[Pagina precedente]...i facchini e dei banchieri: facchini che portan pesi e banchieri che ammassano tesori favolosi. A primo aspetto, però, nessuno s'accorgerebbe che v'è un popolo armeno a Costantinopoli, tanto la pianta ha preso, come suol dirsi, il colore del concio. Le donne stesse, per cagione delle quali la casa armena è chiusa allo straniero quasi altrettanto severamente che la musulmana, vestono alla turca, e non c'è che un occhio molto esperto che le possa riconoscere in mezzo alle loro concittadine maomettane. Sono anch'esse per lo più bianche e grassotte, ed hanno la linea aquilina del profilo orientale, grandi occhi e lunghe ciglia; molte d'alta statura e di forme matronali, che coronate d'un turbante, parrebbero bellissimi sceicchi; e quasi tutte d'aspetto signorile e modesto ad un tempo, in cui se qualche cosa manca, è la luce dell'anima che brilla sul volto della donna greca.
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[I Greci]
Quanto è difficile riconoscere a occhio l'armeno, altrettanto è facile riconoscere il greco, anche non badando al vestire; tanto egli è diverso di natura e d'aspetto dagli altri sudditi dell'Impero, e principalmente dal turco. Per rendersi ragione di questa diversità , o piuttosto di questo contrasto, basta osservare un turco ed un greco, che si trovino seduti l'uno accanto all'altro in un caffè o in un piroscafo. Hanno un bell'essere press'a poco della stessa età e dello stesso ceto, e vestiti tutt'e due all'europea, ed anche somiglianti di viso; non è possibile sbagliare. Il turco è immobile, e tutti i suoi lineamenti riposano in una specie di quiete senza pensiero, che somiglia a quella d'un animale satollo; o se il suo viso rivela un pensiero, pare che debba essere un pensiero immobile come il suo corpo. Non guarda nessuno, non dà segno d'accorgersi d'esser guardato; il suo atteggiamento mostra una profonda noncuranza di tutti coloro e di tutto quello che ha intorno; il suo viso esprime qualcosa della tristezza rassegnata d'uno schiavo e dell'orgoglio freddo d'un despota; un che di duro, di chiuso, di cocciuto, da far disperare alla prima chi si proponesse di persuaderlo di qualche cosa o di rimoverlo di una risoluzione. Ha, insomma, l'aspetto d'uno di quegli uomini tutti d'un pezzo, coi quali pare che non si possa vivere altrimenti che obbedendoli o comandandoli; e che per quanto tempo ci si viva insieme, non si debba mai poterci prendere una famigliarità intera. Il greco invece è mobilissimo, e rivela con mille sfuggevoli guizzi dello sguardo e delle labbra tutto quello che gli passa nell'anima; scuote la testa con movimenti di cavallo indomito; il suo volto esprime un'alterezza giovanile, e qualche volta quasi fanciullesca; se si vede guardato, s'atteggia; se non è guardato, si mette in mostra; par sempre che desideri o che fantastichi qualche cosa; spira da tutta la persona l'accorgimento e l'ambizione; e inspira simpatia, anche se ha la faccia d'un cattivo soggetto, e gli si darebbe la mano anche quando non si vorrebbe affidargli la borsa. Basta veder vicini questi due uomini, per capire che l'uno deve parere all'altro un barbaro, un orgoglioso, un prepotente, un brutale; che questi deve giudicar quello un uomo leggiero, falso, maligno, turbolento; e che debbono disprezzarsi e detestarsi reciprocamente con tutte le forze dell'anima; e non trovar la via di vivere d'accordo. La stessa differenza si osserva tra le donne greche e le altre donne levantine. In mezzo alle turche e alle armene belle e floride, ma che toccan quasi più i sensi di quello che parlino all'anima, si riconoscono alla prima, con un sentimento di grata meraviglia, i visi eleganti e puri delle greche, illuminati da due occhi pieni di pensiero, dei quali ogni sguardo fa venir sulle labbra il verso d'un ode; e i bei corpi maestosi insieme e leggeri, che ispirano il desiderio di stringerli fra le braccia, piuttosto per metterli sopra un piedestallo, che per portarli nell'arem. Se ne vedono di quelle che portano ancora i capelli cadenti, all'antica, in lunghe ciocche ondulate, e una grossa treccia ravvolta intorno alla testa in forma di diadema; così belle, così nobili, così classiche, che si piglierebbero per statue di Prassitele e di Lisippo, o per giovanette immortali ritrovate dopo venti secoli in qualche valle ignorata della Laconia o in qualche isoletta dimenticata dell'Egeo. Sono però rarissime queste bellezze sovrane anche tra le greche, e oramai non se ne trova più esempio che fra la vecchia aristocrazia dell'impero, nel quartiere silenzioso e triste del Fanar, dove s'è rifugiata l'anima dell'antica Bisanzio. Là si vede ancora qualche volta una di quelle donne superbe affacciata a un balcone a balaustri, o all'inferriata d'una finestra altissima, cogli occhi fissi nella strada solitaria, nell'atteggiamento d'una regina prigioniera; e quando il servidorame dei discendenti dei Paleologhi e dei Comneni, non sta oziando dinanzi alle porte, si può, contemplandola di nascosto, credere per un momento di veder per lo squarcio d'una nuvola il viso d'una dea dell'Olimpo.
