[Pagina precedente]...e fuggivano, i seni succedevano ai seni, i boschetti ai boschetti, i sobborghi ai sobborghi; e via via che s'andava innanzi, tutto ci s'allargava e ci s'innalzava dintorno, i colori della città illanguidivano, l'orizzonte s'infocava, le acque mandavano dei riflessi d'oro e di porpora, e un profondo stupore ci entrava a poco a poco nell'anima, misto a una dolcezza indefinibile, che ci faceva sorridere e non ci lasciava parlare. Quando il caicco si fermò allo scalo di Galata, uno dei barcaioli ci dovette gridare negli orecchi: Monsù! Arrivar! - e ci destammo come da un sogno.
IL GRAN BAZAR
Dopo aver visto di volo tutta Costantinopoli, percorrendo le due rive del Corno d'oro, è tempo di entrare nel cuore di Stambul, d'andar a vedere quella fiera universale e perpetua, quella città nascosta, oscura, piena di meraviglie, tesori e di memorie, che si distende fra la collina di Nuri-Osmanié e quella del Seraschiere, e si chiama il Grande Bazar.
Partiamo dalla piazza della moschea Sultana-Validè.
Qui forse si vorrebbe fermare più d'un lettore goloso per dare un'occhiata al Balik-Bazar, mercato dei pesci, famoso fin dai tempi di quel vecchio Andronico Paleologo, il quale, com'è noto, dal solo prodotto della pesca lungo le mura della città ricavava di che far fronte alle spese culinarie di tutta la sua corte. La pesca, infatti, è ancora abbondantissima a Costantinopoli, e il Balik-Bazar, nei suoi bei giorni, potrebbe offrire all'autore del Ventre de Paris il soggetto d'una descrizione pomposa e appetitosa come le grandi mense dei vecchi quadri olandesi. I venditori son quasi tutti turchi, e stanno schierati intorno alla piazza, coi pesci ammucchiati sopra stuoie distese in terra, o sopra lunghe tavole, intorno a cui si disputano lo spazio una folla di compratori e un esercito di cani. Là si ritrovano le triglie squisite del Bosforo, quattro volte più grosse di quelle dei nostri mari; le ostriche dell'isola di Marmara, che i Greci e gli Armeni soli sanno cuocere a punto sulla brace; le palamite e i tonni che son salati quasi esclusivamente dagli Ebrei; le alici che i Turchi impararono a salare dai Marsigliesi; le sardelle di cui Costantinopoli provvede l'Arcipelago; gli ulufer, i pesci più saporiti del Bosforo, che si pigliano al lume della luna; gli scombri del Mar Nero, che fanno sette invasioni successive nelle acque della città , levando uno strepito che si sente dalle ville delle due rive; isdaurid colossali, pesci spada enormi, rombi, o come li chiamano i Turchi, Kalkan-baluk, pesci scudo, e altri mille pesci minori, che guizzano fra i due mari, inseguiti dai delfini e dai falianos, e cacciati da innumerevoli alcioni, a cui strappano la preda dal becco i piombini. Cuochi di pascià , vecchi buongustai musulmani, schiave e giovani di taverna, s'avvicinano alle tavole, guardano i pesci in atto meditabondo, contrattano a monosillabi, e se ne vanno colla loro compra appesa a uno spago, tutti gravi e taciturni, come se portassero la testa d'un nemico; a mezzogiorno la piazza è sgombra, e i rivenditori son già sparsi per i caffè vicini, dove stanno fino al cader del sole, sognando ad occhi aperti, colle spalle al muro, e il bocchino del narghilè tra le labbra.
