[Pagina precedente]...una pioggia di caligine ardente, per le strade coperte di tizzoni e di rottami, battaglioni di nizam, bande di ladri, falangi di pompieri, generali, dervis, messi della Corte, famiglie che tornavano indietro a cercare i parenti perduti, predatori ed eroi, la sventura, la carità e il delitto, confusi in una turba spaventevole, che montava rumoreggiando come un mare in tempesta, colorata dai riflessi vermigli dell'immensa fornace. E poco lontano da quell'inferno, rideva, come sempre, la maestà serena di Stambul e la bellezza primaverile della riva asiatica, specchiata dal mar di Marmara e dal Bosforo, coperto di bastimenti immobili; una folla immensa, che faceva nere tutte le rive, assisteva muta e impassibile allo spettacolo spaventoso; i muezzin annunziavano con lente cantilene dai terrazzi dei minareti il tramonto del sole; gli uccelli roteavano allegramente intorno alle moschee delle sette colline; e i vecchi turchi, seduti all'ombra dei platani, sopra le alture verdi di Scutari, mormoravano con voce pacata: - È sonata l'ultima ora per la città dei Sultani. - Il giorno prescritto è venuto. - La sentenza d'Allà si compisce. - Così sia - Così sia.
L'incendio, per fortuna, non si protrasse nella notte. Alle sette della sera s'accendeva, per ultimo, il palazzo dell'ambasciata d'Inghilterra; dopo di che il vento cessava improvvisamente, e le fiamme morivano, spontaneamente o soffocate, da tutte le parti.
In sei ore due terzi di Pera erano stati distrutti dalle fondamenta, nove mila case incenerite, due mila persone morte.
Dopo l'incendio famoso del 1756, che distrusse ottanta mila case, e spianò due terzi di Stambul, sotto il regno di Otmano III, non s'era più visto un disastro così tremendo; e nessun incendio, dalla presa di Costantinopoli in poi, mietè un così gran numero di vite.
Il giorno seguente Pera offriva un aspetto meno spaventevole, ma non meno triste che durante l'infuriare dell'incendio. Dov'era passato il fuoco, era un deserto, e apparivano le forme nude e sinistre della grande collina; nuovi prospetti, una luce nuova, vastissimi spazi coperti di cenere in mezzo ai quali non rimanevano che le torricine affumicate dei camini, come monumenti funebri; quartieri interi scomparsi come accampamenti di beduini portati via dall'uragano; strade e crocicchi di cui non rimanevan più che le traccie nere e fumanti sulla terra, fra le quali erravano migliaia di sventurati cenciosi e sparuti, che chiedevano l'elemosina in mezzo a un via vai di soldati, di medici, di monache, di sacerdoti d'ogni religione e d'impiegati di tutti i gradi, che distribuivano pane e denaro, e guidavano lunghe file di carri carichi di materasse e di coperte, mandate dal governo per la gente rimasta senza casa. Il governo aveva fatto pure distribuire le tende dei soldati. Le alture di Tataola e il grande cimitero armeno erano coperti d'accampamenti, in cui brulicava una folla immensa. Per tutto si vedevano strati e monti di masserizie su cui sedevano famiglie estenuate e istupidite. Nel vasto cimitero di Galata erano sparsi e accatastati alla rinfusa, come in un bazar messo sottosopra, lungo i sentieri e in mezzo ai sepolcri, divani, letti, cuscini, pianoforti, quadri, libri, carrozze sconquassate, cavalli feriti legati ai cipressi, portantine dorate d'ambasciatori e gabbie di pappagalli degli arem, custoditi da una folla di servi e di facchini neri di caligine e cascanti di sonno. Una poveraglia innumerevole, immonda, non mai veduta, girava per le strade a cercar chiodi e serrature fra le macerie, scansando i soldati e i pompieri addormentati per terra, sfiniti dalle fatiche della notte; si vedeva per tutto gente affaccendata a rizzar baracche sulle rovine delle proprie case, con tende ed assiti; famiglie inginocchiate in mezzo ai muri affumicati di chiese senza tetto, dinanzi ad altari bruciati; gruppi di uomini e di donne che correvano affannosamente, col capo chino, osservando viso per viso lunghe file di cadaveri carbonizzati e sformati, e lì riconoscimenti, grida disperate, scoppi di pianto, gente che stramazzava come fulminata, in mezzo a una processione di lettighe e di bare, a un polverìo denso, a un'aria infocata, a un puzzo di carni arse, a nuvoli di scintille che si sollevavano improvvisamente sotto le vanghe e i picconi degli scavatori, e ricadevano sopra una folla fitta, lenta, silenziosa, sbalordita, accorsa da tutte le parti di Costantinopoli, sopra alla quale apparivano le faccie pallide e gravi dei Consoli e degli Ambasciatori, che arrestavano i cavalli sui crocicchi, e guardavano intorno sgomentati dall'immensità del disastro.