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[Gli Ebrei]
Riguardo alle ebree, posso affermare, dopo esser stato nel Marocco, che quelle di Costantinopoli non hanno che fare con quelle della costa settentrionale dell'Affrica, nelle quali i dotti osservatori credono di vedere ancora in tutta la sua purezza il primo tipo orientale della bellezza ebraica. Colla speranza di trovare questa bellezza, mi armai di coraggio, e feci molti giri per il vasto ghetto di Balata, che s'allunga, come un serpente immondo, sulla riva del Corno d'oro. Mi spinsi fin nei vicoli più miserabili, in mezzo a casupole "grommate di muffa" come le ripe della bolgia dantesca, per crocicchi dove non ripasserei più che sui trampoli e colle narici turate; guardando per le finestre tappezzate di cenci nauseabondi, nelle stanze nere e viscose; soffermandomi dinanzi alle porte dei cortili umidi da cui usciva un tanfo da mozzare il fiato, facendomi largo in mezzo a gruppi di ragazzi scrofolosi e tignosi, toccando col gomito dei vecchi orrendi, che parevano morti di peste risuscitati; scansando a ogni passo cani coperti di piaghe e laghi di mota nera e panni schifosi appesi a corde bisunte, e mucchi di putridumi da far cadere in deliquio; ma il mio coraggio non fu ricompensato. Fra le molte donne che incontrai imbacuccate nel loro calpak nazionale, che sembra un turbante allungato e copre i capelli e le orecchie, vidi bensì qualche viso in cui riconobbi quella regolarità delicata di lineamenti e quell'aria soave di rassegnazione, che si considera come il tratto distintivo delle ebree di Costantinopoli; vidi qualche vago profilo di Rebecca e di Rachele, dagli occhi a mandorla, pieni di dolcezza e di grazia; e qualche figura elegante, ritta in un atteggiamento raffaellesco sulla soglia d'una porta, con una mano sottile appoggiata sul capo ricciuto d'un bimbo. Ma nella maggior parte non vidi che i segni della degradazione della razza. Che differenza tra quelle figure stentite, e gli occhi di fuoco, i colori pomposi e le forme opulente che ammirai un anno dopo nei mellà di Tangeri e di Fez! Ed è lo stesso degli uomini, spersoniti, giallognoli, molli, di cui tutta la vitalità pare che si sia raccolta negli occhi scintillanti d'astuzia e di cupidigia, che essi girano continuamente intorno a sè stessi, come se da tutte le parti sentissero saltellare delle monete. Ed ora m'aspetto che i miei buoni critici israeliti, che già mi diedero sulle dita a proposito dei loro correligionarii del Marocco, ricantino la stessa canzone, scrivendo a colpa dei turchi oppressori la decadenza e l'avvilimento degli ebrei di Costantinopoli. Ma badino che nelle medesime condizioni politiche e civili degli ebrei si trovarono tutti gli altri sudditi non musulmani della Porta; e che se anche questo non fosse, sarebbe assai difficile il provare che la vergognosa immondizia, la precocità dei matrimonii e l'astensione da tutti i mestieri faticosi, considerate come cause efficacissime di quella decadenza, siano una conseguenza logica della mancanza di libertà e d'indipendenza. E se mi vorranno dire invece, che non l'oppressione politica dei turchi, ma le piccole persecuzioni e il disprezzo di tutti, sono stati la cagione di quell'avvilimento, domandino prima a sè stessi se per caso non fosse vero il contrario; se la prima cagione non sia piuttosto da ricercarsi nei loro costumi e nella loro vita; e se invece di nasconder la piaga, non sarebbe utile che essi medesimi la toccassero col ferro rovente.
