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Il mio disegno era d'uscire da Stambul per la porta del quartiere delle Blacherne, di percorrere la linea delle mura dal Corno d'oro fino al castello delle Sette Torri, e di ritornare lungo la riva del Mar di Marmara, girando così intorno a tutto il grande triangolo della città musulmana.
Passato il ponte, svoltai a destra e m'innoltrai nel vasto quartiere chiamato Istambul-disciaré, o Stambul esterna, che è una lunga striscia di città , compresa fra le mura ed il porto, tutta casupole e magazzini d'oli e di legna, stata distrutta più volte dagli incendii. Fra le viuzze e la riva del Corno d'oro, lungo la quale si stende una fila di piccoli scali e di seni pieni di bastimenti e di barconi, c'è un viavai fitto di facchini, di ciucci e di cammelli, un rimescolìo di gente strana e di cose sporche, e un urlìo incomprensibile, che fa pensare a quei porti meravigliosi del mar dell'Indie e del mar della China dove s'incontrano i popoli e le merci dei due emisferi. Le mura che rimangono da questo lato della città , sono alte cinque volte un uomo, merlate, fiancheggiate di cento in cento passi da piccole torri quadrangolari, e in molte parti rovinate; ma sono il tratto meno notevole e per arte e per memorie delle mura di Stambul. Attraversai il quartiere del Fanar, passando sulla riva ingombra di fruttaioli, di pasticcieri, di venditori d'anice e di rosolio, e di cucine esposte all'aria aperta, in mezzo a gruppi di bei marinari greci atteggiati come le statue dei loro Numi antichi; girai intorno al vastissimo ghetto di Balata; percorsi il quartiere silenzioso delle Blacherne, e uscii finalmente di città per la porta chiamata Egri-Kapú, poco lontana dalla riva del Corno d'oro. Tutto questo è presto detto; ma è una camminata di un'ora e mezzo, ora in salita, ora in discesa, intorno a laghi di mota, sopra ciottoli enormi, per vicoli senza fine, sotto volte oscure, a traverso a vasti spazii solitari, senz'altra guida che la punta dei minareti della moschea di Selim. A un certo punto si cominciano a non veder più nè faccie nè abiti di franchi; poi spariscono le casette all'europea; poi il ciottolato, poi le insegne delle botteghe, poi l'indicazione delle strade, poi ogni rumor di lavoro; e più si va innanzi, più i cani guardano torvo, più i monelli turchi fissano con l'occhio ardito, più le donne del volgo si nascondono la faccia con cura, fin che ci si trova in piena barbarie asiatica, e la passeggiata di due ore pare che sia stata un viaggio di due giorni.
Uscendo da Egri-Kapú, voltai a sinistra e vidi improvvisamente un larghissimo tratto delle mura famose che difendono Stambul dalla parte di terra.
Sono passati tre anni da quel momento; ma non posso ricordarmene senza provare un sentimento vivissimo di maraviglia. Non so in quale altro luogo dell'Oriente si trovino così raccolte la grandezza dell'opera umana, la maestà della potenza, la gloria dei secoli, la solennità delle memorie, la mestizia delle rovine, la bellezza della natura. È una vista che ispira insieme ammirazione, venerazione e terrore; uno spettacolo degno d'un canto d'Omero. A primo aspetto, si scoprirebbe il capo e si griderebbe: - Gloria! - come dinanzi a una schiera interminabile di giganteschi eroi mutilati.
