[Pagina precedente]...pplisce, e di quella feroce ostinatezza che consegue non di rado i medesimi effetti. Trasvolavano, come furie alate, pei campi di battaglia, mostrando di lontano le lunghe penne d'airone confitte nei turbanti candidi, e gli ampi caffettani tessuti d'oro e di porpora, e i loro urli selvaggi ricacciavano innanzi le schiere macellate dalla mitraglia serba e tedesca, quando non bastavano più i nerbi di bue di mille sciaù furibondi. Lanciavano i loro cavalli a nuoto nei fiumi mulinando al disopra delle acque le scimitarre stillanti di sangue; afferravano per la strozza e stramazzavano di sella, passando, i pascià infingardi o vigliacchi; balzavano giù da cavallo, nelle rotte, e piantavano i loro pugnali scintillanti di rubini nel dorso dei soldati fuggiaschi; e feriti a morte, salivano, comprimendo la ferita, sopra un rialto del campo, per mostrare ai loro giannizzeri il volto smorto ma ancora minacciane e imperioso, finchè cadevano ruggendo di rabbia ma non di dolore. Quale doveva essere il sentimento di quelle loro giovanette circasse o persiane appena uscite dalla puerizia, quando per la prima volta, la sera d'un giorno di battaglia, sotto una tenda purpurea, al lume velato d'una lampada, si vedevano comparire davanti uno di quei sultani spaventosi e superbi, inebbriati dalla vittoria e dal sangue? Ma allora essi diventavano dolci e amorosi, e stringendo quelle mani infantili nelle loro gigantesche mani ancora convulse dalla stretta della spada, cercavano mille immagini dai fiori dei loro giardini, dalle perle dei loro pugnali, dai più belli uccelli dei loro boschi, dai più bei colori delle aurore dell'Anatolia e della Mesopotamia per lodare la bellezza delle loro schiave tremanti, fin che esse prendevano animo, e rispondevano nel loro linguaggio appassionato e fantastico: - Corona del mio capo! Gloria della mia vita! Mio dolce e tremendo Signore! Che il tuo volto sia sempre bianco e splendido nei due mondi dell'Asia e dell'Europa! Che la vittoria ti segua da per tutto dove ti porterà il tuo cavallo! Che la tua ombra si stenda sopra tutta la terra! Io vorrei essere una rosa per olezzare sulla cima del tuo turbante, o una farfalla per battere le ali sulla tua fronte! - E poi, colla voce velata, raccontavano a quei grandi amanti appagati, che s'assopivano sul loro seno, le loro storie fanciullesche di palazzi di smeraldo e di montagne d'oro, mentre intorno alla tenda, per la campagna insanguinata ed oscura, l'esercito feroce dormiva. Ma essi lasciavano ogni mollezza sulla soglia dell'arem, e uscivano da quegli amori più fieri e più ardenti. Erano dolci nell'arem, feroci sul campo, umili nella moschea, superbi sul trono. Di qui parlavano un linguaggio pieno d'iperboli sfolgoranti e di minacce fulminee, ed ogni loro sentenza era una sentenza irrevocabile che bandiva una guerra, o innalzava un uomo all'apice della fortuna, o faceva rotolare una testa ai piedi del trono, o scatenava un uragano di ferro o di foco sopra una provincia ribelle. Così turbinando dalla Persia al Danubio e dall'Arabia alla Macedonia, fra le battaglie, i trionfi, le caccie, gli amori, passavano dal fiore degli anni a una virilità più bollente e più audace della giovinezza, e poi a una vecchiaia della quale non s'accorgeva nè il seno delle loro belle nè il dorso dei loro cavalli nè l'elsa della loro spada. E non solo nella vecchiaia, anche nell'età verde avveniva qualche volta che, oppressi dal sentimento della loro mostruosa potenza, sgomentati tutt'a un tratto, nel furore delle vittorie e dei trionfi, dalla coscienza d'una responsabilità più che umana, e presi da una specie di terrore nella solitudine della propria altezza, si volgevano con tutta l'anima a Dio, e passavano i giorni e le notti nei recessi oscuri dei loro giardini a comporre poesie religiose, o andavano a meditare il Corano sulle rive del mare o a ballare le ridde frenetiche dei dervis o a macerarsi coi digiuni e coi cilicii nella caverna d'un vecchio eremita. E come nella vita, così nella morte si presentarono quasi tutti ai loro popoli in una figura o venerabile o tremenda, sia che morissero colla serenità dei santi come il capo della dinastia, o carichi d'anni di gloria e di tristezza come Orkano, o del pugnale d'un traditore come Murad I, o nella disperazione dell'esilio come Baiazet, o conversando placidamente fra una corona di dotti e di poeti come il primo Maometto, o del dolore d'una sconfitta come il secondo Murad; e si può dir con sicurezza che i loro fantasmi minacciosi sono quanto rimarrà di più grande e di più poetico sugli orizzonti color di sangue della storia ottomana.
