[Pagina precedente]..., migliaia di tortorelle amoreggiano fra cipressi dei cimiteri; intorno al castello delle Sette torri crocitano i corvi e rotano gli avvoltoi; gli alcioni vanno e vengono in lunghe file fra il mar Nero e il mar di Marmara; e le cicogne gloterano sulle cupolette dei mausolei solitari. Per il Turco ognuno di questi uccelli ha un senso gentile o una virtù benigna: le tortore proteggono gli amori, le rondini scongiurano gl'incendi dalle case dove appendono il nido, le cicogne fanno ogni inverno un pellegrinaggio alla Mecca, gli alcioni portano in paradiso le anime dei fedeli. Così egli li protegge e li alimenta per gratitudine e per religione, ed essi gli fanno festa intorno alla casa, sul mare e tra i sepolcri. In ogni parte di Stambul si è sorvolati, circuiti, rasentati dai loro stormi sonori, che spandono per la città l'allegrezza della campagna e rinfrescano continuamente nell'anima il sentimento della natura.
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[Le memorie]
In nessun'altra città d'Europa i luoghi e i monumenti leggendarii o storici muovono così vivamente la fantasia come a Stambul, poichè in nessun'altra città essi ricordano avvenimenti così recenti ad un tempo e così fantastici. Altrove, per ritrovar la poesia delle memorie, bisogna tornar indietro col pensiero di parecchi secoli; a Stambul, basta retrocedere di pochi anni. La leggenda, o ciò che ha natura ed efficacia di leggenda, è di ieri. Sono pochi anni che nella piazza dell'At-meidan fu consumata l'ecatombe favolosa dei Giannizzeri; pochi anni che il mar di Marmara rigettò sulla riva dei giardini imperiali i venti sacchi che racchiudevano le belle di Mustafà ; che nel castello delle Sette torri fu scannata la famiglia di Brancovano; che due capigì-basci trattenevano per le braccia gli ambasciatori europei al cospetto del Gran Signore, del quale non appariva che mezzo il viso, rischiarato da una luce misteriosa; e che fra le mura dell'antico serraglio cessò quella vita così stranamente intrecciata d'amori, d'orrori e di follie, che ci pare già tanto lontana. Girando per Stambul con questi pensieri, si prova quasi un sentimento di stupore al veder la città così quieta, così ridente di vegetazione e di colori. Ah perfida! - si direbbe, - che cos'hai fatto di que' monti di teste e di quei laghi di sangue? Possibile che tutto sia già così ben nascosto, spazzato, lavato, che non se ne ritrovi più traccia? Sul Bosforo, in faccia alla torre di Leandro che sorge dalle acque come un monumento d'amore, sotto le mura dei giardini del Serraglio, si vede ancora il piano inclinato per cui si facevano rotolare nel mare le odalische infedeli; in mezzo all'At-meidan la colonna serpentina porta ancora la traccia della sciabolata famosa di Maometto il Conquistatore; sul ponte di Mahmut si segna ancora il luogo dove il sultano focoso freddò con un fendente il dervis temerario che gli scagliò in volto l'anatema; nella cisterna dell'antica chiesa di Balukli, guizzano ancora i pesci miracolosi che vaticinarono la caduta della città dei Paleologhi; sotto gli alberi delle Acque dolci d'Asia si accennano ancora i recessi dove una Sultana dissoluta imponeva ai favoriti d'un istante un amore che finiva colla morte. Ogni porta, ogni torre, ogni moschea, ogni piazza, rammenta un prodigio, una strage, un amore, un mistero, una prodezza di Padiscià o un capriccio di Sultana; tutto ha la sua leggenda, e quasi per tutto gli oggetti vicini, le vedute lontane, l'odore dell'aria e il silenzio, concorrono a portar l'immaginazione dello straniero, che s'immerge in quei ricordi, fuori del suo secolo e della città dell'oggi e di sè stesso; tanto che accade sovente, a Stambul, di riscotersi improvvisamente alla strana idea di dover tornare all'albergo. Come? - si pensa, - c'è un albergo?