La cinta delle mura e delle torri enormi si stende fin dove arriva lo sguardo, salendo e scendendo a seconda delle alture e degli avvallamenti, dove bassissima che par che si sprofondi nella terra, dove alta che par che coroni la sommità d'una montagna; svariata d'infinite forme di rovine, tinta di mille colori severi, dal calcareo fosco quasi nero al giallo caldo quasi dorato, e rivestita d'una vegetazione rigogliosa d'un verde cupo, che s'arrampica su per i muri, ricasca in ghirlande dai merli e dalle feritoie, si rizza in ciuffi alteri sulla cima delle torri, s'ammucchia in piramidi altissime, vien giù quasi a cascatelle dalle cortine, e colma brecce, spaccature e fossati, e si avanza fin sulla via. Sono tre ordini di mura che formano come una gradinata gigantesca di rovine: il muro interno, che è il più alto, fiancheggiato, a brevi distanze eguali, da grossissime torri quadrate; quel di mezzo, rafforzato da piccole torri rotonde; l'esterno senza torri, bassissimo, e difeso da un fosso largo e profondo, anticamente riempito dalle acque del Corno d'oro e del Mar di Marmara, ora coperto d'erba e di cespugli. Tutte queste mura sono ancora, presso a poco, quali erano il giorno dopo la presa di Costantinopoli: perchè sono pochissima cosa i ristauri fatti da Maometto e da Bajazet II. Vi si vedono ancora le breccie che v'apersero i cannoni enormi d'Orbano, le tracce dei colpi degli arieti e delle catapulte, gli squarci delle mine, e tutti gl'indizii dei luoghi dove si diedero gli assalti più furiosi e si opposero le resistenze più disperate. Le torri rotonde delle mura di mezzo sono quasi tutte rovinate fino alle fondamenta; le torri delle mura interne, quasi tutte ritte; ma smerlate, scantonate, ridotte in punta alla sommità come tronchi d'alberi enormi acuminati a colpi d'accetta, e screpolate di cima in fondo o incavate alla base come scogli rosi dal mare. Pezzi smisurati di muratura, rotolati giù dalle cortine, ingombrano la piattaforma del muro di mezzo, quella del muro esterno ed il fosso. Piccoli sentieri serpeggiano fra le macerie e le erbaccie e si perdono nell'ombra cupa della vegetazione alta, fra i macigni e gli scoscendimenti della terra messa a nudo dai muri precipitati. Ogni tratto di bastione compreso fra due torri è un quadro stupendo di rovine e di verde, pieno di maestà e di grandezza. Tutto è colossale, selvatico, irto, minaccioso, e improntato d'una bellezza pomposa e triste, che impone la riverenza. Par di vedere le rovine d'una catena sterminata di castelli feudali, o i resti d'una di quelle muraglie prodigiose che circondavano i grandi imperi leggendarii dell'Asia orientale. La Costantinopoli del secolo decimonono è sparita; si è dinanzi alla città dei Costantini; si respira l'aria del quattrocento; tutti i pensieri corrono al giorno dell'immensa caduta e si rimane per un momento sbalorditi e sgomenti.
La porta per cui ero uscito, chiamata dai turchi Egri-Kapú, era quella famosa porta Caligaria, per la quale fece la sua entrata trionfale Giustiniano, ed entrò poi Alessio Comneno per impadronirsi del trono. Dinanzi v'è un cimitero musulmano. Nei primi giorni dell'assedio era stato messo là quello smisurato cannone d'Orbano, intorno al quale lavoravano quattrocento artiglieri e che cento buoi stentavano a smovere. La porta era difesa da Teodoro di Caristo e da Giovanni Greant, contro l'ala sinistra dell'esercito turco che si stendeva fino al Corno d'oro. Da quel punto fino al Mar di Marmara non c'è più un sobborgo nè un gruppo di case. La strada corre diritta fra le mura e la campagna. Non v'è nulla che distragga dalla contemplazione delle rovine. Mi misi in cammino. Andai per un lungo tratto in mezzo a due cimiteri; uno cristiano a sinistra, sotto le mura; un altro maomettano, a destra, vastissimo e ombreggiato da una selva di cipressi. Il sole scottava; la strada si stendeva dinanzi a me bianca e solitaria, e sollevandosi a poco a poco tagliava con una linea retta, sulla sommità dell'altura, il cielo, limpidissimo. Da una parte le torri succedevano alle torri, dall'altra le tombe succedevano alle tombe. Non sentivo che il rumore cadenzato del mio passo e di tratto in tratto il fruscìo di un lucertolone fra i cespugli vicini. Andai così per un lungo tratto, fin che mi trovai impensatamente davanti a una bella porta quadrata, sormontata da un grande arco a tutto sesto e fiancheggiata da due grosse torri ottagone. Era la porta d'Adrianopoli, la Polyandria dei Greci; quella che sostenne nel 625, sotto Eraclio, l'urto formidabile degli Avari, che fu difesa contro Maometto II dai fratelli Paolo e Antonino Troilo Bochiardi, e che divenne poi la porta delle uscite e dell'entrate trionfali degli eserciti musulmani. Nè dinanzi nè intorno non c'era anima viva. Improvvisamente uscirono di galoppo due cavalieri turchi, mi ravvolsero in un nuvolo di polvere e sparirono per la strada d'Adrianopoli; poi tornò a regnare un silenzio profondo.
