[Pagina precedente]...ole argentee della città promessa dal Profeta, sotto le quali sonavano, in quell'ora, le preghiere e i singhiozzi del popolo codardo. Io vedevo i visi, gli atteggiamenti, i pugnali, le pieghe delle cappe e dei caffettani, e le grandi ombre che s'allungavano sul terreno incavato dalle ruote dei cannoni e delle torri. Ma a un tratto, lasciando cader gli occhi sopra una grossa pietra mezzo affondata nella terra, e leggendovi una rozza iscrizione, quel gran quadro disparve come una visione fantasmagorica, e vidi sparpagliarsi per la pianura brulla una moltitudine allegra di cacciatori di Vincennes, di zuavi e di fantaccini dai calzoni rossi; sentii cantare le canzonette della Provenza e della Normandia; vidi il maresciallo Saint-Arnaud, Canrobert, Forey, Espinasse, Pelissier; riconobbi mille volti e mille colori vivi nella mia memoria e cari al mio cuore fin dall'infanzia... e rilessi con un sentimento inesprimibile di sorpresa e di piacere quella povera iscrizione. La quale diceva: - Eugène Saccard, caporal dans le 22° léger, 16 Juin 1854.
Di là ripassai per il vallone del Lykus e ritornai sulla strada che fiancheggia le mura, sempre solitaria e sempre serpeggiante fra le rovine e i cimiteri. Passai dinanzi all'antica porta militare di Pempti, ora murata; attraversai un'altra volta il Lykus, che entra nella città in quel punto, e arrivai finalmente dinanzi alla porta chiamata del Cannone, dal gran cannone d'Orbano, che v'era appostato davanti; la porta contro cui rivolse il suo ultimo assalto l'esercito di Maometto. Alzando gli occhi alla sommità delle mura, vidi dietro ai merli parecchie orribili faccie nere, coi capelli scarmigliati, che mi guardavano in aria di stupore. Seppi poi che s'era annidata là una tribù di zingari, ficcando le sue capanne nelle spaccature delle cortine e delle torri. Qui le traccie della lotta sono veramente gigantesche e superbe: le mura sventrate, crivellate, stritolate; le torri dimezzate ed informi, le piattaforme sepolte sotto monti di ruderi, le feritoie squarciate, il terreno sconvolto, il fosso ingombro di rottami colossali, che sembrano massi di roccie franati da una montagna. La battaglia tremenda sembra stata combattuta il giorno innanzi e le rovine raccontano meglio d'una voce umana l'orribile eccidio di cui furono spettatrici. E fu poco meno che il medesimo dinanzi a tutte le porte, per tutta la lunghezza delle mura. La lotta cominciò allo spuntare del giorno. L'esercito ottomano era diviso in quattro enormi colonne, e preceduto da centomila volontarii, che formavano un'immensa avanguardia predestinata alla morte. Tutta questa carne da cannone, questa turba indisciplinata e temeraria di tartari, di caucasei, d'arabi, di negri, guidati dai sceicchi, eccitati dai dervis, cacciati innanzi a nerbate da un esercito di sciaù, si slanciò per la prima all'assalto, carica di terra e di fascine, formando una sola catena e cacciando un urlo solo dal Mar di Marmara al Corno d'oro. Arrivati sulla sponda del fosso, una grandine di ferro e di pietre li arresta e li macella; cadono a cento a cento, schiacciati dai macigni, crivellati dalle freccie, fulminati dalle palle, arsi dalle vampe delle spingarde, vecchi, fanciulli, schiavi, ladri, pastori, briganti; altre turbe, spinte da turbe più lontane, sottentrano; in poco tempo il fosso e le sponde sono coperte di mucchi di cadaveri, di membra palpitanti, di turbanti insanguinati, d'archi, di scimitarre; su cui altri torrenti d'armati passano muggendo e vanno a frangersi e a insanguinarsi ai piedi delle cortine e delle torri, sotto un rovescio più fitto di giavellotti e di sassi, in una nuvola densa che nasconde le mura, i difensori, i morti, la strada; fin che mille trombe ottomane fanno sentire i loro squilli selvaggi sopra il tumulto della battaglia, e la grande avanguardia dimezzata e sanguinosa retrocede confusamente da tutta la linea delle mura. Allora Maometto II sguinzaglia all'assalto il grosso delle sue forze. Tre grandi eserciti, tre fiumane d'uomini, condotti da cento Pascià, sorvolati da mille