[Pagina precedente]...d il mondo, il puntello con cui assicura la sua porta, il cencio con cui copre il suo tesoro; e dover vivere tra i profumi, in mezzo alle seduzioni, alla gioventù, alla bellezza, ai tripudi, colla vergogna sulla fronte, colla rabbia nell'anima, disprezzati, scherniti, senza nome, senza famiglia, senza madre, senza un ricordo affettuoso, segregati dall'umanità e dalla natura, ah! dev'essere un tormento che la mente umana non può comprendere, come quello di vivere con un pugnale confitto nel cuore. E questa infamia si sopporta ancora, questi sventurati passeggiano per le vie di una città d'Europa, vivono in mezzo agli uomini, e non urlano, non mordono, non uccidono, non sputano in viso all'umanità codarda che li guarda senza arrossire e senza piangere, e fa delle associazioni internazionali per la protezione dei gatti e dei cani! La loro vita non è che un supplizio continuo. Quando le donne non li trovano arrendevoli ai loro intrighi, li odiano come carcerieri e come spie, e li torturano con una civetteria crudele, sino a farli diventar furiosi o insensati, come il povero eunuco nero delle Lettere persiane quando metteva nel bagno la sua signora. Tutto è sarcasmo per loro: portano dei nomi di profumi e di fiori, per allusione alle donne di cui sono custodi: sono possessori di giacinti, guardiani di gigli, custodi di rose e di viole. E qualche volta amano, gli sciagurati! perchè in loro delle passioni sono spenti gli effetti, non le cause; e son gelosi, e si rodono e piangono lagrime di sangue; e qualche volta, quando uno sguardo procace si fissa in volto alla loro donna, e s'accorgono che è corrisposto, perdon la ragione e percuotono. Al tempo della guerra di Crimea un eunuco diede una frustata in viso ad un ufficiale francese, e questi gli spaccò il cranio con una sciabolata. Chi può dire che cosa soffrano, come li desoli la bellezza, come li strazii un vezzo, come li trafigga un sorriso, e quante volte mentre al loro orecchio arriva il suono d'un bacio, la loro mano afferra il manico del pugnale! Non è meraviglia che nel vuoto immenso del loro cuore non attecchiscano per lo più che le passioni fredde dell'odio, della vendetta e dell'ambizione; che crescano acri, mordaci, pettegoli, pusillanimi, feroci; che siano o bestialmente devoti o astutissimamente traditori, e che quando sono potenti, cerchino di vendicarsi sull'uomo dell'affronto che fu fatto in loro alla natura. Ma per quanto siano intristiti, sentono sempre nel cuore il bisogno prepotente della donna, e poichè non possono averla amante, la cercano amica; si ammogliano; sposano delle donne incinte, come Sunbullù, il grand'eunuco di Ibraim I, per avere un bambino da amare; si fanno un arem di vergini, come il grand'eunuco di Ahmed II, per avere almeno lo spettacolo della bellezza e della grazia, l'amplesso affettuoso, un'illusione d'amore; adottano una figliuola per aver un seno di donna su cui chinare la testa quando son vecchi, per non morire senza sapere che cos'è una carezza, per sentire nei loro ultimi anni una voce amorosa dopo aver sentito per tutta la vita il riso dell'ironia e del disprezzo; e non son rari quelli che, arricchiti alla corte o nelle grandi case, dove esercitano insieme l'ufficio di capi degli eunuchi e d'intendenti, si comprano, vecchi, una bella villetta sul Bosforo, e là cercano di dimenticare, di sopire il sentimento della propria sventura nell'allegrezza delle feste e dei conviti. Fra le molte cose che mi furon dette di questi infelici, una mi è rimasta viva più di tutte nella memoria; ed è un giovane medico di Pera che me l'ha raccontata. Confutando gli argomenti di chi crede che gli eunuchi non soffrano: - Una sera, - mi disse, - uscivo dalla casa d'un ricco musulmano, dov'ero andato a visitare per la terza volta una delle sue quattro mogli malata di cuore. All'uscire come all'entrare m'aveva accompagnato un eunuco gridando le solite parole: - donne, ritiratevi! - per avvertir signore e schiave che un uomo era nell'arem, e che non dovevano lasciarsi vedere. Quando fui nel cortile, l'eunuco mi lasciò, ed io mi diressi solo verso la porta. Nel punto che stavo per aprire, mi sentii toccare il braccio, e voltandomi, mi vidi dinanzi, così tra il chiaro