corteo imperiale tien dietro una folla d'ufficiali di corte, di cui uno porta sul capo lo sgabello del Sultano, un altro la sciabola, un altro il turbante, un altro il mantello, un quinto la caffettiera d'argento, un sesto la caffettiera d'oro; passano altre schiere di paggi; passa il drappello degli eunuchi bianchi, passano trecento ciambellani a cavallo, vestiti di caffettani candidi; passano le cento carrozze dell'arem dalle ruote inargentate, tratte da buoi inghirlandati di fiori o da cavalli bardati di velluto, e fiancheggiate da una legione d'eunuchi neri; passano trecento schiere di mule che portano i bagagli e il tesoro della corte, passano mille cammelli carichi di acqua, passano mille dromedarii carichi di viveri; passa un esercito di minatori, d'armaioli e d'operai di Stambul, accompagnati da bande di buffoni e di giocolieri; e in fine passa il grosso dell'esercito combattente: le orte dei giannizzeri, i silidar gialli, gli azab porporini, gli spahà dalle insegne rosse, i cavalieri stranieri dagli stendardi bianchi, i cannoni che vomitano blocchi di marmo e di piombo, le milizie feudatarie dei tre continenti, i volontarii selvaggi delle estreme provincie dell'impero; nuvoli di bandiere, selve di pennacchi, torrenti di turbanti, valanghe di ferro, che vanno a rovesciarsi sull'Europa come una maledizione di Dio, lasciando dietro di sè un deserto sparso di macerie fumanti e di piramidi di teschi.
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[L'ozio]
Benchè in qualche ora del giorno Costantinopoli paia molto operosa, in realtà è forse la città più pigra dell'Europa. Per questo, turchi e franchi si possono dare la mano. Si levano tutti il più tardi possibile. Anche d'estate, all'ora in cui le nostre città son già in movimento da un capo all'altro, Costantinopoli dorme ancora. Prima che il sole sia alto, è difficile trovare una bottega aperta e poter bere una tazza di caffè. Alberghi, uffici, bazar, banche, tutto russa allegramente, e non si scuoterebbe nemmeno col cannone. S'aggiungano le feste: il venerdì dei turchi, il sabato degli ebrei, la domenica dei cristiani, i santi innumerevoli del calendarii greci ed armeni, osservati scrupolosamente; tutte feste che, sebbene siano parziali, costringono all'ozio anche una parte della popolazione che v'è straniera; e s'avrà un'idea del lavoro che può fare Costantinopoli nel giro di sette giorni. Vi sono degli uffici che non stanno aperti più di ventiquattr'ore per settimana. Ogni giorno v'è uno dei cinque popoli della grande città che va a zonzo per le strade, in abito festivo, senz'altro pensiero che d'ammazzare il tempo. In quest'arte i turchi sono maestri. Son capaci di far durare per una mezza giornata una tazza di caffè da due soldi e di star cinque ore immobili a' piedi d'un cipresso d'un cimitero. Il loro ozio è veramente l'ozio assoluto, fratello della morte come il sonno, un riposo profondo di tutte le facoltà , una sospensione di tutte le cure, un modo di esistenza affatto sconosciuto agli europei. Non vogliono nemmeno aver il pensiero di passeggiare. A Stambul non ci sono passeggi fatti espressamente, e se ci fossero, il turco non ci andrebbe, perchè l'andare apposta in un luogo determinato per far del movimento, gli parrebbe una specie di lavoro. Egli entra nel primo cimitero o infila la prima strada che gli si presenta, e va senza proposito dove lo portan le gambe, dove lo conducono i serpeggiamenti del sentiero, dove lo trascina la folla. Raramente egli va in un luogo per vedere il luogo. Vi sono dei turchi di Stambul che non sono mai andati più in là di Kassim-pascià , dei signori musulmani che non si sono mai spinti oltre le isole dei Principi dove hanno un amico, e oltre il Bosforo dove hanno una villa. Per loro il colmo della beatitudine consiste nell'inerzia della mente e del corpo. Perciò lasciano ai cristiani irrequieti le grandi industrie che richiedono cure, passi e viaggi; e si ristringono al commercio minuto, che si può esercitar da seduti, e quasi più cogli occhi che col pensiero. Il lavoro che fra noi è quello che signoreggia e regola tutte le altre occupazioni della vita, là è subordinato, come un'occupazione secondaria, a tutti i comodi e a tutti i piaceri. Qui, il riposo non è che un'interruzione del lavoro; là il lavoro non è che una sospensione del riposo. Prima bisogna a qualunque costo dormicchiare, sognare, fumare, quelle tante ore; e poi, nei ritagli di tempo, far qualche cosa per procacciarsi la vita. Il tempo, per i turchi, significa tutt'altra cosa da quel che significa per noi. La moneta giorno, mese, anno, per loro non ha che la centesima parte del valore che ha in Europa. Il minor tempo che domandi un impiegato d'un ministero turco per dare una qualunque risposta intorno al più semplice affare, è un paio di settimane. La premura di finire una cosa per il piacere di finirla, non sanno che cosa sia. Dai facchini all'infuori, non si vede mai per le vie di Stambul un turco affaccendato che affretti il passo. Tutti camminano colla stessa cadenza, come se misurassero tutti l'andatura al suono d'uno stesso tamburo. Per noi la vita è un torrente che precipita; per loro è un'acqua che dorme.