Per andare al Gran Bazar, s'infila una strada che sbocca nel mercato dei pesci, tanto stretta che le sporgenze delle case opposte quasi si toccano, e si va innanzi per un buon tratto in mezzo a due file di botteghe basse ed oscure, dove si vende il tabacco "la quarta colonna della tenda della voluttà " dopo il caffè, l'oppio ed il vino, o "il quarto sofà dei godimenti", anch'esso, come il caffè, fulminato un tempo da editti di sultani e da sentenze di muftì, e cagione di torbidi e di supplizi, che lo resero più saporito. Tutta la strada è occupata dai tabaccai. Il tabacco è messo in mostra sopra assicciuole, a piramidi e a mucchi rotondi, ognuno sormontato da un limone. Sono piramidi di latakié d'Antiochia, di tabacco del Serraglio biondo e sottilissimo che par seta della più fina, di tabacco da sigarette e da cibuk, di tutte le gradazioni di sapore e di forza, da quel che fuma il facchino gigantesco di Galata a quello che concilia il sonno alle odalische annoiate nei chioschi dei giardini imperiali. Il tombeki, tabacco fortissimo, che darebbe al capo anche a un vecchio fumatore, se il fumo non giungesse alla bocca purificato dall'acqua del narghilè, è chiuso in boccie di vetro come un medicinale. I tabaccai son quasi tutti greci od armeni cerimoniosi, che affettano un certo fare signorile; gli avventori tengono crocchio; vi si fermano degli impiegati del ministero degli esteri e del Seraschierato; alle volte vi dà una capatina qualche pezzo grosso; vi si spolitica, si va a raccogliervi la notizia e a raccontarvi il fattarello; è un piccolo bazar appartato e aristocratico, che invita al riposo, e fa sentire, anche a passarvi soltanto, la voluttà della chiacchera e del fumo.
Andando innanzi, si passa sotto una vecchia porta ad arco, inghirlandata di pampini, e si riesce in faccia ad un vasto edifizio di pietra, attraversato da una lunga strada diritta e coperta, fiancheggiata da botteghe oscure, e ingombra di gente, di casse, di sacchi, di mucchi di mercanzie. Entrando, si sente un odore d'aromi acutissimo, che quasi ributta indietro. È il bazar egiziano dove sono raccolte tutte le derrate dell'India, della Siria, dell'Egitto e dell'Arrabia, che ridotte poi in essenze, in pastiglie, in polveri, in unguenti, vanno a colorar visetti e manine d'odalische, a profumar stanze e bagni e bocche e barbe e pietanze, a rinvigorire Pascià sfibrati, ad assopire spose infelici, a istupidire fumatori, a spander sogni, ebbrezza ed obblìo nella città sterminata. Fatti pochi passi in questo bazar, si comincia a sentir la testa pesante, e si fugge; ma la sensazione di quell'aria calda e grave, e di quei profumi inebbrianti, ci accompagna ancora per un buon tratto all'aria libera, e rimane poi viva nella memoria come una delle più intime e più significanti impressioni dell'Oriente.
Uscendo dal bazar egiziano, si passa in mezzo a officine rumorose di calderai, a taverne turche, che riempiono la strada di puzzi nauseabondi, a mille botteguccie e nicchiette e buchi oscuri, dove si fabbrica e si vende una minutaglia infinita d'oggetti senza nome, e si arriva finalmente al Grande Bazar.
Ma assai prima d'arrivarci, s'è assaliti e bisogna difendersi.
A cento passi dalla gran porta d'entrata, sono appostati, come bravi, i sensali dei mercanti, e i sensali dei sensali, che alla prima occhiata v'hanno riconosciuto per forestiero, hanno capito che andate al bazar per la prima volta, e indovinato presso a poco di che paese siete, tanto che assai di rado sbagliano lingua nel dirigervi la parola.
S'avvicinano col fez in mano e col sorriso sulle labbra e v'offrono i loro servizi.
Allora segue quasi sempre un dialogo come questo.
- Non compro nulla - rispondete.
- Che importa, signore? Io non voglio che farle vedere il bazar.
- Non voglio vedere il bazar.
- Ma io l'accompagno gratis.
- Non voglio essere accompagnato gratis.
- Ebbene, non l'accompagnerò che fino in fondo alla strada, per darle qualche informazione che le sarà utile un altro giorno, quando verrà per comprare.
- Ma se non voglio neppur sentir discorrere di comprare!
- Parleremo d'altro, signore. È a Costantinopoli da molto tempo? È soddisfatto del suo albergo? Ha ottenuto il permesso di visitare le moschee?
- Ma se vi dico che non voglio parlare, che voglio esser solo!
- Ebbene, la lascierò solo; la seguiterò alla distanza di dieci passi.
- Ma perchè mi volete seguitare?
- Per impedire che la truffino nelle botteghe.
- Ma se non entro nelle botteghe!
- Allora... per impedire che le diano noia per la strada.
Insomma, o bisogna rimetterci il fiato, o lasciarsi accompagnare.