e lo scuro, un altro eunuco, un giovanetto di diciotto o vent'anni, di aspetto simpatico, che mi guardava fisso con gli occhi umidi di lagrime. Gli domandai che cosa voleva. Titubò un momento a rispondere, poi m'afferrò una mano con tutt'e due le mani, e stringendomela convulsivamente mi disse con una voce tremante, in cui si sentiva un dolore disperato: - Dottore! Tu che sai un rimedio per tutti i mali, non ne sapresti uno per il mio? - Io non so dire quello che produssero in me queste semplici parole; volli rispondere, mi mancò la voce, e non sapendo nè che fare nè che dire, apersi bruscamente la porta e fuggii. Ma per tutta quella sera e per molti giorni dopo, mi parve di vedere quel giovane e di sentir quelle parole, e più d'una volta dovetti far forza a me stesso per non piangere di pietà . - O filantropi, pubblicisti, ministri, ambasciatori, e voi, signori deputati al Parlamento di Stambul e senatori della mezzaluna, levate un grido, in nome di Dio, perchè questa sanguinosa ignominia, questa orrenda macchia dell'onore umano, non sia più nel ventesimo secolo che una memoria dolorosa come le carneficine della Bulgaria.
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[L'esercito]
Benchè sapessi, prima d'arrivare a Costantinopoli, che non ci avrei più ritrovato traccia dello splendido esercito dei bei tempi antichi, pure, appena arrivato, cercai con vivissima curiosità i soldati, mia perpetua simpatia. Ma, pur troppo, trovai la realtà peggiore dell'aspettazione. In luogo delle antiche vestimenta ampie, pittoresche e guerriere, trovai le divise nere e attillate, i calzoni rossi, le giacchettine scarse, i galloni da usciere, i cinturini da collegiale, e su tutte le teste, da quella del Sultano a quella del soldato, quel deplorabile fez, che oltre ad esser meschino e puerile, in specie sul cocuzzolo dei musulmani corpulenti, è cagione d'infinite oftalmie ed emicranie. L'esercito turco non ha più la bellezza d'un esercito turco, non ha ancora la bellezza d'un esercito europeo; i soldati mi parvero tristi, svogliati e sudici; saranno valorosi, ma non son simpatici. E quanto alla loro educazione, mi basta questo: che ho visto sergenti e ufficiali soffiarsi il naso colle dita in mezzo alla strada; che ho visto un soldato di guardia al ponte, dove è proibito di fumare, strappar il sigaro di bocca a un viceconsole; e che nella moschea dei dervis giranti di via di Pera, un altro soldato, me presente, per far capire a tre signori europei che bisognava levarsi il cappello, li scappellò tutti e tre con una manata. E ho saputo che, ad alzar la voce in simili casi, il meno che possa capitare è d'essere abbracciati come un sacco di cenci e portati di peso nel corpo di guardia. Per la qual cosa, in tutto il tempo che rimasi a Costantinopoli, ho sempre dimostrato un profondo rispetto ai soldati. E d'altra parte, cessai di meravigliarmi delle loro maniere, dopo aver visto coi miei occhi che cosa è quella gente prima di vestir l'uniforme. Vidi un giorno passare per una strada di Scutari un centinaio di reclute che venivano probabilmente dall'interno dell'Asia Minore. Mi fecero compassione e ribrezzo. Mi parve di vedere quegli spaventosi banditi d'Hassan il pazzo, che attraversarono Costantinopoli sulla fine del sedicesimo secolo, per andar a morire sotto la mitraglia austriaca nella pianura di Pest. Vedo ancora quelle faccie sinistre, quelle lunghe ciocche di capelli, quei corpi seminudi e arabescati, quegli ornamenti selvaggi, e sento il tanfo di serraglio di belve che lasciarono nella via. Quando giunsero le prime notizie delle stragi di Bulgaria, pensai subito a loro. - Debbono essere i miei amici di Scutari, - dissi in cuor mio. Essi però sono l'unica immagine pittoresca che mi sia rimasta de' soldati musulmani. Belli eserciti di Bajazet, di Solimano e di Maometto, chi vi potesse rivedere per un minuto, dall'alto delle mura di Stambul, schierati sulla pianura di Daud-Pascià ! Ogni volta che passavo dinanzi alla porta trionfale d'Adrianopoli, quei belli eserciti mi si affacciavano alla mente come una visione luminosa, e mi soffermavo a contemplare la porta, come se di momento in momento dovesse apparire il pascià quartier mastro, araldo delle schiere imperiali.
