[Pagina precedente]...la riva europea del Bosforo come quella d'ora copre le rive del Corno d'oro. Ma da queste osservazioni generali distraggono ad ogni passo mille cose nuove: in una via il convento dei dervis, in un'altra la caserma di stile moresco, il caffè turco, il bazar, la fontana, l'acquedotto. In un quarto d'ora bisogna cangiar dieci volte d'andatura: scendere, arrampicarsi, saltellar giù per una china, salire per una scalinata di macigni, affondar nella mota e scansar mille ostacoli, aprendosi la via ora tra la folla, ora tra gli arbusti, ora tra i cenci appesi, ora turandosi il naso, ora aspirando ondate d'aria odorosa. Dalla gran luce d'un sito aperto, donde si vede il Bosforo, l'Asia e un cielo infinito, si cala con pochi passi nell'oscurità triste d'una rete di vicoli fiancheggiati da case cadenti ed irti di sassi come letti di ruscelli; da un verde fresco e ombroso, in un polverio soffocante, saettato dal sole; da crocicchi pieni di rumore e di colori, in recessi sepolcrali, dove non è mai sonata una voce umana; dal divino Oriente dei nostri sogni, in un altro Oriente lugubre, immondo, decrepito che supera ogni più nera immaginazione. Dopo un giro di poche ore non si sa più dove s'abbia la testa. A chi ci domandasse improvvisamente che cos'è Costantinopoli, non si saprebbe rispondere che mettendosi una mano sulla fronte per quetare la tempesta dei pensieri. Costantinopoli è una Babilonia, un mondo, un caos. È bella? Prodigiosa. È brutta? Orrenda. Vi piace? Ubbriaca. Ci stareste? Chi lo sa! Chi può dire che starebbe in un altro astro? Si ritorna a casa pieni d'entusiasmo e di disinganni, rapiti, stomacati, abbarbagliati, storditi, con un disordine nella mente che somiglia al principio d'una congestione cerebrale, e che si queta poi a poco a poco in una prostrazione profonda e in un tedio mortale. Si son vissuti parecchi anni in fretta, e ci si sente invecchiati.
E la popolazione di questa città mostruosa?
IL PONTE
Per vedere la popolazione di Costantinopoli bisogna andare sul ponte galleggiante, lungo circa un quarto di miglio, che si stende dalla punta più avanzata di Galata fino alla riva opposta del Corno d'oro, in faccia alla grande moschea della sultana Validè. L'una e l'altra riva sono terra europea; ma si può dire che il ponte unisce l'Europa all'Asia, perchè in Stambul non v'è d'europeo che la terra, ed hanno colore e carattere asiatico anche i pochi sobborghi cristiani che le fanno corona. Il Corno d'Oro, che ha l'aspetto d'un fiume, separa, come un oceano, due mondi. Le notizie degli avvenimenti d'Europa, che circolano per Galata e per Pera, vive, chiare, minute, commentate, non giungono all'altra riva che monche e confuse come un eco lontano; la fama degli uomini e delle cose più grandi dell'Occidente, s'arresta dinanzi a quella poc'acqua, come dinanzi a un baluardo insuperabile; e su quel ponte dove passano centomila persone al giorno, non passa ogni dieci anni un'idea.
Stando là , si vede sfilare in un'ora tutta Costantinopoli. Sono due correnti umane inesauribili, che s'incontrano e si confondono senza posa dal levar del sole al tramonto, presentando uno spettacolo del quale non sono certamente che una pallida immagine i mercati delle Indie, le fiere di Niinj-Norgorod e le feste di Pekino.