Di là , voltando le spalle alle mura, mi avanzai per la strada d'Adrianopoli, discesi nel vallone del Lykus, salii sopra un'altura, e mi trovai dinanzi al vastissimo piano ondulato e arido di Dahud-Pascià , dove tenne il quartier generale Maometto II, durante l'assedio di Costantinopoli. Stetti qualche tempo là immobile, guardando intorno con una mano sugli occhi, come per cercare le traccie dell'accampamento imperiale e rappresentarmi il grande e strano spettacolo che doveva offrire quel luogo sul finire della primavera del 1453. Là proprio rifluiva, come al suo cuore, la vita di tutto l'enorme esercito che stringeva nel suo formidabile amplesso la grande città moribonda. Di là partivano gli ordini fulminei che movevano le braccia di centomila operai, che facevano trascinare per terra duecento galere dalla baia di Besci-tass alla baia di Kassim-Pascià , che spingevano nelle viscere della terra eserciti di minatori armeni, che sguinzagliavano da cento parti i drappelli d'araldi ad annunziar l'ora degli assalti, e facevano, nel tempo che s'impiega a contare le pallottoline d'un tespì, tendere trecentomila archi e sguainare trecentomila scimitarre. Là i messi pallidi di Costantino s'incontravano coi genovesi di Galata venuti a vender l'olio per rinfrescare i cannoni d'Orbano e colle vedette musulmane che spiavano dalla riva del Mar di Marmara se apparissero all'orizzonte le flotte europee a portar gli ultimi soccorsi della cristianità all'ultimo baluardo dei Costantini. Là era un formicolìo di cristiani rinnegati, d'avventurieri asiatici, di vecchi sceicchi, di dervis macilenti, laceri e stremati dalle lunghe marcie, che andavano e venivano affannosamente intorno alle tende di quattordicimila giannizzeri, fra schiere interminabili di cavalli bardati, fra lunghissime file di alti cammelli immobili, in mezzo a catapulte e a baliste infrante, a rottami di cannoni scoppiati, a piramidi di palle enormi di granito; incrociandosi con le processioni dei soldati polverosi che portavano a due a due, dalle mura all'aperta campagna, cadaveri sformati e feriti urlanti, a traverso una nuvola perpetua di fumo. In mezzo all'accampamento dei giannizzeri s'alzavano le tende variopinte della Corte, e al di sopra di queste, il padiglione vermiglio di Maometto II. E ogni mattina, allo spuntar del giorno, egli era là , ritto dinanzi all'apertura del suo padiglione, pallido della veglia affannosa della notte, col suo gran turbante ornato d'un pennacchio giallo e il suo lungo caffettano color di sangue, e fissava il suo sguardo d'aquila sull'immensa città che gli si stendeva dinanzi, tormentando con una mano la folta barba nera e coll'altra il manico d'argento del suo pugnale ricurvo. Accanto a lui c'era Orbano, l'inventore del cannone prodigioso, che doveva pochi giorni dopo, scoppiando, slanciare le sue ossa sulla spianata dell'Ippodromo; l'ammiraglio Balta-Ogli, già turbato dal presentimento della sconfitta, che fece cadere sul suo capo il bastone d'oro del Gran Signore; il comandante temerario dell'Epepolin, il grande castello mobile, coronato di torri e irto di ferro, che cadde poi incenerito davanti alla porta di San Romano; una corona di legisti e di poeti abbronzati dal sole di cento battaglie; un corteo di pascià colle membra coperte di cicatrici e i caffettani lacerati dalle freccie; una folla di giannizzeri giganteschi colle lame nude nel pugno e di sciaù armati di verghe di acciaio, pronti a far cadere le teste e a lacerare le carni ai ribelli e ai vigliacchi; tutto il fiore di quella sterminata moltitudine asiatica, piena di gioventù, di ferocia e di forza, che stava per rovesciarsi, come un torrente di ferro e di fuoco, sugli avanzi decrepiti dell'Impero bizantino; e tutti, immobili come statue, tinti di rosa dai primi raggi dell'aurora, guardavano all'orizzonte le mille cup...
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