[Pagina precedente]...ntoro si radunavano ogni sera molti italiani: avvocati, artisti, medici, negozianti, coi quali passai delle ore carissime. Quella era una conversazione! Se fossi stato stenografo, avrei potuto cavarne ogni sera un libro amenissimo. Il medico che aveva visitato un arem, il pittore ch'era stato sul Bosforo a fare il ritratto a un pascià , l'avvocato che aveva difeso una causa dinanzi a un tribunale, il caposcarico che aveva stretto il nodo d'un amoretto internazionale, raccontavano le loro avventure, ed ogni racconto era un bozzetto graziosissimo di costumi orientali. Ogni momento se ne sentiva una nuova. Arrivava uno: - Sapete quello che è seguito stamani? Il Sultano ha tirato un calamaio sulla testa al ministro delle finanze. - Arrivava un altro: - Avete inteso la notizia? Il governo, dopo tre mesi, ha finalmente pagato gli stipendi agli impiegati, e Galata è inondata da un torrente di monete di rame. - Arrivava un terzo, e raccontava che un turco presidente di tribunale, irritato delle cattive ragioni colle quali un cattivo avvocato francese difendeva una causa sballata, gli aveva fatto questo bel complimento in presenza di tutto l'uditorio: - Caro avvocato, è inutile che tu ti affanni tanto per far parer buona la tua causa; la... - e aveva pronunziato in tutte lettere la parola di Cambronne - per quanto la si volti e la si rivolti, è sempre... - e aveva pronunziato un'altra volta quella parola. La conversazione, naturalmente, spaziava in un campo geografico affatto nuovo per me. Colla stessa frequenza con cui si parla fra noi di persone e di cose di Parigi, di Vienna, di Ginevra, là si parlava di persone e di cose di Tiflis, di Trebisonda, di Teheran, di Damasco, dove uno aveva un amico, un altro c'era stato, un terzo ci voleva andare; io mi sentivo nel centro d'un altro mondo, e tutt'intorno mi si aprivano nuovi orizzonti. E qualche volta pensavo con rammarico al giorno in cui avrei dovuto rientrare nel cerchio angusto della mia vita ordinaria. Come potrò più adattarmi - dicevo tra me - a quei soliti discorsi e a quei soliti casi? E questo è un sentimento che provano tutti gli Europei di Costantinopoli. A chi ha vissuto quella vita, ogni altra pare che debba riuscire scolorita e uniforme. È una vita più leggiera, più facile, più giovanile di quella d'ogni altra città d'Europa. Quel viver là come accampati in un paese straniero, in mezzo a un succedersi continuo d'avvenimenti strani e imprevedibili, finisce coll'infondere un certo sentimento della instabilità e della futilità delle cose mondane, che somiglia molto alla fede fatalistica dei musulmani, e dà una certa serenità spensierata d'avventurieri. L'indole di quel popolo che vive, come disse un poeta, in una specie di famigliarità intima colla morte, considerando la vita come un pellegrinaggio, durante il quale nè c'è tempo nè mette conto di prefiggersi dei grandi scopi da conseguire con lunghe fatiche, si attacca a poco a poco anche all'europeo, e lo riduce a vivere un po' alla giornata, senza frugar troppo dentro sè stesso, e facendo nel mondo, per quanto gli è possibile, la parte semplice e riposata di spettatore. L'aver che fare con popoli tanto diversi, e il dover pensare e parlare un po' a modo di tutti, dà allo spirito una certa leggerezza che lo fa come sorvolare a molti sentimenti ed idee, a cui noi, nei nostri paesi, vorremmo che si conformasse il mondo, e per ottenerlo, e del non poterlo ottenere, ci affanniamo. Oltrechè la presenza del popolo musulmano, oggetto continuo di curiosità e di osservazione, è uno spettacolo di tutti i giorni, che rallegra e svia la mente da molti pensieri e da molte cure. E a questo giova anche la forma della città assai più che non potrebbero fare le città nostre, nelle quali lo sguardo e il pensiero è quasi sempre come imprigionato in una strada o in un circuito angusto; mentre là , ad ogni tratto, occhio e mente trovano una scappatoia per la quale si slanciano a immense lontananze ridenti. E c'è infine una illimitata libertà di vita, concessa dalla grandissima varietà dei costumi: là tutto si può fare, nulla stupisce; la notizia della cosa più strana muore appena uscita in quell'immensa anarchia morale; gli europei vivono là come in una confederazione di repubbliche; vi si gode la libertà che si godrebbe in qualunque città europea nel momento d'un grande trambusto; è come un veglione interminabile o un perpetuo martedì grasso. Per questo, più che per la bellezza, Costantinopoli è una città , che non si può abitare un certo tempo, senza ricordarla poi con un sentimento quasi di nostalgia; per questo gli europei l'amano ardentemente e vi mettono radici profonde; ed è giusto in questo senso il chiamarla come i turchi "la fata dai mille amanti" o dire col loro proverbio che chi ha bevuto dell'acqua di Top-hané, - non c'è più rimedio, - è innamorato per la vita.