Per veder qualche cosa bisogna fissarsi un piccolo tratto del ponte e non guardare che lì; se si vaga cogli occhi, la vista s'abbarbaglia e la testa si confonde. La folla passa a grandi ondate, ognuna delle quali offre mille colori, ed ogni gruppo di persone rappresenta un gruppo di popoli. S'immagini pure qualunque più stravagante accozzo di tipi, di costumi e di classi sociali; non si giungerà mai ad avere un'idea della favolosa confusione che si vede là nello spazio di venti passi e nel giro di dieci minuti. Dietro una frotta di facchini turchi, che passano correndo, curvi sotto pesi enormi, s'avanza una portantina intarsiata di madreperla e d'avorio, a cui fa capolino una signora armena; e ai due lati un beduino ravvolto in un mantello bianco e un vecchio turco col turbante di mussolina e il caffettano color celeste, accanto al quale cavalca un giovane greco seguito dal suo dracomanno colla zuavina ricamata, e un dervis col gran cappello conico e la tonaca di pelo di cammello, che si scansa per lasciar passare la carrozza d'un ambasciatore europeo, preceduta da un battistrada gallonato. Tutto questo non si vede, s'intravvede. Prima che vi siate voltati indietro, vi trovate in mezzo a una brigata di Persiani col berrettone piramidale d'astrakan, passati i quali vi vedete dinanzi un ebreo insaccato in un lungo vestito giallo aperto sui fianchi; una zingara scapigliata, che porta un bambino in un sacco appeso alla schiena; un prete cattolico, con bastone e breviario; mentre in mezzo a una folla confusa di greci, di turchi e d'armeni, s'avanza gridando: - Largo! - un grosso eunuco a cavallo che precede una carrozza turca, dipinta a fiori e ad uccelli, con dentro le donne d'un arem, vestite di violetto e di verde, e ravvolte in grandi veli bianchi; e dietro, una suora di carità d'uno spedale di Pera, seguita da uno schiavo africano che porta una scimmia, e da un raccontatore di storie in abito di negromante. E, cosa naturale, ma che par strana al nuovo venuto, tutta questa gente così diversa s'incontra e passa oltre senza guardarsi, come la folla di Londra; nessuno si ferma; tutti vanno a passo affrettato, e su cento visi, non se ne vede uno che sorrida. L'albanese colle sottanine bianche e i pistoloni alla cintura, passa accanto al tartaro vestito di pelle di montone; il turco a cavallo a un asino bardato con gran pompa, guizza fra due file di cammelli; dietro all'aiutante di campo dodicenne d'un principino imperiale, piantato sopra un corsiero arabo, barcolla un carro carico delle masserizie bizzarre d'una casa turca; la mussulmana a piedi, la schiava velata, la greca colla berrettina rossa e le treccie giù per le spalle, la maltese incapucciata nella faldetta nera, l'ebrea vestita dell'antichissimo costume della Giudea, la negra ravvolta in uno scialle variopinto del Cairo, l'armena di Trebisonda tutta nera e velata come un'apparizione funebre, si trovano qualche volta in una sola fila, come se vi si fossero messe apposta, per prender risalto l'una dall'altra. È un musaico cangiante di razze e di religioni che si compone e si scompone continuamente con una rapidità che si può appena seguire collo sguardo. È bello tener gli occhi fissi sul tavolato del ponte, non guardando altro che i piedi: passano tutte le calzature della terra, da quella d'Adamo agli stivaletti all'ultima moda di Parigi: babbuccie gialle di turchi, rosse di armeni, turchine di greci, nere d'israeliti; sandali, stivaloni del Turkestan, ghette albanesi, scarpette scollate, gambass di mille colori dei cavallari dell'Asia minore, pantofole ricamate d'oro, alpargatas alla spagnuola, calzature di raso, di corda, di cenci, di legno, fitte in maniera che mentre se ne guarda una, se ne intravvedono cento. A non badarci bene, c'è da essere rovesciati a ogni passo. Ora è un portatore d'acqua con un otre colossale sul dorso, ora una signora russa a cavallo, ora un drappello di soldati imperiali, vestiti alla zuava, che par che vadano all'assalto, ora una squadra di facchini armeni che passano reggendo sulle spalle, a due a due, delle lunghissime sbarre, a cui sono sospese delle balle smisurate di mercanzia; ora delle frotte di turchi che si lanciano a destra e a sinistra del ponte per imbarcarsi sui piroscafi. È uno scalpiccio, un fruscio, un sonare di voci esotiche, di note gutturali, d'aspirazioni, d'interjezioni incomprensibili, in mezzo