stendardi, s'avanzano, s'allargano, coprono le alture, allagano le valli, scendono levando un frastuono spaventoso di trombe, di timballi e di spade, e gettando un grido: - La Ilah illa lah! - che rimbomba come uno scoppio di fulmine dal Corno d'oro alle Sette Torri, spiccano la corsa e vanno a precipitarsi contro le mura come un oceano in tempesta contro una riva di roccie tagliate a picco. Allora comincia la grande battaglia, ossia cento battaglie, alle porte, alle breccie, nei fossi, sulle piattaforme, ai piedi delle cortine, da un capo all'altro dell'enorme baluardo secolare di Costantinopoli. Dieci mila feritoie vomitano la morte sopra duecento mila vite. Dall'alto delle cortine e delle torri ruzzolano i macigni, le travi, le botti piene di terra, le fascine accese. Le scale, cariche d'assalitori, rovinano; i ponti levatoi delle torri di assedio precipitano; le catapulte fiammeggiano. Schiere dietro schiere s'avventano e ricadono, sfolgorate, sulle macerie, sui molti sfracellati, sui moribondi, nel sangue, nell'acqua, sulle armi dei compagni, dentro a un fumo fitto, illuminato qua e là dalle vampe improvvise del fuoco greco, fra i sibili rabbiosi della mitraglia, fra gli scoppi delle mine, fra gli urli dei mutilati, fra i rimbombi formidabili delle diciotto batterie di Maometto, che fulminano la città dalle alture. Di tratto in tratto la battaglia si rallenta come per riprender respiro, e allora sulla larga breccia di porta San Romano, a traverso il fumo diradato, si vede per qualche momento ondeggiare il mantello di porpora di Costantino, scintillare le armature di Giustiniani e di Francesco di Toledo, e agitarsi confusamente le terribili figure dei trecento arcieri genovesi. Poi la mischia si riaccende, il fumo rinasconde le breccie, le scale si riappoggiano alle mura, e ricominciano a cader rovine su rovine e cadaveri su cadaveri alla porta d'Adrianopoli, alla porta Dorata, alla porta di Selymbria, alla porta di Tetarté, alla porta di Pempti, alla porta di Russion, alle Blacherne, all'Heptapyrgion; e turbe armate dietro turbe armate, che par che escano dalla terra, seguitano a irrompere contro le mura, valicano il fosso, superano le prime cortine, cadono, risorgono, s'arrampicano su per le macerie, strisciano sui cadaveri, sotto nuvoli di freccie, sotto tempeste di palle, sotto nembi di fuoco. Finalmente gli assalitori, diradati e sfiniti, cedono, retrocedono, si sparpagliano, e un grido altissimo di vittoria e un coro solenne di canti sacri s'innalza dalle mura. Dall'altura di fronte a San Romano, Maometto II, circondato da quattordicimila giannizzeri, vede, e rimane qualche tempo incerto se debba ritentare l'assalto o rinunziare all'impresa. Ma girato uno sguardo sui suoi formidabili soldati che lo guardano in volto fremendo d'impazienza e d'ira, si rizza superbamente sulle staffe e getta un'altra volta il grido della battaglia. Allora è la vendetta di Dio che si scatena. I giannizzeri rispondono con quattordicimila grida in un grido; le colonne si movono; una turba di dervis si spande per il campo a rianimare i dispersi, i sciaù arrestano i fuggenti, i pascià riformano le schiere, il Sultano, brandendo la sua mazza di ferro, s'avanza tra uno sfolgorìo di scimitarre e d'archi, in mezzo a un mare di turbanti e di caschi; sulla porta di San Romano torna a rovesciarsi una grandine di freccie e di palle; Giustiniani, ferito, scompare; gl'italiani, scoraggiti, si scompigliano; il gigantesco giannizzero Hassan d'Olubad sale per il primo sui baluardi; Costantino, combattendo in mezzo agli ultimi suoi valorosi della Morea, è precipitato dai merli, lotta ancora sotto alla porta, stramazza in mezzo ai cadaveri...; l'Impero d'Oriente è caduto. La tradizione dice che un grande albero segnava il luogo dove fu trovato il corpo di Costantino; ma non ne vidi più traccia. Fra quei ruderi, dove corsero rigagnoli di sangue, la terra era tutta bianca di margheritine e di ombrellifere, sulle quali svolazzava un nuvolo di farfalle. Colsi un fiore per ricordo, sotto gli sguardi attoniti degli zingari, e mi rimisi in cammino.