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[Gl'Italiani]
La colonia italiana è una delle più numerose di Costantinopoli; ma non delle più prospere. Ha pochi ricchi, molti miserabili, specialmente operai dell'Italia meridionale che non trovan lavoro, ed è la colonia più meschinamente rappresentata dalla stampa periodica, quando pure è rappresentata, perchè i suoi giornali non fanno che nascere e morire. Quando c'ero io, s'aspettava l'apparizione del Levantino, ed era uscito intanto un numero di saggio, che annunziava i titoli accademici e i meriti speciali del direttore: settantasette in tutto, senza contare la modestia. Bisogna passeggiare la mattina della domenica in via di Pera, quando le famiglie italiane vanno alla messa. Si sentono parlare tutti i dialetti d'Italia. Io mi ci godevo; ma non sempre. Qualche volta sentivo quasi pietà al vedere tanti miei concittadini senza patria, molti dei quali dovevano esser stati sbalestrati là chi sa da che avvenimenti dolorosi o strani; al veder quei vecchi, che forse non avrebbero mai più riveduta l'Italia; quei bambini, a cui quel nome non doveva risvegliare che un'immagine confusa d'un paese caro e lontano; quelle ragazze di cui molte dovevano forse sposare uomini d'un'altra nazione, e fondar famiglie in cui non sarebbe rimasto altro d'italiano che il nome e le memorie della madre. Vedevo delle belle genovesine che parevano discese allora dai giardini dell'Acquasola, dei bei visetti napoletani, delle testine capricciose che mi pareva d'aver incontrate cento volte sotto i portici di Po o sotto la Galleria di Milano. Avrei voluto legarle tutte a due a due con un nastrino color di rosa, metterle in un bastimento e ricondurle in Italia filando quindici nodi all'ora. Come curiosità , avrei anche voluto portare in Italia un saggio della lingua italiana che si parla a Pera dagl'italiani nati nella colonia; e specialmente da quelli della terza o della quarta generazione. Un accademico della Crusca che li sentisse, si metterebbe a letto colla terzana. La lingua che formerebbero mescolando il loro italiano un usciere piemontese, un fiaccheraio lombardo e un facchino romagnolo, credo che sarebbe meno sciagurata di quella che si parla in riva al Corno d'oro. È un italiano già bastardo, screziato d'altre quattro o cinque lingue alla loro volta imbastardite. E il curioso è che, in mezzo agl'infiniti barbarismi, si senton dire di tratto in tratto, da coloro che hanno qualche coltura, delle frasi scelte e delle parole illustri, come dei puote, degli imperocchè, degli a ogni piè sospinto, degli havvi, dei puossi; ricordi di letture d'Antologia, colle quali molti di quei nostri buoni compatrioti cercano, nei ritagli di tempo, di rifarsi la bocca al toscano parlar celeste. Ma appetto agli altri, costoro posson pretendere, come diceva il Cesari, alla fama di buoni dicitori. Ce n'è di quelli che non si capiscono quasi più. Un giorno fui accompagnato non so dove da un giovanetto italiano di sedici o diciassette anni, amico d'un mio amico, nato a Pera. Per strada, attaccai discorso. Mi parve che non volesse parlare. Rispondeva a mezza voce, a parole tronche, abbassando la testa, e facendo il viso rosso: si vedeva che pativa.