[Pagina precedente]...elle giovanette, al tempo dei primi palpiti, quella d'imparare questo frasario simbolico, e di comporne delle lunghe lettere dirette a dei bei sultani ventenni, veduti in sogno. E fanno lo stesso per il linguaggio dei gesti, alcuni dei quali sono graziosissimi; quello che fa l'uomo, per esempio, fingendo di lacerarsi il petto con un pugnale, che significa: - Sono lacerato dalle furie dell'amore -; a cui la donna risponde lasciando cader le braccia lungo i fianchi, in modo che s'apra un poco dinanzi il feregé, che vuol dire: - Io t'apro le mie braccia. - Ma non c'è forse un Europeo che abbia mai visto far queste cose; le quali, d'altra parte, sono oramai piuttosto tradizioni che usi; e non s'imparano dai Turchi, i quali arrossirebbero di parlarne, ma da qualche ingenua hanum, che le confida a qualche amica cristiana.
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Per questo mezzo pure si conosce il modo di vestire della donna turca fra le pareti dell'arem, quel bel costume capriccioso e pomposo, di cui tutti hanno un'idea, e che dà a ogni donna la dignità d'una principessa e la grazia d'una bambina. Noi non lo vedremo mai, eccetto che la moda lo porti nei nostri paesi, perchè, se anche un giorno cadrà il feregé, le turche saranno allora vestite all'europea anche di sotto. Che rodimento per i pittori e che peccato per tutti! Bisogna raffigurarsi una bella turca "svelta come un cipresso" e colorita "di tutte le sfumature dei petali della rosa" con una berrettina di velluto rosso o di stoffa argentata, un po' inclinata a destra; colle treccie nere giù per le spalle; con una veste di damasco bianco ricamata d'oro, colle maniche a gozzi e un lunghissimo strascico, aperta dinanzi in modo da lasciar vedere due grandi calzoni di seta rosea, che cascano con mille pieghe su due scarpettine ritorte in su alla chinese; con una cintura di raso verde intorno alla vita; con diamanti nelle collane, negli spilloni, nei braccialetti, nei fermagli, nelle treccie, nella nappina del berretto, sulle babbuccie, sul collo della camicia, sulla cintura, intorno alla fronte; lampeggiante da capo a piedi come una madonna delle cattedrali spagnuole, e adagiata, in un atteggiamento infantile, sopra un largo divano, in mezzo a una corona di belle schiave circasse, arabe e persiane, ravvolte, come statue antiche, in grandi vesti cadenti; - o immaginare una sposa "bianca come la cima dell'Olimpo", vestita di raso cilestrino e tutta coperta da un grande velo intessuto d'oro, seduta sopra un'ottomana imperlata, dinanzi alla quale lo sposo, inginocchiato sopra un tappeto di Teheran, fa la sua ultima preghiera prima di scoprire il suo tesoro; - o rappresentarsi una favorita innamorata, che aspetta il suo signore nella stanza più segreta dell'arem, non più vestita che della zuavina e dei calzoncini, che mettono in rilievo tutte le grazie del suo corpo flessibile, e le danno l'aspetto d'un bel paggio snello e elegante; e bisogna convenire che quei brutti turchi "riformati" colla testa pelata e il soprabito nero, hanno assai più di quello che meritano. Questo vestiario di casa, però, va soggetto ai capricci della moda. Le donne, non avendo altro da fare, passano il tempo a cercare nuove acconciature; si coprono di gale e di fronzoli, si mettono penne e nastri nei capelli, bende intorno al capo, pelliccie intorno al collo e alle braccia; prendono qualcosa ad imprestito da tutti i vestimenti orientali; mescolano la moda europea colla moda turca; si mettono delle parrucche, si tingono i capelli di nero, di biondo, di rosso, si sbizzarriscono in mille modi e gareggiano fra di loro come le più sfrenate ambiziose delle grandi città europee. Se un giorno di festa, alle Acque dolci, si potessero far sparire con un colpo di bacchetta magica tutti i feregé e tutti i veli, si vedrebbero probabilmente delle turche vestite da regine asiatiche, altre da crestaine francesi, altre da gran signore in abbigliamento da ballo, altre da mercantesse in pompa magna, da vivandiere, da cavallerizze, da greche, da zingarelle: tante varietà di vestiario quante se ne vedono nel sesso mascolino sul ponte della Sultana Validè.
