[Pagina precedente]...un ha! - (Largo!); il saccà armeno, portatore d'acqua: - Varme su! - l'acquaiolo greco: - Crio nero! - l'asinaio turco: - Burada! - il venditore di dolci: - Scerbet! - il venditore di giornali: - Neologos! - il carrozziere franco: Guarda! Guarda! Dopo dieci minuti di cammino, eravamo assordati. A un certo punto, con nostra meraviglia, ci accorgemmo che la strada non era più lastricata, e pareva che il lastrico fosse stato levato di fresco. Ci fermammo a guardare, cercando d'indovinar la cagione. Un bottegaio italiano ci levò la curiosità . Quella strada conduce ai palazzi del Sultano.
[Torre di Galata]
Pochi mesi prima passando di là il corteo imperiale, il cavallo di sua maestà Abdul-Aziz era scivolato e caduto, e il buon Sultano, irritato, aveva ordinato che fosse tolto immediatamente il lastrico dal luogo della caduta fino al suo palazzo. In questo punto memorabile fissammo il termine orientale del nostro pellegrinaggio, e voltate le spalle al Bosforo, ci dirigemmo, per una serie di vicoli tetri e sudici, verso la torre di Galata. La città di Galata ha la forma d'un ventaglio spiegato, e la torre, posta sul culmine della collina, rappresenta il suo perno. È una torre rotonda, altissima, di color fosco, che termina in una punta conica, formata da un tetto di rame, sotto il quale ricorre un giro di larghe finestre vetrate, una specie di terrazza coperta e trasparente, dove giorno e notte vigila una guardia per segnalare il primo indizio d'incendio che apparisca nell'immensa città . Fino a questa torre giungeva la Galata dei Genovesi, e la torre s'innalza appunto sulla linea delle mura che separavano Galata da Pera; mura di cui non rimane più traccia. E neanche la torre non è più l'antica torre di Cristo, eretta in onore dei Genovesi caduti combattendo; poichè la rifabbricò il sultano Mahmut II, ed era già stata prima restaurata da Selim III; ma è pur sempre un monumento incoronato della gloria di Genova, e un Italiano non può contemplarlo, senza pensare con un sentimento d'alterezza a quel pugno di mercanti, di marinai e di soldati, orgogliosamente audaci ed eroicamente cocciuti, che vi tennero su inalberata per secoli la bandiera della madre repubblica, trattando da pari a pari cogl'Imperatori d'Oriente. Appena oltrepassata la torre, ci trovammo in un cimitero musulmano.
[Cimitero di Galata]
Era quello che si chiama il cimitero di Galata: un grande bosco di cipressi, che dalla sommità della collina di Pera scende ripidamente fino al Corno d'Oro, ombreggiando una miriade di colonnette di pietra o di marmo, inclinate in tutte le direzioni, e sparse in disordine giù per la china. Alcune di queste colonnette son terminate in forma di turbante rotondo, e serbano traccie di colori e d'iscrizioni; altre son terminate in punta; molte rovesciate; alcune monche, col turbante portato via di netto, e si crede che sian quelle dei giannizzeri, che il Sultano Mahmut volle sfregiare anche dopo la morte. La maggior parte delle fosse sono indicate da un rialzamento di terra in forma di prisma, e da due sassi confitti alle due estremità , sui quali, giusta la superstizione musulmana, devono sedere i due angeli Nekir e Munkir per giudicare l'anima del defunto. Qua e là si vedono dei piccoli terrapieni circondati da un muricciolo o da una ringhiera, in mezzo ai quali s'alza una colonnetta sormontata da un grosso turbante, e intorno altre colonnette minori: è un pascià o un gran signore, sepolto in mezzo alle sue donne e ai suoi figliuoli. Dei piccoli sentieri serpeggiano e s'incrociano in mille punti da un'estremità all'altra del bosco; qualche turco fuma la pipa seduto all'ombra; alcuni ragazzi corrono e saltellano in mezzo ai sepolcri; qualche vacca pascola; centinaia di tortore grugano fra i rami dei cipressi; passano gruppi di donne velate; e fra cipresso e cipresso, luccica giù in fondo l'azzurro del Corno d'Oro rigato di bianco dai minareti di Stambul.