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[Le rassomiglianze]
Nei primi giorni, fresco com'ero di letture orientali, vedevo da ogni parte i personaggi famosi delle storie e delle leggende, e le figure che me li rammentavano, somigliavano qualche volta così fedelmente a quelle che m'ero foggiate coll'immaginazione, ch'ero costretto a fermarmi per contemplarle. Quante volte ho afferrato per un braccio il mio amico, e accennandogli una persona che passava, gli dissi: - Ma è lui, cospetto! non lo riconosci? - Nella piazzetta della Sultana-Validè ho visto molte volte il turco gigante che dalle mura di Nicea rovesciava i macigni sulle teste dei soldati del Buglione; ho visto dinanzi a una moschea Umm Dgiemil, la vecchia megera della Mecca, che spargeva i rovi e le ortiche dinanzi alla casa di Maometto; ho trovato nei bazar dei librai, con un volume sotto il braccio, Digiemal-eddin, il gran dotto di Brussa, che sapeva a memoria tutto il dizionario arabo; son passato accanto ad Aiscié, la sposa prediletta del Profeta, che mi fissò in volto i suoi occhi lucenti e umidi come la stella nel pozzo; ho riconosciuto nell'At-meidan la bellezza famosa della povera greca uccisa ai piedi della colonna serpentina da una palla dei cannoni d'Orban; mi son trovato faccia a faccia, allo svolto d'una stradetta del Fanar, con Kara-Abderrahman, il più bel giovane turco dei tempi d'Orkano; ho riconosciuto Coswa, la cammella di Maometto; ho ritrovato Karabulut, il cavallo nero di Selim; ho visto il povero poeta Fighani condannato a girare per Stambul legato a un asino, per aver ferito con un distico insolente il gran vizir d'Ibrahim; ho trovato in un caffè Solimano il grosso, l'ammiraglio mostruoso, che quattro schiavi robusti riuscivano appena a sollevar dal divano; Alì, il gran vizir, che non trovò in tutta l'Arabia un cavallo che lo reggesse; Mahmut Pascià , l'ercole feroce che strozzò il figlio di Solimano; e lo stupido Ahmet II che ripeteva continuamente: Kosc! Kosc! - va bene, va bene - accovacciato dinanzi alla porta del bazar dei copisti, vicino alla piazza di Bajazet. Tutti i personaggi delle Mille e una notte, gli Aladini, le Zobeidi, i Sindbad, le Gulnare, i vecchi mercanti ebrei possessori di tappeti fatati e di lampade meravigliose, mi sfilarono dinanzi, come una processione di fantasmi.
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[Il vestire]
Questo è veramente il periodo di tempo migliore per veder la popolazione musulmana di Costantinopoli, perchè nel secolo scorso era troppo uniforme e sarà probabilmente troppo uniforme nel secolo venturo. Ora si coglie quel popolo nell'atto della sua trasformazione, e perciò presenta una varietà meravigliosa. Il progresso dei riformatori, la resistenza dei vecchi turchi, e le incertezze e le transazioni della grande massa che ondeggia fra quei due estremi, tutte le fasi, insomma, della lotta fra la nuova e la vecchia Turchia, sono fedelmente rappresentate dalla varietà dei vestimenti. Il vecchio turco inflessibile porta ancora il turbante, il caffettano e le scarpe tradizionali di marocchino giallo; e i più ostinati fra i vecchi un turbante più voluminoso. Il turco riformato porta un lungo soprabito nero abbottonato fin sotto il mento e i calzoni scuri colle staffe, non conservando altro di turco che il fez. Fra questi, però, i giovani più arditi hanno già buttato via il lungo soprabito nero, portano panciotti aperti, calzoni chiari, cravattine eleganti, gingilli, mazza e fiori all'occhiello. Fra quelli e questi, fra chi porta caffettano e chi porta soprabito, v'è un abisso; non v'è più altro di comune che il nome; sono due popoli affatto diversi. Il turco del turbante crede ancora fermamente al ponte Sirath, che passa sopra all'inferno, più sottile d'un capello e più affilato d'una scimitarra; fa le sue abluzioni alle ore debite, e si rincasa al calar del sole. Il turco del soprabito si ride del Profeta, si fa fotografare, parla francese e passa la sera al teatro. Fra l'uno e l'altro vi son poi i titubanti, dei quali alcuni hanno ancora il turbante, ma piccolissimo, in modo che potranno inaugurare il fez senza scandalo; altri portano ancora il caffettano, ma hanno già inaugurato il fez; altri vestono ancora all'antica, ma non han più nè cintura nè babbuccie, nè colori vistosi; e a poco a poco butteranno via tutto il resto. Le donne soltanto conservano tutte l'antico velo e il mantello che nasconde le forme; ma il velo è diventato trasparente e lascia intravvedere un cappelletto piumato, e il mantello copre spesso una veste tagliata sul figurino di Parigi. Ogni anno cadono migliaia di caffettani e sorgono migliaia di soprabiti; ogni giorno muore un vecchio turco e nasce un turco riformato. Il giornale succede al tespì, il sigaro al cibuk, il vino all'acqua concia, la carrozza all'arabà , la grammatica francese alla grammatica araba, il pianoforte al timbur, la casa di pietra alla casa di legno. Tutto si altera, tutto si trasforma. Forse tra meno d'un secolo bisognerà andar a cercare i resti della vecchia Turchia in fondo alle più lontane provincie dell'Asia Minore, come si va a cercare quelli della vecchia Spagna nei villaggi più remoti dell'Andalusia.