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Gli appartamenti dove stanno queste belle e ricche maomettane corrispondono in qualche modo al loro vestiario seducente e bizzarro. Le stanze riserbate alle donne sono per lo più in bei siti, da cui si godono vedute meravigliose sulla campagna o sul mare o sopra una gran parte di Costantinopoli. Sotto, c'è un giardinetto chiuso da alti muri, rivestiti d'edera e di gelsomini; sopra, una terrazza; dalla parte della strada, dei camerini sporgenti e vetrati, come i miradores delle case spagnuole. L'interno è delizioso. Sono quasi tutte piccole sale: i palchetti coperti di stuoie chinesi o di tappeti, i soffitti dipinti di frutti e di fiori, larghi divani lungo le pareti, una fontanella di marmo nel mezzo, vasi di fiori alle finestre, e quella luce vaga e soavissima, che è tutta propria della casa orientale, una luce di bosco, che so io? di claustro, di luogo sacro e gentile, che impone di camminare sulla punta dei piedi, di parlar con un filo di voce, di non dire che parole umili e dolci, di non discorrere che d'amore o di Dio. Questa luce languida, i profumi del giardino, il mormorio dell'acqua, le schiave che passano come ombre, il silenzio profondo che regna in tutta la casa, le montagne dell'Asia di cui si vede l'azzurro a traverso i fori delle grate e i rami del caprifoglio che fanno tenda alle finestre, destano nelle europee, che entrano fra quelle mura per la prima volta, un sentimento inesprimibile di dolcezza e di malinconia. La decorazione della maggior parte di questi arem è semplice e quasi severa; ma ve ne sono pure degli splendidissimi, colle pareti coperte di raso bianco rabescato d'oro, coi soffitti di cedro, colle grate dorate, con suppellettili preziose. Dalle suppellettili s'indovina la vita. Non si vedono che poltrone, ottomane grandi e piccine, piccoli tappeti, sgabelli, panchettini, cuscini di tutte le forme e materasse coperte di scialli e di broccati; un mobilio tutto mollezza e delicature, che dice in mille modi: - Siedi, allungati, ama, addormentati, sogna. - Ci si trovano qua e là degli specchietti a mano e dei larghi ventagli di penne di struzzo; dalle pareti pendono dei cibuk cesellati; ci son gabbie d'uccelli alle finestre, profumiere in mezzo alle stanze, orologi a musica sui tavolini, balocchi e gingilli d'ogni maniera, che accusano i mille capricci puerili d'una donnina sfaccendata che si secca. E non c'è soltanto il lusso delle cose apparenti. Ci son case in cui tutto il servizio da tavola è d'argento dorato, d'oro massiccio i vasi delle acque odorose, le serviette di raso frangiate d'oro, e brillanti e pietre preziose nelle posate, nelle tazze da caffè, nelle anfore, nelle pipe, nelle tappezzerie, nei ventagli; come ci son altre case, e in molto maggior numero, si capisce, in cui nulla o quasi nulla è mutato dall'antica tenda o capanna tartara, di cui tutta la masserizia sta sul dorso di un mulo, dove tutto è pronto per un nuovo pellegrinaggio a traverso l'Asia; case verginalmente maomettane ed austere, nelle quali, quando sia giunta l'ora della partenza, non suonerà che la voce pacata del padrone, che dirà: - Olsun! - Così sia! -
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La casa turca è divisa, come tutti sanno, in due parti: l'arem e il selamlik. Il selamlik è la parte riserbata all'uomo. Qui egli ci lavora, ci desina, ci riceve gli amici, ci fa la siesta, e ci dorme la notte quando amore "non gli detta dentro". La donna non ci penetra mai. E come nel selamlik è padrone l'uomo, nell'arem è padrona la donna. Essa ne ha l'amministrazione ed il governo e ci fa quello che vuole fuorchè ricevervi degli uomini. Quando non le garbi di ricevere suo marito, può anche fargli dire cortesemente che torni un'altra volta. Una sola porta e un piccolo corridoio divide per lo più il selamlik dall'arem; eppure sono come due case lontanissime l'una dall'altra. Gli uomini vanno a visitar l'effendi e le donne vanno a trovar la hanum senza incontrarsi e senza sentirsi, e il più delle volte son gente sconosciuti