[Pagina precedente]...mbri di casse e di balle, e appena rischiarati da un barlume; si scende a tentoni per scalette di legno, si ripassa per altri cortili rischiarati da lanterne, si ridiscende sotto terra, si risale alla luce del giorno, si cammina a capo basso per lunghi anditi serpeggianti, sotto volte umide, in mezzo a muri neri e ad assiti muscosi, che conducono a porticine segrete, dalle quali si ritorna inaspettatamente nel luogo di dove s'è partiti; e da per tutto ombre che vanno e che vengono, spettri immobili negli angoli, gente che rimesta mercanzie o che conta denari; lumicini che appaiono e dispaiono, voci e passi frettolosi che risuonano non si sa dove; e incontri inaspettati di ostacoli neri che non si capisce che cosa siano, e giuochi di luce non mai veduti, e contatti sospetti, e odori strani, che par di girare per i meandri d'una caverna di fattucchieri, e non si vede l'ora d'esserne fuori.
Per solito i sensali fanno passare in questi luoghi gli stranieri per condurli a quelle botteghe, per lo più appartate, nelle quali si vende un po' di tutto: specie di Gran-bazar in miniatura, botteghe da rigattieri signorili, curiosissime a vedersi, ma molto pericolose, perchè contengono tante e così strane e così rare cose da far vuotare la borsa anche all'avarizia incarnata. Questi mercanti d'un po' d'ogni cosa, furbacchioni matricolati, si sottintende, e poliglotti come i loro fratelli di banda, usano nel tentare la gente un certo procedimento drammatico che diverte assai, e che di rado fallisce allo scopo dell'attore. Le loro botteghe son quasi tutte stanzuccie oscure piene di casse e d'armadi, dove bisogna accendere il lume e c'è appena posto da rigirarsi. Dopo avervi fatto vedere qualche vecchio stipetto intarsiato d'avorio e di madreperla, qualche porcellana chinese, qualche vaso del Giappone, il mercante vi dice che ha qualche cosa di speciale per voi, tira fuori un cassetto e vi rovescia sulla tavola un mucchio di ninnoli: un ventaglio di penne di pavone, per esempio, un braccialetto di vecchie monete turche, un cuscinetto di pelo di cammello colla cifra del Sultano ricamata in oro, uno specchietto persiano dipinto d'una scena del libro di paradiso, una spatola di tartaruga con cui i turchi mangiano la composta di ciliegie, un vecchio gran cordone dell'ordine dell'Osmaniè. Non c'è nulla che vi piaccia? Rovescia un altro cassetto e questo è proprio un cassetto che aspettava voi solo. È una zanna rotta d'elefante, un braccialetto di Trebisonda che pare una treccia di capelli d'argento, un idoletto giapponese, un pettine di sandalo della Mecca, un gran cucchiaio turco lavorato a rabeschi e a trafori, un antico narghilè d'argento dorato e istoriato, delle pietruzze dei musaici di Santa Sofia, una penna d'airone che ha ornato il turbante di Selim III, il mercante ve lo assicura da uomo d'onore. Non trovate nulla di vostro genio? E lui rovescia un altro cassetto, da cui casca un ovo di struzzo del Sennahar, un calamaio persiano, un anello damaschinato, un arco di Mingrelia col suo turcasso di pelle d'alce, un caschetto circasso a due punte, un tespì di diaspro, una profumiera d'oro smaltato, un talismano turco, un coltello da cammelliere, una boccettina d'atar-gull. Non c'è nulla che vi tenti, per Dio? Non avete regali da fare? Non pensate ai vostri parenti? Non avete cuore per i vostri amici? Ma forse voi avete la passione delle stoffe e dei tappeti, e anche in questo egli può servirvi da amico. - Ecco un mantello rigato del Kurdistan, milord; ecco una pelle di leone, ecco un tappeto d'Aleppo coi chiodini d'acciaio, ecco un tappeto di Casa-blanca spesso tre dita che dura per quattro generazioni, guarentito; ecco, eccellenza, i vecchi cuscini, le vecchie cinture di broccato e i vecchi copripiedi