a cui le poche parole francesi o italiane che arrivano agli orecchi di tratto in tratto, fanno l'effetto di punti luminosi in una tenebra fitta. Le figure che dan più nell'occhio in quella folla, sono i Circassi, che vanno per lo più a tre, a cinque insieme, a passo lento; pezzi d'uomini barbuti, dalla faccia terribile, che portano un grosso berrettone di pelo alla foggia dell'antica guardia napoleonica, un lungo caffettano nero, un pugnale alla cintura e un cartucciere d'argento sul petto; vere figure di briganti, ognuno dei quali pare che sia venuto a Costantinopoli per vendere una figliuola o una sorella, e debba avere le mani intrise di sangue russo. Poi i siriani col loro vestito in forma di dalmatica bizantina e il capo ravvolto in un fazzoletto rigato d'oro; i bulgari, vestiti d'un saio grossolano, con un berretto incoronato di pelliccia; i giorgiani con un caschetto di cuoio verniciato e la tunica stretta alla vita da un cerchio metallico; i greci dell'arcipelago coperti da capo a piedi di ricami, di nappine e di bottoncini luccicanti. La folla di tanto in tanto radeggia un poco; ma subito s'avanzano altre frotte serrate, ondate di papaline rosse e di turbanti bianchi, in mezzo ai quali spuntano cappelli cilindrici, ombrelle e pettinature piramidali di signore europee, che par che galleggino portate via da quel torrente musulmano. C'è da stupire soltanto a notare la varietà della gente di religione. Qui luccica il cucuzzolo d'un padre cappuccino, là torreggia il turbante alla giannizzera d'un ulema, più in là ondeggia il velo nero d'un prete armeno. Passano degli iman colla tunica bianca, delle monache stimmatine, dei cappellani dell'esercito turco, vestiti di verde, colla sciabola al fianco, dei frati domenicani, dei pellegrini reduci dalla Mecca con un talismano appeso al collo, dei gesuiti, dei dervis, - e questo è strano davvero - dei dervis che nelle moschee si straziano le carni in espiazione dei peccati, e passando il ponte si riparano dal sole coll'ombrellino. A starci bene attenti, seguono in quella confusione mille piccoli accidenti amenissimi. È un eunuco che mostra il bianco dell'occhio a un zerbinotto cristiano, il quale ha guardato troppo curiosamente dentro alla carrozza della sua padrona; è una cocotte francese, vestita coll'ultimo figurino, che pedina il figliuolo d'un pascià ingioiellato e inguantato; è una signora di Stambul che finge di aggiustarsi il velo per sbirciar lo strascico d'una signora di Pera; è un sergente di cavalleria in uniforme di gala, che si ferma nel bel mezzo del ponte, si stringe il naso con due dita e slancia nello spazio un guai a chi tocca, da mettere i brividi; è un ciurmadore che, preso un soldo da un povero diavolo, gli fa sul viso un gesto cabalistico, che lo deve guarire del mal d'occhi; è una famiglia di viaggiatori grandi e piccini, arrivata quel giorno stesso, che s'è smarrita in mezzo a una turba di canaglia asiatica, e la madre cerca i bimbi che strillano, e gli uomini si fanno largo a spintoni. I cammelli, i cavalli, le portantine, le carrozze, i buoi, le carrette, le botti rotolate, gli asini sanguinolenti, i cani spelacchiati, formano delle lunghe file, che dividono per mezzo la folla. Qualche volta passa un grosso pascià di tre code, sdraiato in una carrozza splendida, seguito a piedi dal suo portapipa, dalla sua guardia e da un nero, e allora tutti i turchi salutano toccandosi la fronte e il petto, e le mendicanti musulmane, orribili megere, col volto imbaccucato e il seno nudo, si slanciano agli sportelli chiedendo l'elemosina. Gli eunuchi fuor di servizio, passano a due, a tre, a cinque insieme, colla sigaretta in bocca; e si riconoscono alla molle corpulenza, alle lunghe braccia, ai grandi abiti neri. Le belle bambine turche, vestite da maschietti, con calzoncini verdi e panciottini rosati o gialli, corrono e saltellano con un'agilità felina, facendosi largo colle piccole mani tinte di color di porpora. I lustrascarpe colla cassetta dorata, i barbieri ambulanti colla seggiola e la catinella in mano, i venditori d'acqua e di dolci, fendono la calca in tutte le direzioni, urlando in greco ed in turco. A ogni passo si vede luccicare una divisa militare: uffiziali in fez e calzoni scarlatti, col petto costellato di decorazioni; palafrenieri del serraglio, che paiono generali d'armata; gendarmi con un arsenale all...
[Pagina successiva]