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[La notte]
Costantinopoli è di giorno la città più splendida e di notte la città più tenebrosa d'Europa. Pochi fanali, a gran distanza l'un dall'altro, rompono appena l'oscurità nelle vie principali; le altre son buie come spelonche, e non vi è chi ci s'arrischii senza un lume alla mano. Perciò, col cader della notte, la città si fa deserta; non si vedono più che guardie notturne, frotte di cani, peccatrici furtive, qualche brigata di giovanotti che sbuca dalle birrerie sotterranee, e lanterne misteriose che appariscono e spariscono, come fuochi fatui, qua e là per i vicoli e pei cimiteri. Allora bisogna contemplare Stambul dai luoghi alti di Pera e di Galata. Le innumerevoli finestrine illuminate, i fanali dei bastimenti, i riflessi del Corno d'oro e le stelle, formano sopra un orizzonte di quattro miglia un immenso tremolìo di punti di foco, in cui si confondono il porto, la città ed il cielo, e par tutto firmamento. E quando il cielo è nuvoloso e in un piccolo spazio sereno splende la luna, si vedono sopra Stambul tutta scura, sopra le macchie nerissime dei boschi e dei giardini, biancheggiare le moschee imperiali, come una fila di enormi tombe di marmo, e la città presenta l'immagine della necropoli d'un popolo di giganti. Ma è anche più bella e più solenne nelle notti senza stelle e senza luna, nell'ora in cui tutti i lumi son spenti. Allora non si vede che un'immensa macchia nera dal Capo del Serraglio al sobborgo d'Eyub, un profilo smisurato in cui le colline sembran montagne, e le punte infinite che le coronano, pigliano apparenze fantastiche di foreste, di eserciti, di rovine, di castelli, di roccie, che fanno vagare la mente nelle regioni dei sogni. In queste notti oscure, è bello il contemplare Stambul da un'alta terrazza e abbandonarsi alla propria fantasia: penetrar col pensiero in quella grande città tenebrosa, scoperchiare quella miriade di arem rischiarati da una luce languente, veder le belle favorite che tripudiano, le abbandonate che piangono, gli eunuchi frementi che tendono l'orecchio alle porticine; seguire gli amanti notturni per i labirinti dei vicoli montuosi; girare per le gallerie silenziose del gran bazar, passeggiare per i vasti cimiteri deserti, smarrirsi in mezzo alle innumerevoli colonne delle grandi cisterne sotterranee; raffigurarsi d'esser rimasti chiusi nella gigantesca moschea di Solimano e di far risonare le navate oscure di grida di spavento e d'orrore strappandosi i capelli e invocando la misericordia di Dio; e poi tutt'a un tratto esclamare: - Che baie! Sono sulla terrazza del mio amico Santoro, e nella sala di sotto m'aspetta una cena da sibarita in compagnia dei più amabili capi ameni di Pera.
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[La vita a Costantinopoli]
In casa del mio buon amico Sa...
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