di seta, un po' sbiaditi e un po' tarlati, ma ricamati come ora non si ricamano più, nemmeno a pagarli un tesoro. A lei, caballero, ch'è venuto qui condotto da un amico, a lei dò questa vecchia cintura per cinque napoleoni, e mi rassegno a mangiar pane e aglio per una settimana. - Se nemmeno da questo vi lasciate tentare, vi dirà nell'orecchio che può vendervi la corda con cui i terribili muti del Serraglio hanno strangolato Nassuh Pascià , il gran vizir di Maometto III; e se voi gli ridete sul viso dicendogli che non la bevete, la lascia cascare da uomo di spirito, e fa l'ultimo tentativo buttandovi davanti una coda da cavallo di quelle che si portavano davanti e dietro ai pascià ; una marmitta di Giannizzero portata via da suo padre, ancora spruzzata di sangue, il giorno stesso della strage famosa; un pezzo di bandiera di Crimea, colla mezzaluna e le stelline d'argento; un vaso da lavarsi le mani, tempestato di agate; un bracierino di rame cesellato; un collare di dromedario colle conchiglie e le campanelle, un frustino da eunuco di cuoio d'ippopotamo, un corano legato in oro, una sciarpa del Korassan, un paio di babbuccie da Cadina, un candelliere fatto con un artiglio d'aquila, tanto che infine la fantasia s'accende, i capricci saltellano, e vi assale una matta voglia di buttar là portamonete, orologio, pastrano, e gridare: - Caricatemi! -; e bisogna proprio esser figliuoli assestati o padri di giudizio per resistere alla tentazione. Quanti artisti sono usciti di là scannati come Giobbe e quanti ricconi ci hanno bucato il patrimonio!
Ma prima che il gran bazar si chiuda bisogna ancora fare un giro per vedere il suo aspetto dell'ultima ora. Il movimento della folla si fa più affrettato, i mercanti chiamano con gesti più imperiosi, greci ed armeni corrono gridando per le strade con uno scialle o un tappeto sul braccio, si formano dei gruppi, si contratta alla spiccia, i gruppi si sciolgono e si rifanno più lontano; i cavalli, le carrozze, le bestie da soma passano in lunghe file diretti verso l'uscita. In quell'ora tutti i bottegai con cui avete litigato senza cadere d'accordo, vi vaneggiano intorno, in quella mezza oscurità , come pipistrelli; li vedete far capolino dietro le colonne, li incontrate alle svolte, vi attraversano la strada e vi passano sui piedi guardando in aria, per rammentarvi colla loro presenza quel tal tessuto, quel certo gingillo, e farvene rinascere il desiderio. Alle volte ne avete un drappello alle spalle: se vi fermate, si fermano, se scantonate, scantonano, se vi voltate indietro incontrate dieci occhioni dilatati e fissi che vi mangian vivo. Ma già la luce manca, la folla si dirada. Sotto le lunghe volte arcate risuona la voce di qualche mezzuin invisibile che annunzia il tramonto da un minareto di legno; qualche turco stende il tappeto dinanzi alla bottega e mormora la preghiera della sera; altri fanno le abluzioni alle fontane. Già i vecchi centenarii del bazar delle armi hanno chiuso le grandi porte di ferro; i piccoli bazar sono deserti, i corridoi si perdono nelle tenebre, le imboccature delle strade paiono aperture di caverne, i cammelli vi giungono addosso all'impensata, la voce dei venditori d'acqua muore sotto le arcate lontane, le turche affrettano il passo, gli eunuchi aguzzano gli occhi, gli stranieri scappano, le imposte si chiudono, la giornata è finita.
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Ed ora io mi sento domandare da ogni parte: - E Santa Sofia? E l'antico Serraglio? E i palazzi del Sultano? E il castello delle Sette torri? E Abdul-Aziz? E il Bosforo? Descriverò tutto e con tutta l'anima; ma prima ho ancora bisogno di spaziare un po' liberamente per Costantinopoli, cambiando d'argomento a ogni pagina, come là cangiavo di pensieri a ogni passo.