Il pascià quartier mastro, in fatti, camminava alla testa dell'esercito, con due code di cavallo, insegna della sua dignità . Dietro a lui, si vedeva di lontano un vivissimo luccichìo. Erano ottomila cucchiai di rame confitti nei turbanti di ottomila giannizzeri, in mezzo ai quali ondeggiavano le penne d'airone e scintillavano le armature dei colonnelli, seguiti da uno sciame di servi carichi di armi e di vivande. Dietro ai giannizzeri veniva un piccolo esercito di volontarii e di paggi, colle vesti di seta, colle maglie di ferro, coi caschi luccicanti, accompagnati da una banda di musici; dietro ai paggi, i cannonieri, coi cannoni uniti da catene di ferro; e poi un altro piccolo esercito di agà , di paggi, di ciambellani, di soldati feudatarii, piantati sopra cavalli corazzati e impennacchiati. E questa non era che l'avanguardia. Sopra le schiere serrate sventolavano stendardi di mille colori, ondeggiavano code di cavallo, s'urtavano lancie, spade, archi, turcassi, archibugi, in mezzo ai quali si vedevano appena le faccie annerite dal sole delle guerre di Candia e di Persia; e i suoni scordati dei tamburi, dei flauti, delle trombe e delle timballe, la voce dei cantanti che accompagnavano i giannizzeri, il tintinnio delle armature, lo strepito delle catene, le grida di: Allà , si confondevano in un frastuono festoso e terribile, che dal campo di Daud-Pascià si spandeva fino all'altra riva del Corno d'oro.
Oh! pittori e poeti che avete studiato amorosamente quel bel mondo orientale, svanito per sempre, aiutatemi a far uscir intero dalle vecchie mura di Stambul l'esercito favoloso di Maometto III.
L'avanguardia è passata: un altro sfolgorìo s'avanza. È il Sultano? No, il Nume non è forse ancora uscito dal tempio. Non è che il corteo del vizir favorito. Sono quaranta agà vestiti di zibellino, su quaranta cavalli dalle gualdrappe di velluto e dalle redini d'argento, a cui tien dietro una folla di paggi e di palafrenieri pomposi, che conducono a mano altri quaranta corsieri, bardati d'oro, carichi di scudi, di mazze e di scimitarre.
Viene innanzi un altro corteo. Non è ancora il Sultano. Sono i membri della Cancelleria di Stato, i grandi dignitari del Serraglio, il gran tesoriere, accompagnati da una banda di suonatori e da uno sciame di volontarii coi berretti purpurei ornati d'ale d'uccelli, vestiti di pelliccie, di taffettà incarnato, di pelli di leopardo, di kolpak ungheresi, e armati di lunghe lancie fasciate di seta e inghirlandate di fiori.
Un'altra onda di cavalli sfolgoranti esce dalla porta d'Adrianopoli. Non è ancora il Sultano. È il corteo del gran vizir. Vien prima una folla d'archibugieri a cavallo, di furieri e d'agà benemeriti del gran Signore, e poi altri quaranta agà del gran vizir in mezzo a una foresta di mille e duecento lancie di bambù impugnate da mille e duecento paggi, e altri quaranta paggi del gran vizir vestiti di color ranciato e armati d'archi e di turcassi ricamati d'oro, e altri duecento giovanetti divisi in sei schiere di sei colori, in mezzo ai quali cavalcano governatori e parenti del primo ministro, seguiti da una turba di palafrenieri, d'armigeri, d'impiegati, di servi, di paggi, d'agà dalle vesti dorate e di vessilliferi dalle bandiere di seta; e ultimo il Kiaya, ministro dell'interno, in mezzo a dodici sciaù, esecutori di giustizia, seguiti dalla banda del gran vizir.
Un'altra folla sbocca fuori dalle mura. Non è ancora il Sultano. È una folla di sciaù, di furieri, d'impiegati, vestiti di assise splendide, che fanno corteo ai giureconsulti, ai mollà , ai muderrì, a cui tien dietro il gran cacciatore per le ca...
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