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[Il bagno]
Dopo aver fatto un giro per Balata, non è delle peggio, come si dice a Firenze, l'andare a fare un bagno turco. Le case dei bagni si riconoscono di fuori: sono edifizi senza finestre, della forma di piccole moschee, sormontati da una cupola e da alti camini conici, che fumano perpetuamente. Ma prima d'entrare, bisogna pensarci due volte, e domandarsi quid valeant humeri, perchè non tutti possono resistere all'aspro governo che si fa d'un uomo fra quelle mura salutari. Io confesso che dopo quello che ne avevo inteso dire, c'entrai con un po' di trepidazione; e i lettori vedranno che ero da compatire. Ripensandoci, mi sento uscire dalle tempie due goccioline di sudore che aspettano ch'io sia nel vivo della descrizione per filarmi giù per le guancie. Ecco dunque quello che fu fatto della mia povera persona. Entro timidamente e mi trovo in una gran sala che mi lascia un momento incerto, se sia un teatro o un ospedale. Nel mezzo zampilla una fontana, coronata di fiori; e lungo le pareti gira una galleria di legno, dove dormono profondamente o fumano sonnecchiando alcuni turchi sdraiati su materasse e ravvolti dalla testa ai piedi in pannolini bianchissimi. Mentre guardo intorno in cerca del bagnaiuolo, due tarchiati mulatti seminudi, sbucati non so di dove, mi si rizzano dinanzi come due spettri, e mi domandano tutti e due insieme con voce cavernosa: Hammamun? (bagno?) - Evvet (sì) rispondo con un filo di voce. Mi accennano di seguirli e mi rimorchiano su per una scaletta di legno in una stanza piena di stuoie e di cuscini, dove mi fanno capire che mi debbo spogliare. Mi stringono una stoffa azzurra e bianca intorno alle reni, mi raspano la testa con un pezzo di mussolina, mi fanno infilare due zoccoli colossali, mi pigliano sotto le braccia come un ubbriaco e mi conducono, o piuttosto mi traducono in un'altra sala calda e semi-oscura, dove mi distendono sopra un tappeto e stanno ad aspettare colle mani sui fianchi che mi si ammorbidisca la pelle. Tutti questi apparecchi, che somigliano molto a quelli d'un supplizio, mi mettono addosso una inquietudine, la quale si cangia in un sentimento anche meno onorevole, quando i due aguzzini mi toccano la fronte, si scambiano uno sguardo che significa: - può resistere - e par che vogliano dire: - alla ruota - e ripigliandomi per le braccia mi accompagnano in una terza sala. Qui provo una sensazione stranissima. Mi par d'essere in un tempio sottomarino. Vedo vagamente, a traverso un velo bianco di vapori, delle alte pareti marmoree, delle colonne, degli archi, la vôlta d'una cupola finestrata, da cui scendono dei raggi di luce rossa, azzurra e verde, dei fantasmi bianchi che vanno e vengono rasente le pareti, e nel mezzo della sala, uomini seminudi distesi sul pavimento come cadaveri, sui quali altri uomini seminudi stanno chinati nell'atteggiamento di medici che facciano un'autopsia. La temperatura della sala è tale che, appena entrato, mi sento tutto in sudore, e mi pare che non potrò più uscir di là che sotto la forme d'un fiumicello, come l'amante d'Aretusa. I due mulatti trasportano il mio corpo in mezzo alla sala e lo adagiano sopra una specie di tavola anatomica, che è una grande lastra di marmo bianco, rilevata dal pavimento, sotto la quale ardono le stufe. La lastra scotta ed io vedo le stelle; ma oramai ci sono e bisogna striderci. I due mulatti cominciano la vivisezione, canterellando una canzonetta funebre. Mi pizzicano le braccia e le gambe, mi premono i muscoli, mi fanno scricchiolare le art...
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