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[La luce]
E prima d'ogni cosa, la luce! Uno dei miei piaceri più vivi, a Costantinopoli, era di veder levare e tramontare il sole, stando sul ponte della Sultana Validè. All'alba, in autunno, il Corno d'oro è quasi sempre coperto da una nebbia leggiera, dietro alla quale si vede la città confusamente, come a traverso que' veli bianchi che si calano sul palco scenico per nascondere gli apparecchi d'una scena spettacolosa. Scutari è tutta coperta: non si vedono che i contorni scuri ed incerti delle sue colline. Il ponte e le rive sono deserte, Costantinopoli dorme: la solitudine e il silenzio rendono lo spettacolo più solenne. Il cielo comincia a dorarsi dietro le colline di Scutari. Su quella striscia luminosa si disegnano ad una ad una, precise e nerissime, le punte dei cipressi del vastissimo cimitero, come un esercito di giganti schierati sopra le alture; e da un capo all'altro del Corno d'oro corre un lucicchio leggerissimo che è come il primo fremito della grande città che risente la vita. Poi dietro ai cipressi della riva asiatica, spunta un occhio di foco, e subito le sommità bianche dei quattro minareti di Santa Sofia si colorano di rosa. In pochi momenti, di collina in collina, di moschea in moschea, fino in fondo al Corno d'oro, tutti i minareti, l'un dopo l'altro, arrossiscono, tutte le cupole, una dopo l'altra, s'inargentano, il rossore discende di terrazzo in terrazzo, il lucicchio s'allarga, il gran velo cade, e tutta Stambul appare, rosata e risplendente sulle alture, azzurrina e violacea lungo le rive, tersa e fresca, che pare uscita dalle acque. A misura che il sole s'alza, la delicatezza delle prime tinte svanisce in un immenso chiarore, e tutto rimane come velato dalla bianchezza della luce fin verso sera. Allora lo spettacolo divino ricomincia. L'aria è limpida tanto che da Galata si vedono nettamente uno per uno gli alberi lontanissimi dell'ultima punta di Kadi-Kioi. Tutto l'immenso profilo di Stambul si stacca dal cielo con una nitidezza di linee e un vigore di colori, che si potrebbero contare, punta per punta, tutti i minareti, tutte le guglie, tutti i cipressi che coronano le alture dal capo del Serraglio al cimitero d'Eyub. Il Corno d'oro e il Bosforo pigliano un meraviglioso colore oltramarino: il cielo, color d'amatista a oriente, s'infuoca dietro Stambul, tingendo l'orizzonte d'infiniti lumeggiamenti di rosa e di carbonchio che fanno pensare al primo giorno della creazione; Stambul s'oscura, Galata s'indora, e Scutari, percossa dal sole cadente, tutta scintillante di vetri, pare una città in preda alle fiamme. È questo il più bel momento per contemplare Costantinopoli. È una rapida successione di tinte soavissime, d'oro pallido, di rosa e di lilla, che tremolano e fuggono su per i fianchi dei colli e sulle acque, dando e togliendo ora all'una ora all'altra parte della città il primato della bellezza e rivelando mille piccole grazie pudiche di paesaggio che non osavano mostrarsi alla gran luce. Si vedono dei grandi sobborghi malinconici, perduti nell'ombra delle valli; delle piccole città purpuree, che ridono sulle alture; villaggi e città che languono, come se mancasse loro la vita; altre che muoiono tutt'a un tratto come incendi soffocati; altre che, credute già morte, risuscitano improvvisamente, tutte in foco, e tripudiano ancora per qualche momento sotto l'ultimo raggio del sole. Poi non rimangono più che due cime risplendenti sulla riva dell'Asia: la sommità del monte Bulgurlù e la punta del capo che guarda l'entrata della Propontide; son prima due corone d'oro, poi due berrettine di porpora, poi due rubini; poi tutta Costantinopoli è nell'ombra, e dieci mila voci annunziano il tramonto dall'alto di dieci mila minareti.
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[Gli uccelli]
Costantinopoli ha una gaiezza e una grazia sua propria, che le viene da un'infinità d'uccelli d'ogni specie, per i quali i Turchi nutrono un vivo sentimento di simpatia e di rispetto. Moschee, boschi, vecchie mura, giardini, palazzi, tutto canta, tutto gruga, tutto chiocchiola, tutto pigola; per tutto si sente frullo d'ali, per tutto c'è vita e armonia. I passeri entrano arditamente nelle case e beccano nella mano dei bimbi e delle donne; le rondini fanno il nido sulle porte dei caffè e sotto le vôlte dei bazar; i piccioni, a sciami innumerevoli, mantenuti con là sciti di Sultani e di privati, formano delle ghirlande bianche e nere lungo i cornicioni delle cupole e intorno ai terrazzi dei minareti; i gabbiani volteggiano festosamente intorno ai caicchi...
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