LE TURCHE
È una grande sorpresa per chi arriva a Costantinopoli, dopo aver inteso parlar tanto della schiavitù delle donne turche, il veder donne da tutte le parti e a tutte le ore del giorno, come in una qualunque città europea. Pare che appunto in quel giorno a tutte quelle rondini prigioniere sia stato dato il volo per la prima volta e che sia cominciata un'èra nuova di libertà per il bel sesso musulmano. La prima impressione è curiosissima. Lo straniero si domanda, al vedere tutte le donne con quei veli bianchi e quelle lunghe cappe di colori ciarlataneschi, se son maschere o monache o pazze; e siccome non se ne vede una sola accompagnata da un uomo, pare che non debbano essere di nessuno, che siano tutte vedove o ragazze, o che appartengano tutte a un qualche grande ritiro di "malmaritate". Nei primi giorni non ci si può persuadere che tutti quei turchi e tutte quelle turche che s'incontrano e si toccano senza guardarsi e senza accompagnarsi mai, possano avere tra loro qualcosa di comune. E ogni momento s'è costretti a fermarsi per osservare quelle strane figure e per meditare su quello stranissimo uso. Son queste dunque, si dice, son proprio queste quelle "avvincitrici di cuori", quelle "fonti di piacere", quelle "piccole foglie di rosa" e "uve primaticcie" e "rugiade del mattino" e "aurore" e "vivificatrici" e "lune splendenti" di cui mille poeti ci hanno empita la testa? Queste le hanum e le odalische misteriose, che a vent'anni, leggendo le ballate di Victor Hugo all'ombra d'un giardino, abbiamo sognate tante volte, come creature d'un altro mondo, di cui un solo amplesso avrebbe consunto tutte le forze della nostra giovinezza? Queste le belle infelici, nascoste dalle grate, vigilate dagli eunuchi, separate dal mondo, che passano sulla terra, come larve, gettando un grido di voluttà e un grido di dolore? Vediamo che cosa c'è ancora di vero in tutta questa poesia.
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Prima di tutto, il viso della donna turca non è più un mistero, e perciò una gran parte della poesia che la circondava è svanita. Quel velo geloso che, secondo il Corano, doveva essere "un segno della sua virtù e un freno ai discorsi del mondo", non è più che un'apparenza. Tutti sanno come è fatto il jasmac. Sono due grandi veli bianchi, di cui uno, stretto intorno al capo come una benda, copre la fronte fino alle sopracciglia, s'annoda dietro, nei capelli, al di sopra della nuca, e ricade sulla schiena, in due lembi, fino alla cintura; l'altro copre tutta la parte inferiore del viso, e va ad annodarsi col primo, in modo che par tutto un velo solo. Ma questi due veli, che dovrebbero essere di mussolina e stretti in maniera da non lasciar vedere che gli occhi e la sommità delle guancia, sono invece di tulle radissimo, e allentati tanto, che lasciano vedere non solo il viso, ma gli orecchi, il collo, le treccie, e spesso anche i cappellini all'europea, ornati di penne e di fiori, che portano le signore "riformate". E perciò accade appunto il contrario di quello che si vedeva una volta, quando alle donne attempate era lecito di andare col viso un po' più scoperto, e alle giovani era imposto di coprirsi più rigorosamente. Ora son le giovani, e specialmente le belle, quelle che si mostrano meglio, e son le vecchie che per ingannare il mondo portano il velo fitto e serrato. Quindi un'infinità di bei misteri e di belle sorprese, raccontate dai romanzieri e dai poeti, non sono più possibili; ed è una fiaba, fra le altre, quella che lo sposo veda per la prima volta il viso della sua sposa nella notte nuziale. Ma fuorchè il viso, tutto è ancora nascosto; non si può intravvedere nè il seno, nè la vita, nè il braccio, nè il fianco; il feregé nasconde rigorosamente ogni cosa. È una specie di