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[Costantinopoli futura]
Questo pensiero m'assaliva sovente, contemplando Costantinopoli dal ponte della Sultana-Validè. Che cosa sarà questa città fra uno o due secoli, anche se i Turchi non siano cacciati d'Europa? Ahimè! Il grande olocausto della bellezza alla civiltà sarà già consumato. Io la vedo quella Costantinopoli futura, quella Londra dell'Oriente che innalzerà la sua maestà minacciosa e triste sulle rovine della più ridente città della terra. I colli saranno spianati, i boschetti rasi al suolo, le casette multicolori atterrate; l'orizzonte sarà tagliato da ogni parte dalle lunghe linee rigide dei palazzi, delle case operaie e degli opifici, in mezzo a cui si drizzerà una miriade di camini altissimi d'officine, e di tetti piramidali di campanili; lunghe strade diritte e uniformi divideranno Stambul in diecimila parallelepipedi enormi; i fili del telegrafo s'incrocieranno come un'immensa tela di ragno sopra i tetti della città rumorosa; sul ponte della Sultana-Validè non si vedrà più che un torrente nero di cappelli cilindrici e di berrette; la collina misteriosa del Serraglio sarà un giardino zoologico, il Castello delle Sette torri un penitenziario, l'Ebdomon un museo di storia naturale; tutto sarà solido, geometrico, utile, grigio, uggioso, e una immensa nuvola oscura velerà perpetuamente il bel cielo della Tracia, a cui non s'alzeranno più nè preghiere ardenti nè occhi innamorati nè canti di poeti. Quando quest'immagine mi si presentava, sentivo proprio una stretta al cuore; ma poi mi consolavo pensando: - Chi sa che qualche sposa italiana del secolo ventunesimo, venendo qui a fare il suo viaggio di nozze, non esclami qualche volta: - Peccato! Peccato che Costantinopoli non sia più come la descrive quel vecchio libro tarlato dell'ottocento che ritrovai per caso in fondo all'armadio della nonna!
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[I cani]
E allora sarà anche sparita da Costantinopoli una delle sue curiosità più curiose, che sono i cani. Qui proprio voglio lasciar correre un po' la penna perchè l'argomento lo merita. Costantinopoli è un immenso canile: tutti l'osservano appena arrivati. I cani costituiscono una seconda popolazione della città , meno numerosa, ma non meno strana della prima. Tutti sanno quanto i Turchi li amino e li proteggano. Non ho potuto sapere se lo facciano per il sentimento di carità che raccomanda il Corano anche verso le bestie; o perchè li credano, come certi uccelli, apportatori di fortuna, o perchè li amava il Profeta, o perchè ne parlano le loro sacre storie, o perchè, come altri pretende, Maometto il Conquistatore si conduceva dietro un folto stato maggiore canino che entrò trionfante con lui per la breccia di porta San Romano. Il fatto è che li hanno a cuore, che molti Turchi lasciano per testamento delle somme cospicue per la loro alimentazione, e che quando il sultano Abdul-Mejid li fece portar tutti nell'isola di Marmara, il popolo ne mormorò, e quando ritornarono, li ricevette a festa, e il Governo, per non provocar malumori, li lasciò in pace per sempre. Però, siccome il cane, secondo il Corano, è un animale immondo, e ogni turco, ospitandolo, crederebbe di co...
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