- Via che cos'ha? - gli domandai. - Ho - rispose sospirando - che parlo tanto male! - Continuando a discorrere, in fatti, m'accorsi che balbettava un italiano bizzarro, pieno di parole contraffatte e incomprensibili, molto somigliante a quella così detta lingua franca, la quale, come disse un bell'umore francese, consiste in un certo numero di vocaboli e di modi italiani, spagnuoli, francesi, greci, che si buttano fuori l'un dopo l'altro rapidissimamente, finchè se ne imbrocca uno che sia capito dalla persona che ascolta. Questo lavoro, però, occorre raramente di farlo a Pera e a Galata, dove un po' d'italiano lo capiscono e lo parlano quasi tutti, compresi i turchi. Ma è lingua, se si può chiamar lingua, quasi esclusivamente parlata, se si può dir parlata. La lingua più comunemente usata scrivendo è la francese. Letteratura italiana non ce n'è. Mi ricordo soltanto d'aver trovato un giorno, in un caffè di Galata affollato di negozianti, in fondo a un giornaletto commerciale scritto metà in francese e metà in italiano, sotto le notizie della Borsa, otto versetti malinconici, che parlavano di zeffiri, di stelle e di sospiri. Oh povero poeta! Mi parve di veder lui, in persona, sepolto sotto un mucchio di mercanzie, che esalasse con quei versi il suo ultimo fiato.
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[I teatri]
A Costantinopoli, chi è molto forte di stomaco, può passar la sera al teatro, e può scegliere tra una canaglia di teatruccoli d'ogni specie, molti dei quali sono insieme giardini e birrerie, e in qualcuno si ritrova sempre la commedia italiana, o piuttosto una muta di attori italiani, i quali fanno spesso desiderare di veder convertita la platea in un vasto mercato di frutte verdi. I turchi, però, frequentano di preferenza i teatri in cui certe francesi imbellettate, scollacciate e sfrontate, cantano delle canzonette coll'accompagnamento d'un'orchestra da galera. Uno di questi teatri era allora l'Alhambra, posto nella gran via di Pera: un lungo stanzone, sempre affollato, e tutto rosso di fez dal palco scenico alla porta. Che cosa fossero quelle canzonette e con che razza di gesti quelle intrepide signore s'ingegnassero di farne capire ai turchi i significati riposti, non si può nè immaginare nè credere. Solo chi è stato al teatro los Capellanes di Madrid, può dire d'aver sentito e visto qualchecosa di simile. Agli scherzi più procaci, ai gesti più impudenti, tutti quei turconi, seduti in lunghe file, prorompevano in grasse risa; e cadendo allora dalle loro faccie la maschera della dignità abituale, vi appariva tutto il fondo della loro natura e tutti i segreti della loro vita grossolanamente sensuale. Eppure non v'è nulla che il turco nasconda abitualmente così bene come la sensualità della sua natura e della sua vita. Per le strade, l'uomo non s'accompagna mai alla donna; raramente la guarda; più raramente ne parla; ritiene quasi come un'offesa che gli si domandi notizia delle sue mogli; a giudicar dalle apparenze, si direbbe che quel popolo è il più casto e il più austero della terra. Ma sono mere apparenze. Quello stesso turco che arrossisce fino alle orecchie se gli si domanda come sta la sua sposa, manda i suoi bimbi e le sue bimbe a sentire le turpissime oscenità di Caragheus, che corrompe la loro fantasia prima che si sian svegliati i loro sensi; ed egli stesso dimentica sovente le dolcezze dell'arem per le voluttà nefande di cui diede il primo esempio famoso Baiazet la folgore, e non l'ultimo, probabilmente, Mahmut il riformatore. E quando non ci fosse altro, basterebbe quel Caragheus a dare nello stesso tempo un'immagine e una prova della profonda corruzione che si nasconde sotto il velo dell'austerità musulmana. È una figurina grottesca che rappresenta la caricatura del turco del mezzo ceto, una specie d'ombra chinese, che muove le braccia, le gambe e la testa dietro un velo trasparente, e fa quasi sempre da protagonista in certe commediole strampalatamente buffonesche, di cui il soggetto è per lo più un intrigo amoroso. Egl...
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