tonaca, guernita d'una pellegrina, di maniche lunghissime, larga, senza garbo, cadente come un mantellaccio dalle spalle ai piedi, di panno l'inverno, di seta l'estate, e tutta d'un colore, quasi sempre vivissimo: ora rosso vivo, ora ranciato, ora verde; e l'uno o l'altro predomina d'anno in anno, rimanendo inalterata la forma. Ma benchè insaccate in quel modo, tanta è l'arte con cui sanno aggiustarsi il jasmac, che le belle paiono bellissime, e le brutte graziose. Non si può dire che cosa fanno con quei due veli, con che grazia se li dispongono a corona e a turbante, con che ampiezza e con che nobiltà di pieghe li ravvolgono e li sovrappongono, con che leggerezza e con che elegante trascuranza li allentano e li lasciano cadere, come li fanno servire nello stesso tempo a mostrare, a nascondere, a promettere, a proporre degli indovinelli e a rivelare inaspettatamente delle piccole meraviglie. Alcune pare che abbiano intorno al capo una nuvola bianca e diafana, che debba svanire ad un soffio; altre sembrano inghirlandate di gigli e di gelsomini; tutte paiono di pelle bianchissima, e prendono da quei veli delle sfumature nivee e un'apparenza di morbidezza e di freschezza che innamora. È un'acconciatura ad un tempo austera e ridente, che ha qualche cosa di sacerdotale e di virgineo; sotto la quale pare che non debbano nascere che pensieri gentili e capricci innocenti.... Ma vi nasce un po' d'ogni cosa.
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È difficile definire la bellezza della donna turca. Posso dire che quando ci penso vedo un viso bianchissimo, due occhi neri, una bocca purpurea e un'espressione di dolcezza. Quasi tutte però son dipinte. S'imbiancano il viso con pasta di mandorle e di gelsomino, s'ingrandiscono le sopracciglia con inchiostro di china, si tingono le palpebre, s'infarinano il collo, si fanno un cerchio nero intorno agli occhi, si mettono dei nei sulle guance. Ma fanno questo con garbo; non come le belle di Fez, che si danno delle pennellate da imbianchini. La maggior parte hanno un bel contorno ovale, un nasino un po' arcato, le labbra grossette, il mento rotondo, colla fossetta; molte hanno le fossette anche nelle guance; un bel collo lunghetto e flessibile; e mani piccine, quasi sempre coperte, peccato, dalle maniche della cappa. Quasi tutte poi sono grassotte e moltissime di statura più che mezzana: rarissime le acciughe e i crostini dei nostri paesi. Se hanno un difetto comune, è quello di camminar curve e un po' scomposte, con una certa cascaggine di bambolone cresciute tutt'a un tratto; il che deriva, si dice, da una mollezza di membra, di cui è cagione l'abuso del bagno, ed anche un po' dalla calzatura disadatta. Si vedono, infatti, delle donnine elegantissime, che debbono avere un piedino di nulla, calzate di babbuccie da uomo o di stivaletti lunghi, larghi e aggrinziti, che una pezzente europea sdegnerebbe. Ma anche in quella brutta andatura hanno un certo garbo fanciullesco che, quando ci si è fatto l'occhio, non dispiace. Non si vede nessuna di quelle figure impettite, di quelle mostre da modista, così frequenti nelle città europee, che vanno a passetti di marionetta, e che par che saltellino sopra uno scacchiere. Non hanno ancora perduto la pesantezza e la trascuranza naturale dell'andatura orientale, e se la perdessero, riuscirebbero forse più maestose, ma meno simpatiche. Si vedono delle figure bellissime e di bellezza infinitamente svariata, poichè c'entra col sangue turco, il sangue circasso, l'arabo, il persiano. Ci sono delle matrone di trent'anni, di forme opulente, che il feregé non basta a nascondere, altissime, con grandi occhi scuri, colle labbra tumide, colle narici dilatate, - pezzi di hanum da far tremar...
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