[Pagina precedente]...suno comparve. - Non viene ! - dissi. -
[Pialì-Pascià ]
Eccolo! - rispose Yunk. Era comparso. Il parapetto del terrazzo lo nascondeva tutto, fuorchè il viso, di cui, per la lontananza, non si distingueva la fisonomia. Stette per qualche secondo immobile; poi si tappò le orecchie colle dita, e alzando il volto al cielo, gridò con una voce lenta, tremula e acutissima, con un accento solenne e lamentevole, le sacre parole, che risuonano, nello stesso punto su tutti i minareti dell'Affrica, dell'Asia e dell'Europa: - Dio è grande! Non v'è che un Dio! Maometto è il profeta di Dio! Venite alla preghiera! Venite alla salute! Dio è grande! Dio è un solo! Venite alla preghiera! - Poi fece un mezzo giro sul terrazzo e ripetè le stesse parole rivolto a settentrione; poi a levante, poi a occidente, e poi disparve. In quel punto ci arrivarono all'orecchio fioche fioche le ultime note d'un'altra voce lontana, che pareva il grido d'uno che chiedesse soccorso, e poi tutto tacque, e rimanemmo anche noi per qualche minuto silenziosi, con un sentimento vago di tristezza come se quelle due voci avessero consigliato la preghiera soltanto a noi, e sparendo quel fantasma, fossimo rimasti soli nella valle come due abbandonati da Dio. Nessun suono di campana mi ha mai toccato il cuore così intimamente; e soltanto quel giorno compresi il perchè Maometto, per chiamare i fedeli alla preghiera, abbia preferito all'antica tromba israelitica e all'antica tabella cristiana, il grido dell'uomo. E su quella scelta fu lungo tempo incerto; onde poco mancò che tutto l'Oriente non pigliasse un aspetto assai diverso da quello che ha ora; poichè s'era scelta la tabella, che poi si cangiò in campana, si sarebbe certo trasformato il minareto, e uno dei tratti più originali e più graziosi della città e del paesaggio orientale sarebbe andato perduto.
[Ok-Meidan]
Risalendo da Pialì-Pascià sulla collina, verso occidente, ci trovammo in un vastissimo spazio di terreno brullo, da cui si vedeva tutto il Corno d'Oro e tutta Stambul, dal borgo d'Eyub alla collina del serraglio; quattro miglia di giardini e di moschee, una grandezza e una leggiadria, da contemplarsi in ginocchio come una apparizione celeste. Era l'Ok-meïdan, la piazza delle freccie, dove andavano i Sultani a tirar dell'arco secondo l'uso dei re Persiani. Vi sono ancora sparse, a distanze ineguali, alcune colonnine di marmo, segnate d'iscrizioni, che indicano i punti dove caddero le freccie imperiali. V'è ancora il chiosco elegante, con una tribuna, da cui i sultani tendevano l'arco. A destra, nei campi, si stendeva una lunga fila di pascià e di bey, punti viventi d'ammirazione, coi quali il padiscià rendeva omaggio alla propria destrezza; a sinistra, dodici paggi della famiglia imperiale, che correvano a raccogliere gli strali e a segnare il punto della caduta; intorno, dietro gli alberi e i cespugli, qualche turco temerario venuto per contemplare di nascosto le sembianze sublimi del Gran Signore; e sulla tribuna campeggiava nell'atteggiamento d'un atleta superbo, Mahmut, il più vigoroso arciere dell'impero, di cui l'occhio scintillante faceva curvar la fronte agli spettatori, e la barba famosa, nera come il corvo del Monte Tauro, spiccava di lontano sul grande mantello candido, spruzzato del sangue dei Giannizzeri. Ora tutto è cangiato e diventato prosaico: il Sultano tira colla rivoltella nei cortili del suo palazzo e sull'Ok-meïdan s'esercita al bersaglio la fanteria. Da una parte v'è un convento di dervis, dall'altra un caffè solitario; e tutta la campagna è desolata e malinconica come una steppa.