Il grande bazar non ha nulla all'esterno che attiri l'occhio e faccia indovinare il di dentro. È un immenso edifizio di pietra, di stile bizantino, di forma irregolare, circondato d'alte mura grigie, e sormontato da centinaia di cupolette rivestite di piombo e traforate, che danno luce all'interno: l'entrata principale è una porta arcata, senza carattere architettonico; dai vicoli intorno non si sente nessun rumore; a quattro passi dalla porta si può credere ancora che dietro quei muri di fortezza non ci sia altro che solitudine e silenzio. Ma appena entrati, si rimane sbalorditi. Non si è dentro a un edifizio, ma in un labirinto di strade coperte da volte arcate e fiancheggiate da pilastri scolpiti e da colonne; in una vera città , colle sue moschee, colle sue fontane, coi suoi crocicchi, colle sue piazzette, rischiarata da una luce vaga come quella d'una foresta fitta in cui non penetri un raggio di sole; e percorsa da una folla immensa. Ogni strada è un bazar, e quasi tutte metton capo in una strada principale, coperta da una volta ad archi di pietre bianche e nere, e decorata d'arabeschi, come una navata di moschea. In queste strade semioscure, in mezzo alla folla ondeggiante, passano carrozze, cammelli e cavalieri, che fanno uno strepito assordante. In ogni parte si è apostrofati a parole e a cenni. Il mercante greco chiama ad alta voce e gesticola in atto quasi imperioso; l'armeno, altrettanto furbo, ma d'apparenza più modesta sollecita con maniere ossequiose; l'ebreo susurra le sue offerte nell'orecchio; il turco silenzioso, accosciato sopra un cuscino sulla soglia della bottega, non invita che cogli occhi e si rimette al destino. Dieci voci insieme vi chiamano: Monsieur! Captan! Caballero! Signore! Eccellenza! Kyrie! Milord! - Ad ogni svolta, per le porte laterali, si vedono fughe d'arcate e di pilastri, lunghi corridoi, scorci di stradette, prospetti lontani e confusi di bazar, e per tutto botteghe, merci appese ai muri e alle volte, mercanti affaccendati, facchini carichi, gruppi di donne velate, un fermarsi e un disfarsi continuo di crocchi rumorosi, un rimescolìo di gente e di cose, da dare il capogiro.
La confusione, però, non è che apparente. Questo immenso bazar è ordinato come una caserma, e bastano poche ore per mettersi in grado di trovarci qualunque cosa vi si cerchi, senza bisogno di guida. Ogni genere di mercanzia ha il suo piccolo quartiere, la sua stradetta, il suo corridoio, la sua piazzuola. Sono cento piccoli bazar che mettono l'uno nell'altro, come le sale di un vastissimo appartamento; ed ogni bazar è nello stesso tempo un museo, un passeggio, un mercato e un teatro, nel quale si può veder tutto senza comprar nulla, prendere il caffè, godere il fresco, chiacchierare in dieci lingue e fare agli occhi colle più belle donnine dell'Oriente.
Si può prendere un bazar a caso e passarci una mezza giornata senz'accorgersene: per esempio il bazar delle stoffe e dei vestiti. È un emporio di bellezze e di ricchezze da perderci gli occhi, il cervello e la borsa; e bisogna star in guardia, perchè il menomo capriccio può aver per conseguenza di farci chiedere soccorso a casa per telegrafo. Si passeggia in mezzo a mucchi e a torri di broccati di Bagdad, di tappeti di Caramania, di sete di Brussa, di tele dell'Indostan, di mussoline del Bengala, di scialli di Madras, di casimir dell'India e della Persia, di tessuti variopinti del Cairo, di cuscini rabescati d'oro, di veli di seta rigati d'argento, di sciarpe di tocca a righe azzurre e incarnate, leggiere e trasparenti che paiono vaporose, di stoffe d'ogni forma e d'ogni disegno, in cui il chermisino, il blu, il verde, il giallo, i colori più ribelli alle combinazioni simpatiche, si avvicinano e s'intrecciano con un ardimento e un'armonia da far rimanere a bocca aperta; di tappeti da tavola d'ogni grandezza, a fondo rosso o bianco, ricamati d'arabeschi, di fiori, di versetti del Corano, di cifre imperiali, che si starebbe un giorno a contemplarli come le pareti dell'Alhambra. Qui si possono ammirare ad una ad una tutte le parti del vestiario turco signorile, come nelle alcove d'un arem, dalle cappe verdi, ranciate e color di giacinto, che coprono ogni cosa, fino alle cami...
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