[Pera]
Usciamo dal cimitero, ripassiamo ai piedi della torre di Galata e infiliamo la strada principale di Pera. Pera è alta cento metri sopra il mare, è ariosa ed allegra, e guarda il Corno d'Oro ed il Bosforo. È la Westend della colonia europea; la città dell'eleganza e dei piaceri. La strada che percorriamo è fiancheggiata da alberghi inglesi e francesi, da caffè signorili, da botteghe luccicanti, da teatri, da Consolati, da club, da palazzi d'ambasciatori; tra i quali giganteggia il palazzo di pietra dell'ambasciata russa, che domina come una fortezza Pera Galata e il sobborgo di Funduclù, posto sulla riva del Bosforo. Qui brulica una folla affatto diversa da quella di Galata. Sono quasi tutti cappelli a staio e cappelletti piumati o infiorati di signore. Sono zerbinotti greci, italiani e francesi, negozianti d'alto bordo, impiegati delle legazioni, ufficiali di navi straniere, carrozze d'ambasciatori, e figurine equivoche d'ogni nazione. I turchi si fermano ad ammirare le teste di cera delle botteghe dei barbieri, le turche si piantano colla bocca aperta davanti alle vetrine delle modiste; l'europeo parla ad alta voce, sghignazza e scherza in mezzo alla strada; il musulmano, si sente in casa d'altri, e passa colla testa meno alta che a Stambul. Tutt'a un tratto il mio amico mi fece voltare indietro perchè guardassi Stambul: da quel punto, infatti, si vedeva lontano, dietro un velo azzurrino, la collina del Serraglio, Santa Sofia e i minareti del Sultano Ahmed; un altro mondo da quello in cui eravamo; e poi mi disse: - Guarda qui, adesso. - Abbassai gli occhi e lessi in una vetrina: - La dame aux camelias, Madame Bovary, Mademoiselle Giraud ma femme. E anche a me quel rapido passaggio fece un senso vivissimo, e dovetti star là un momento a pensarci sopra. Un'altra volta fermai io il mio compagno e fu per mostrargli un caffè meraviglioso: un lungo e largo corridoio oscuro, in fondo al quale, per una grande finestra spalancata, si vedeva a una lontananza che pareva immensa, Scutari illuminata dal sole.
Andiamo innanzi per la gran strada di Pera, e siamo quasi arrivati in fondo, quando sentiamo gridare da una voce tonante: - T'amo, Adele! t'amo più della vita! T'amo quanto si può amare sulla terra! - Ci guardiamo in faccia trasecolati. Di dove viene quella voce? Voltandoci, vediamo per le fessure d'un assito un giardino pieno di sedili, un palco scenico e dei commedianti che fanno le prove. Una signora turca, poco lontano da noi, guarda anch'essa per le fessure, e ride dai precordi. Un vecchio turco che passa scrolla la testa in segno di compassione. All'improvviso la turca getta un grido e fugge; altre donne là intorno mettono uno strillo e voltan le spalle. Che è accaduto? È un turco, un uomo sulla cinquantina, conosciuto da tutta Costantinopoli, il quale passeggia per le vie nello stato in cui voleva ridurre tutti i musulmani il famoso monaco Turk sotto il regno di Maometto IV: ignudo dalla testa ai piedi. Il disgraziato saltella sui ciottoli urlando e sghignazzando, e un branco di monelli lo insegue facendo un baccano d'inferno. - È da sperarsi che lo arresteranno, - dico al portinaio del teatro. - Nemmen per sogno, - mi risponde; - son mesi che gira per la città liberamente. - Intanto vedo giù per la via di Pera gente che vien fuori dalle botteghe, donne che scappano, ragazze che si coprono il viso, porte che si chiudono, teste che si ritirano dalle finestre. E questo segue tutti i giorni e nessuno se ne dà pensiero!