Le mura mi si stendevano sempre dinanzi a perdita d'occhi. Nei luoghi alti nascondevano affatto la città, in modo che chi non l'avesse saputo, non avrebbe pensato mai che dietro quelle rovine solitarie e silenziose, ci potesse essere una vasta metropoli, coronata di grandi monumenti e abitata da un grande popolo. Nei luoghi bassi, invece, apparivano dietro i merli punte inargentate di minareti, sommità di cupole, tetti di chiese greche, vette di cipressi. Qua e là, per uno squarcio delle cortine, vedevo di sfuggita, come per una porta improvvisamente aperta e chiusa, un pezzo di città: gruppi di case che parevano abbandonate, vallette deserte, orti, giardini, e più lontano, sfumati nella chiarezza bianca del mezzogiorno, i contorni fantastici di Stambul. Passai dinanzi alla porta murata di Tetartè, non indicata che da due torri vicinissime. In quel tratto le mura sono meglio conservate. Si vedono dei lunghi pezzi delle cortine di Teodosio II, quasi intatte; delle belle torri del prefetto del Pretorio Antemio e dell'imperatore Ciro Costantino, che portano ancora gloriosamente sul capo invulnerato la loro corona di quindici secoli, e par che sfidino un nuovo assalto. In alcuni punti, sulle piattaforme, ci sono delle capanne di contadini, che danno un risalto inaspettato, colla loro fragile piccolezza, alla salda maestà delle mura, e paion nidi d'uccelli appesi ai fianchi dirupati d'una montagna. E a destra sempre cimiteri, boschi di cipressi in salita e in discesa, vallette grigie di pietre sepolcrali; qui un convento di dervis, mezzo nascosto da una corona di platani; là un caffè solitario; più in là una fontana ombreggiata da un salice; e di là dai boschetti, sentieri bianchi che si perdono nella campagna alta ed arida, sotto un cielo abbagliante, in cui ruotano degli avoltoi.
Dopo un altro quarto d'ora di cammino arrivai dinanzi alla porta chiamata Yeni-Mewle-hane, da un famoso convento di dervis che c'è davanti: una porta bassa, nella quale sono incastrate quattro colonne di marmo, e ai cui lati s'innalzano due torri quadrate, ornate d'un'iscrizione di Ciro Costantino, del 447, e d'un'iscrizione di Giustino II e di Sofia, nella quale l'ortografia dei nomi imperiali è sbagliata: saggio curioso della ignoranza barbarica del V secolo. Guardai dentro la porta, sulle mura, intorno al convento, nei cimiteri: non c'era anima nata. Riposai qualche momento appoggiato alle spallette del piccolo ponte che accavalcia il fosso delle mura, e poi ripresi la mia strada.
Io darei il ricordo d'una delle più belle vedute di Costantinopoli per poter trasfondere in chi legge soltanto un'ombra del sentimento profondo e singolarissimo che provavo andando così solo fra quelle due catene interminabili di rovine e di sepolcri, sotto quel sole, in quella solitudine severa, in mezzo a quella immensa pace. Molte volte, nei giorni tristi della mia vita, fantasticando, desiderai di trovarmi fra una carovana di gente misteriosa e muta, che camminasse eternamente, per paesi sconosciuti, verso una meta ignorata. Ebbene, quella strada rispondeva a quel mio desiderio. Avrei voluto che non finisse mai. Ma non m'inspirava mestizia; mi dava invece serenità e ardimento. Quei colori vigorosi della vegetazione, quelle forme ciclopiche delle mura, quelle grandi linee del terreno simili alle onde d'un oceano agitato, quelle solenni memorie d'imperatori, d'eserciti, di lotte titaniche, di popoli scomparsi, di generazioni defunte, accanto a quella città enorme, in quel silenzio mortale, rotto soltanto dal frullo possente delle ali dell'aquile che spiccavano il volo dalla sommità delle torri, mi destavano nella mente un ribollimento di fantasie gigantesche e di desiderii smisurati, che mi raddoppiava il sentimento della vita. Avrei voluto esser più alto di due palmi e vestire l'armatura colossale del Grand'Elettore di Sassonia che ...
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