[Piri-Pascià ]
Scendendo dall'Ok-meïdan verso il Corno d'Oro, ci trovammo in un altro piccolo sobborgo musulmano, chiamato Piri-Pascià , forse da quel famoso gran vizir del primo Selim, che educò Solimano il Grande. Piri-Pascià prospetta il sobborgo israelitico di Balata, posto sull'altra riva del Corno. Non v'incontrammo che qualche cane e qualche vecchia turca mendicante. Ma questa solitudine ci permise di considerare a nostro bell'agio la struttura del borgo. È una cosa singolare. In quel borgo, come in qualunque altra parte di Costantinopoli uno s'addentri, dopo averla vista o dal mare o dalle alture vicine, si prova la medesima impressione che a guardare un bello spettacolo coreografico dal palco scenico dopo averlo visto dalla platea; ci si meraviglia che quell'insieme di cose brutte e meschine possa produrre una così bella illusione. Non v'è nessuna città al mondo, io credo, nella quale la bellezza sia così pura apparenza come a Costantinopoli. Veduta da Balata, Piri-Pascià è una cittadina gentile, tutta colori ridenti, inghirlandata di verzura, che si specchia nelle acque del Corno d'Oro come una ninfa, e desta mille immagini d'amore e di delizia. Entrateci, tutto svanisce. Non sono che casupole rozze, tinte di coloracci da baracche di fiera; cortiletti angusti e sucidi, che paiono ricettacoli di streghe; gruppi di fichi e di cipressi polverosi, giardini ingombri di calcinacci, vicoli deserti, miseria, immondizie, tristezza. Ma scendete una china, saltate in un caicco, e dopo cinque remate, rivedete la cittadina fantastica, in tutta la pompa della sua bellezza e della sua grazia.
[Hasskioi]
Andando innanzi, sempre lungo la riva del Corno d'Oro, scendiamo in un altro sobborgo, vasto, popoloso, d'aspetto strano, dove, fin dai primi passi, ci accorgiamo di non essere più in mezzo ai musulmani. Da ogni parte si vedono bambini coperti di gore e di scaglie che si ravvoltolano per terra; vecchie sformate e cenciose che lavorano colle mani scheletrite sugli usci delle case ingombre di ciarpame e ferravecchi; uomini ravvolti in lunghi vestiti sudici, con un fazzoletto in brandelli attorcigliato intorno alla testa, che passano lungo i muri in aspetto furtivo; visi macilenti alle finestre; cenci appesi fra casa e casa; strame e belletta in ogni parte. È Hasskioi, il sobborgo israelitico, il ghetto della riva settentrionale del Corno d'Oro, che fa fronte a quello dell'altra riva, al quale lo congiungeva durante la guerra di Crimea un ponte di legno di cui non rimane più traccia. Di qui comincia un'altra lunga catena di arsenali, di scuole militari, di caserme e di piazze d'armi, che si stende fin quasi in fondo al Corno d'oro. Ma di questo non vedemmo nulla perchè ormai non ce lo consentivano nè le gambe, nè la testa. Già tutte le cose vedute ci si confondevano nella mente; ci pareva di essere in viaggio da una settimana; pensavamo a Pera lontanissima con un leggiero sentimento di nostalgia, e saremmo tornati indietro, se non ci avesse trattenuto il proposito fatto solennemente sul vecchio ponte, e se Yunk non m'avesse rianimato, secondo il suo solito, intonando la gran marcia dell'Aida.
[Halidgi-Oghli]
Avanti dunque. Attraversiamo un altro cimitero musulmano, saliamo sopra un'altra collina, entriamo in un altro sobborgo, nel sobborgo di Halidgi-Oghli, abitato da una popolazione mista; una piccola città dove ad ogni svolto di vicolo, si trova una nuova razza e una nuova religione. Si sale, si scende, si rampica, si passa in mezzo alle tombe, alle moschee, alle chiese, alle sinagoghe; si gira intorno a cimiteri e a giardini; s'incontrano delle belle armene di forme matronali e delle turche leggiere che sbirciano a traverso il velo; si sente parlar greco, armeno e spagnuolo, - lo spagnuolo degli ebrei -; e si cammina, si cammina. Si dovrà pure arrivare in fondo a questa Costantinopoli! - diciamo fra noi. - Tutto ha un confine su questa terra! Già le case di Halidgi-Oghli diradano, cominciano a verdeggiare li orti, non c'è più che un gruppo di abituri, vi passiamo in mezzo, siamo finalmente arrivati...