gli uni agli altri. Le persone di servizio sono separate, e separate quasi sempre le cucine. Ciascuno si diverte e scialaqua per conto suo. Raramente il marito desina colla moglie, in ispecie quando ne ha più d'una. Non hanno nulla di comune fuorchè il divano su cui s'avvicinano. L'uomo non entra quasi mai nell'arem come marito, ossia come compagno e come educatore dei figliuoli; non v'entra che come amante. Entrandovi, lascia sulla soglia, se può, tutti i pensieri che potrebbero turbare il piacere ch'egli va a cercarvi; tutta quella parte di sè stesso, che non ha che fare col suo desiderio di quel momento. Egli va là per dimenticare le cure o i dolori della giornata, o piuttosto per assopirne in sè il sentimento; non per domandar lume a una mente serena e conforto a un cuore gentile. Nè la sua donna, sarebbe atta a quell'ufficio. Egli non si cura nemmeno di presentarsele circondato di quella qualsiasi gloria d'ingegno o di sapere o di potenza, che potrebbe renderlo più amabile. A che pro? Egli è il dio del tempio e l'adorazione gli è dovuta; non ha bisogno di farsi valere; la preferenza ch'egli dà alla donna che ricerca basta a far sì ch'essa gli dia con un sentimento di gratitudine che sembra amore l'amplesso desiderato da lui. "Donna" per lui significa "piacere". Quel nome porta il suo pensiero diritto a quel senso; è anzi quasi il nome stesso del senso; e per questo gli pare impudico il pronunziarlo, e non lo pronuncia mai; e se ha da dire: - M'è nata una femmina - dice: - M'è nata una velata, una nascosta, una straniera. - Così non ci può essere un'intimità vera fra loro, perchè v'è sempre tra l'uno e l'altro come il velo del senso, il quale nasconde quegli infiniti segretissimi recessi dell'anima, che non si vedono se non a traverso la limpidezza d'una famigliarità lunga e tranquilla. Oltrechè la donna, sempre preparata alla visita, abbigliata e atteggiata quasi per quel momento, intesa sempre a vincere una rivale o a conservare una predominanza che è continuamente in pericolo, dev'essere sempre un po' cortigiana, far forza a sè stessa perchè tutto sorrida intorno al suo signore, anche quando il suo cuore è triste, mostrargli sempre la maschera ridente d'una donna fortunata e felice, perchè egli non se ne uggisca e se ne sdia. Perciò il marito la conosce di rado come sposa, come non ha e non può averla conosciuta figliuola, sorella, amica; come non la conosce madre. Ed essa lascia così isterilire a poco a poco in sè medesima le qualità nobili che non può rivelare o che non le sono pregiate; s'abitua a non curare se non quello che le si cerca, e soffoca spesso risolutamente la voce del suo cuore e del suo spirito, per trovare in una certa sonnolenza di vita animalesca, se non la felicità, la pace. Ha, è vero, il conforto dei figliuoli, e il marito li cerca e li abbraccia dinanzi a lei; ma è un conforto amareggiato dal pensiero che forse, un'ora prima, egli ha baciato i figliuoli d'un'altra, che bacierà forse un'ora dopo quelli d'una terza, e che bacierà quelli d'una quarta tra qualche anno. L'amore d'amante, l'affetto di padre, l'amicizia, la confidenza, tutto è diviso e suddiviso, ed ha il suo orario, i suoi riguardi, le sue misure, le sue cerimonie; quindi tutto è freddo e insufficiente. E poi v'è sempre in fondo qualcosa di sprezzante e di mortalmente ingiurioso per la donna nell'amore del marito che le tiene ai fianchi un eunuco. Egli le dice in sostanza: - Io t'amo, tu sei "la mia gioia e la mia gloria", tu sei "la perla della mia casa"; ma sono sicuro che se questo mostro che ti sorveglia fosse un uomo, tu ti prostituiresti al tuo servitore.
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Variano però grandemente le condizioni della vita coniugale secondo i mezzi pecuniarii del marito, anche non tenuto conto di questo, che chi non ha mezzi di mantenere più d'una donna è costretto ad avere una moglie sola. Il ricco signore vive separato di casa e di spirito dalla moglie, perchè può tenere un appartamento od ...
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