Uscendo dalla via di Pera, ci troviamo dinanzi a un altro cimitero musulmano, ombreggiato da un boschetto di cipressi e chiuso tutt'intorno da un alto muro. Se non ce l'avessero detto poi, non avremmo mai indovinato il perchè di quel muro, che fu innalzato di fresco: ed è che il bosco sacro al riposo dei morti era diventato un nido d'amori soldateschi! Andando oltre, infatti, trovammo l'immensa caserma d'artiglieria innalzata da Scialil-Pascià : un solido edificio di forma rettangolare, dello stile moresco del rinascimento turco, con una porta fiancheggiata da colonne leggere e sormontata dalla mezzaluna e dalla stella d'oro di Mahmut, con gallerie sporgenti e finestrine ornate di stemmi e di arabeschi. Dinanzi alla caserma passa la strada di Dgiedessy che è un prolungamento di quella di Pera, di là dalla strada si stende una vasta piazza d'armi, e di là dalla piazza d'armi altri borghi. Qui, dove nei giorni feriali regna ordinariamente un profondo silenzio, la sera della domenica passa un torrente di gente e una processione di carrozze, tutta la società elegante di Pera, che va a spandersi nei giardini nelle birrerie e nei caffè di là dalla Caserma. In uno di questi caffè si fece la nostra prima sosta; nel caffè della Bella vista, luogo di ritrovo del fiore della società perota, e degno veramente del suo nome; perchè dal suo vasto giardino, che sporge come una terrazza sulla sommità dell'altura, si vede sotto il grande sobborgo musulmano di Funduclù, il Bosforo coperto di bastimenti, la riva asiatica sparsa di giardini e di villaggi, Scutari colle sue bianche moschee, una bellezza di verde, d'azzurro, e di luce, che sembra un sogno. Ci levammo di là con rammarico, e ci parve a tutt'e due d'esser pitocchi a buttar sul vassoio otto miserabili soldi per due tazze di caffè, dopo aver goduto quella visione di paradiso terrestre.
[Gran Campo dei Morti]
Uscendo dalla Bella vista ci trovammo in mezzo al Gran Campo dei morti dove è sepolta in cimiteri distinti gente di tutti i culti, eccettuato l'ebraico. È un bosco fitto di cipressi, d'acacie e di sicomori, nel quale biancheggiano migliaia di pietre sepolcrali, che da lontano paiono le rovine d'un immenso edifizio. Tra albero e albero si vede il Bosforo e la riva asiatica. Fra le tombe serpeggiano dei larghi viali in cui passeggiano dei greci e degli armeni. Su alcune pietre stanno seduti dei turchi colle gambe incrociate, guardando il Bosforo. V'è un'ombra, un fresco e una pace che, al primo entrarvi, si prova una sensazione deliziosa, come entrando d'estate in una grande cattedrale semioscura. Ci arrestammo nel cimitero armeno. Le pietre sepolcrali son tutte grandi e piane, coperte d'iscrizioni nel carattere regolare ed elegante della lingua armena, e su quasi tutte è scolpita un'immagine che rappresenta il mestiere o la professione del morto. Sono martelli, seghe, penne, scrigni, collane; il banchiere è rappresentato da una bilancia, il prete da una mitra, il barbiere da una catinella, il chirurgo da una lancetta. Sopra una pietra vedemmo una testa spiccata dal busto, e il busto grondante di sangue: era il sepolcro d'un assassinato o d'un giustiziato. Un armeno vi dormiva accanto, sdraiato sull'erba, colla faccia in aria. Entrammo nel cimitero musulmano. Anche qui una infinità di colonnette a file e a gruppi disordinati; alcune colla testa dipinta e dorata; quelle delle donne terminate da un gruppo d'ornamenti in rilievo che rappresentano dei fiori; molte circondate d'arbusti e di pianticelle fiorite. Mentre stavamo osservando una di queste colonne, due turchi che tenevano per mano un bambino, ci passarono accanto, andarono innanzi altri cinquanta passi, si fermarono dinanzi a un tumulo, vi sedettero sopra, e aperto un involto che portavano sotto il braccio, si misero a mangiare. Io stetti ad osservarli. Quand'ebbero finito, il più avanzato in età raccolse qualchecosa in un foglio di carta, - mi parve un pesce e del pane, - e con un atto rispettoso, mise il piccolo pacco in un buco accanto al sepolcro. Dopo questo accesero tutti e due la pipa e fumarono tranquillamente: il bambino s'alzò e si mise a scorrazzare per il cimitero. Quel pesce e quel pane, ci fu spiegato poi, erano la parte di cibo che i turchi lasciavano in segno d'affetto al loro parente, sepolto probabilmente da poco; e quel buco era l'apertura che si lascia nella terra vicino al capo di tutti i sepolti musulmani, perchè possano udire i lamenti e i pianti dei loro cari e ricevere qualche goccia d'acqua di rosa o sentir il profumo di qualche fiore. Finita la loro fumatina funebre, i due turchi piet...
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