[Sudludgé]
Ahimè! non siamo arrivati che a un altro sobborgo. È il sobborgo cristiano di Sudludgé, che s'innalza sopra una collina, circondato di orti e di cimiteri; sulla collina ai piedi della quale metteva capo il solo ponte che unisse anticamente le due rive del Corno d'oro. Ma questo sobborgo, come Dio vuole, è l'ultimo, e la nostra escursione è finita. Usciamo di fra le case per cercare un luogo di riposo; saliamo su per una altura ripida e nuda che s'alza alle spalle di Sudludgé, e ci troviamo dinanzi al più grande cimitero israelitico di Costantinopoli: un vasto piano coperto d'una miriade di pietre abbattute, le quali presentano l'aspetto sinistro d'una città rovinata dal terremoto, senza un albero, senza un fiore, senza un filo d'erba, senza una traccia di sentiero: una solitudine desolata che stringe il cuore, come lo spettacolo d'una grande sventura. Sediamo sopra una tomba, rivolti verso il Corno d'oro, ed ammiriamo, riposando, il panorama immenso e gentile che ci si stende dintorno. Si vede, sotto, Sudludgé, Halidgi-Oghli, Hasskioj, Piri-Pascià , una fuga di sobborghi chiusi fra l'azzurro del mare e il verde dei cimiteri e dei giardini; a sinistra l'Okmeïdan solitario, e i cento minareti di Kassim-Pascià ; più lontano, Stambul, sterminata e confusa; di là da Stambul, le somme linee delle montagne dell'Asia, quasi svanite nel cielo; dinanzi, proprio in faccia a Sudludgé, dall'altra parte del Corno d'oro, il borgo misterioso d'Eyub, di cui si distinguono uno per uno i ricchi mausolei, le moschee di marmo, le chine ombrose sparse di tombe, i viali solitari, e i recessi pieni di tristezza di grazia; e a destra d'Eyub altri villaggi che si guardan nell'acqua, e poi l'ultima svolta del Corno d'oro, che si perde fra due alte rive rivestite d'alberi e di fiori. Spaziando collo sguardo su quel panorama, stanchi, quasi in uno stato di dormiveglia, senz'accorgercene, mettiamo in musica quella bellezza, canterellando non so che cosa; ci domandiamo chi sarà il morto su cui siamo seduti; frughiamo con un fuscello dentro un formicaio; parliamo di mille sciocchezze; ci diciamo di tratto in tratto: - Ma siamo proprio a Costantinopoli? -; poi pensiamo che la vita è breve e che tutto è vanità ; e poi ci piglian dei fremiti d'allegrezza; ma in fondo sentiamo che nessuna bellezza della terra dà una gioia veramente intera, se contemplandola, non si sente nella propria mano la manina della donna che si ama.
[In caicco]
Verso il tramonto scendiamo al Corno d'oro, entriamo in un caicco a quattro remi, e non abbiamo ancora pronunziato la parola: - Galata! - che la barchetta gentile è già lontana dalla riva. E il caicco è veramente la barchetta più gentile che abbia mai solcato le acque. È più lungo della gondola, ma più stretto e più sottile; è scolpito, dipinto e dorato; non ha nè timone, nè sedili; vi si siede sopra in cuscino o un tappeto, in modo che non riman fuori che la testa e le spalle; è terminato alle due estremità in maniera da poter andare nelle due direzioni; si squilibra al menomo movimento, si spicca dalla riva come una freccia dall'arco, par che voli a fior d'acqua come una rondine, passa da per tutto, scivola e fugge specchiando nell'onde i suoi mille colori come un delfino inseguito. I nostri rematori erano due bei giovani turchi col fez rosso, con una camicia cilestrina, con un paio di grandi calzoni bianchissimi, colle braccia e colle gambe nude; due atleti ventenni, color di bronzo, puliti, allegri e baldanzosi, che ad ogni remata mandavano innanzi la barca di tutta la sua lunghezza; altri caicchi ci passavano accanto di volo, che appena si vedevano; ci passavano vicino degli stormi d'anitre, ci roteavano sul capo degli uccelli, ci rasentavano delle grandi barche coperte, piene di turche velate, e le alghe di tratto in tratto ci nascondevano ogni cosa. Vista d'in fondo al Corno d'Oro, a quell'ora, la città presentava un aspetto nuovissimo. Non si vedeva la riva asiatica, a cagione della curvatura della rada; la collina del Serraglio chiudeva il Corno d'oro come un lunghissimo lago; le colline delle due rive sembravano ingigantite; e, Stambul, lontana lontana, sfumata con una gradazione dolcissima di tinte cineree e azzurrine, enorme e leggera come una città fatata, pareva che galleggiasse sul mare e si perdesse nel cielo. Il caicco volava, le due riv...
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