Eppure anche quell'immenso disastro, come segue sempre nei paesi orientali, fu presto dimenticato. Quattro anni dopo io non ne vidi più traccia, fuorchè qualche tratto di terreno sgombro all'estremità di Pera, dinanzi all'altura di Tataola. Dell'incendio si parlava già come d'un avvenimento molto lontano. Per qualche tempo, mentre le ceneri erano ancora calde, i giornali avevano chiesto al governo dei provvedimenti: che riordinasse il corpo dei pompieri, che mutasse le pompe, che si procurasse maggior abbondanza d'acqua, che regolasse la costruzione delle case; ma il governo aveva fatto il sordo e gli europei avevano rimesso il cuore in pace, continuando a vivere alla turca, ossia fidando un po' nel buon Dio e un po' nella buona fortuna.
Così, nulla o quasi nulla essendo mutato, si può andar sicuri che quello del 1870 non fu l'ultimo dei grandi incendi dai quali "è scritto" che la città dei Sultani sia ogni tanti anni desolata. Le case di Pera sono ora quasi tutte, è vero, di muratura; ma costrutte la maggior parte malamente, da architetti senza studii e senza esperienza, non invigilati dal Governo, e spesso anche costrutte dal primo venuto, in maniera che molte rovinano prima d'esser terminate, e quelle che rimangono su, non possono opporre alcuna resistenza alle fiamme. L'acqua, specialmente a Pera, è sempre scarsa e soggetta a un monopolio vergognoso; e siccome viene in gran parte dai serbatoi del villaggio di Belgrado, costrutti dai Romani, manca affatto quando non cadono pioggie abbondanti in primavera e in autunno; onde chi ha denari deve pagarla a peso d'oro e i poveri bevono fango. I pompieri sono sempre piuttosto una grande banda di malfattori, che un corpo ordinato di operai; banda composta di gente d'ogni paese, dipendenti più di nome che di fatto dal Seraschierato, da cui non ricevono che una razione di pane; inesperti, indisciplinati, ladri, detestati e temuti dalla popolazione quanto il fuoco che non sanno spegnere, e sospetti, non senza fondamento, di desiderare gl'incendi, come occasione di far bottino. Le pompe non scarseggiano, è vero, e i turchi ne vanno alteri come di macchine meravigliose; ma sono ridicole carabattole, che contengono una dozzina di litri d'acqua, e mandano uno zampillo sottilissimo, piuttosto adatto a innaffiare giardini che a spegnere incendi. E sarebbe nondineno una gran fortuna, se rimanendo questi inconvenienti, fossero cessati gli altri, che sono molto più gravi. Non è credibile, senza dubbio, quello che molti credono ancora, che il Governo, cioè, susciti gl'incendii per allargare le strade, chè il danno e il pericolo sarebbero troppo sproporzionati ai vantaggi; nè accade più come per il passato, che il "partito d'opposizione" dia fuoco a un quartiere di Costantinopoli per spaventare il Sultano, nè che l'esercito incendii un sobborgo per ottenere un accrescimento di paga. Ma il sospetto, che gl'incendii siano molte volte suscitati da coloro che ne possono trarre guadagno, è sempre vivo, e il fatto provò troppo spesso che non è un sospetto infondato. Per il che la popolazione vive in un'ansietà continua. Teme dei portatori d'acqua, dei facchini, degli architetti, dei mercanti di legna e di calce, e massimamente dei servitori, che sono la peggior genìa di Costantinopoli, legati la maggior parte con ladri, i quali sono alla loro volta ordinati in associazioni e in comitati, da cui altre compagnie occulte compran la roba rubata e facilitano con varii mezzi il delitto. E la polizia locale mostra con questa gente una fiacchezza, per non chiamarla indulgenza, la quale produce quasi gli effetti della complicità . Non fu mai condannato un incendiario. Raramente i ladri, dopo gl'incendii, sono colti e puniti. È anche più raro che gli oggetti sequestrati dalla polizia siano restituiti ai proprietarii. Di più, essendoci a Costantinopoli del canagliume di tutti i paesi, l'azione della giustizia è inceppata in mille modi dai trattati internazionali; i Consolati reclamano a sè i malfattori della propria nazione; i processi durano un secolo; molti delinquenti scappano; il timore del castigo non serve quasi affatto di freno agli scellerati, e il saccheggio negl'incendii è considerato da loro quasi come un privilegio tacitamente riconosciuto dalle autorità , come era altre volte per gli eserciti il mettere a sacco le città espugnate. Per questo la parola "incendio" significa ancora per la popolazione di Costantinopoli "tutte le sventure" e il grido di Janghen var è sempre un grido tremendo, solenne, fatale, al cui suono tutta la città si rimescola fin nel più profondo delle sue viscere, come all'annunzio d'un castigo di Dio. E chi sa quante volte la grande metropoli dovrà ancora essere incenerita e rialzata sulle sue ceneri prima che la civiltà europea abbia piantato la sua bandiera sul palazzo imperiale di Dolma-Bagcé!
Nei tempi andati, quando scoppiava un incendio in Costantinopoli, se il Sultano si trovava in quel momento nell'arem, gli portava l'annunzio del pericolo un'odalisca tutta vestita color di porpora dal turbante alle babbuccie, la quale aveva l'ordine di presentarsi a Lui in qualunque luogo egli fosse; fosse anche stato in braccio alla più cara delle sue favorite. Essa non aveva che da presentarsi sulla soglia: il color di fuoco dei suoi panni era l'annunzio muto della sventura. Ebbene, chi crederebbe che fra tante immagini grandiose e terribili che mi si affacciano alla mente quando penso agl'incendii di Costantinopoli, sia la figura di quell'odalisca quella che scuote più vivamente tutte le mie fibre d'artista? Io vorrei essere pittore per dipingere quel quadro, e supplicherò tutti i pittori di dipingerlo, sin che n'abbia trovato uno che s'innamori dell'argomento, e a lui sarò grato per la vita. Egli rappresenterà , in una stanza dell'arem imperiale, tappezzata di raso e rischiarata da una luce soavissima, sopra un largo divano, accanto a una circassa bionda di quindici anni, coperta di perle, Selim I, il Sultano tremendo, che s'è svincolato impetuosamente dalle braccia della sua cadina, e fissa i grand'occhi atterriti sopra l'odalisca purpurea, muta, sinistra, ritta sulla soglia come una statua, la quale, con un volto pallido che rivela la venerazione e il terrore, sembra voler dire: - Re dei Re, Allà ti chiama e il tuo popolo desolato t'aspetta! - e sollevando la cortina della porta, mostra di là da un terrazzo, in una grande lontananza azzurrina, la città enorme che fuma.
LE MURA
Il giro intorno alle antiche mura di Stambul lo volli far solo, e consiglio ad imitarmi tutti gl'Italiani che andranno a Costantinopoli, perchè lo spettacolo delle grandi rovine solitarie non lascia un'impressione veramente profonda e durevole se non in chi è tutto inteso a riceverla, e può seguire liberamente il corso dei suoi pensieri, in silenzio. C'era da fare una passeggiata di circa quindici miglia italiane, a piedi, sotto i raggi del sole, per strade deserte. - Forse - dissi al mio amico - a metà strada mi piglierà la tristezza della solitudine e t'invocherò come un Santo; ma tant'è, voglio andar solo. - Alleggerii il portamonete per il caso che qualche ladro suburbano avesse voluto vederci dentro, gittai qualchecosa "dentro alle bramose canne" per poter dir poi a me stesso: - "taci, maledetto lupo" -; e m'incamminai alle otto della mattina, sotto un bel cielo lavato da una pioggerella della notte, verso il ponte della Sultana V...
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