[Pagina precedente]...icolazioni, mi fregano, mi strizzano, mi stropicciano; mi fanno voltar bocconi, e ricominciano; mi rimettono supino, e tornan da capo; mi stirano e mi schiacciano come un fantoccio di pasta, a cui vogliano dare una forma che hanno in mente, e non ci riescano, e ci s'arrabbino; poi pigliano un po' di respiro; poi di nuovo pizzicotti e strizzatine e schiacciature da farmi temere che sia quello il mio ultimo quarto d'ora. Finalmente, quando tutto il mio corpo schizza acqua come una spugna spremuta, quando mi vedono circolare il sangue sotto la pelle, quando s'accorgono che proprio non ci posso più reggere, tiran su i miei resti da quel letto di tortura, e li portano in un angolo, dinanzi a una piccola nicchia, dove sono due cannelle di rame, che gettano acqua calda e acqua fresca in una vaschetta di marmo. Ma, ahimè! qui comincia un altro martirio. E veramente la cosa piglia un certo andare, che, senza celia, io mi domando se non è il caso di appoggiare un cappiotto a destra e uno scopaccione a sinistra, e di battermela come mi trovo. Uno dei due tormentatori si mette un guanto di pelo di cammello e comincia a fregarmi la schiena, il petto, le braccia e le gambe, colla grazia con cui striglierebbe un cavallo, e la strigliatura si prolunga per la bellezza di cinque minuti. Finita la strigliatura, mi rovesciano addosso un torrente d'acqua tepida, e ripigliano fiato. E lo ripiglio anch'io, ringraziando il cielo che sia finita. Ma non è finita! Il mulatto feroce si leva il guanto e ricomincia l'operazione colla mano nuda, ed io m'indispettisco e gli fo cenno di smettere, e lui, mostrandomi la mano, mi prova, con mia grande meraviglia, che deve fregare ancora. Finito di fregare, un altro rovescio d'acqua, e poi un'altra operazione. Prendono tutti e due uno strofinaccio di stoppa imbevuto di sapone di Candia, e m'insaponano dalla testa ai piedi. Finita l'insaponata, un altro diluvio d'acqua profumata, e poi da capo lo strofinamento colla stoppa. Ma questa volta, come dio vuole, la stoppa è asciutta e strofinano per asciugare. Asciugato che sono, mi rifasciano la testa, mi rimettono il grembiale, mi ravvolgono in un lenzuolo, mi riconducono nella seconda sala, e dopo una sosta di qualche minuto, mi fanno rientrar nella prima. Qui trovo una materassa tepida sulla quale mi distendo mollemente e i due esecutori di giustizia mi danno gli ultimi pizzicotti per rendere uguale in tutte le membra la circolazione del sangue. Ciò fatto, mi mettono un cuscino ricamato sotto la testa, una coperta bianca addosso, una pipa in bocca, una limonata accanto, e mi lascian lì fresco, leggiero, odoroso, colla mente serena, col cuore contento, con un senso così puro e così giovanile della vita, che mi par d'esser nato allora, come Venere, dalla spuma del mare, e di sentirmi frullare sopra la testa le ali degli amorini.
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[La Torre del Seraschiere]
Sentendosi così puri e disposti a riveder le stelle non c'è di meglio che arrampicarsi sopra la testa di quel titano di pietra che si chiama la torre del Seraschiere. Io credo che Satana, se volesse tentare un'altra volta qualcuno coll'offerta del regno della terra, sarebbe sicuro del fatto suo, trasportando la sua vittima su quella cima. La torre, fabbricata sotto il regno di Mahmud II, è piantata sulla collina più alta di Stambul, nel mezzo del cortile vastissimo del ministero della guerra, nel punto che i turchi chiamano l'ombelico della città. È costrutta in gran parte con marmo bianco di Marmara, sul piano d'un poligono regolare di sedici lati, e si slancia in alto, ardita e svelta come una colonna, sorpassando d'un buon tratto i minareti giganteschi della vicina moschea di Solimano. Si va su per una scala a chiocciola, rischiarata da poche finestre quadrate, per le quali s'intravvede, passando, ora Galata, ora Stambul, ora i sobborghi del Corno d'oro; e non s'è ancora a mezza altezza, che già, lanciando uno sguardo fuori, pare di essere nella regione delle nuvole. Qualche volta salendo, si sente un leggero rumore sul proprio capo, e quasi nello stesso punto si vede passare e sparire una larva, che sembra una cosa che precipita piuttosto che un uomo che discende; ed è uno dei guardiani che stanno giorno e notte alla vedetta sulla sommità della torre, il quale ha visto probabilmente in qualche punto lontano dell'orizzonte un nuvolo di fumo sospetto, e ne porta avviso al Seraschierato. La scala ha circa duecento scalini, e conduce a una specie di terrazza rotonda, coperta di sopra e vetrata tutt'intorno, nella quale gira perpetuamente un guardiano, che serve il caffè ai visitatori. Al primo entrare in quella gabbia trasparente, che par sospesa tra il cielo e la terra, al vedere tutt'intorno quell'immenso vuoto azzurro, al sentire il vento che strepita e fa sonare i vetri e scricchiolare gli assiti, s'è quasi presi dalle vertigini e tentati di rinunziare al panorama. Ma alla vista della scaletta appoggiata al finestrino del tetto, il coraggio ritorna, si sale col cuore palpitante, e si getta un grido di meraviglia. È un momento sublime. Si rimane come sfolgorati. Tutta Costantinopoli è là e s'abbraccia tutta con un giro dello sguardo; tutte le colline e tutte le valli di Stambul, dal castello delle Sette Torri ai cimiteri d'Eyub; tutta Galata e tutta Pera, come se lo sguardo vi cadesse a fil di piombo; tutta Scutari, come se fosse lì sotto; tre file di città, di boschi, di flotte, che fuggono a perdita d'occhi lungo tre rive incantevoli, e altre striscie interminabili di villaggi e di giardini che si perdono serpeggiando nell'interno delle terre; tutto il Corno d'oro, immobile, cristallino e picchiettato d'innumerevoli caicchi, che sembrano moscerini natanti; tutto il Bosforo, che par chiuso qua e là dalle colline più avanzate delle due rive, e presenta l'immagine d'una successione di laghi, e ogni lago par circondato da una città, e ogni città è inghirladata di giardini; di là dal Bosforo, il mar Nero azzurrino che si confonde col cielo; dalla parte opposta, il mar di Marmara, il golfo di Nicomedia, le isole dei Principi, la riva europea e la riva asiatica biancheggianti di villaggi; di là dal mar di Marmara, lo stretto dei Dardanelli, che luccica come un sottile nastro d'argento; oltre i Dardanelli un vago bagliore bianco, ch'è il mare Egeo e una curva oscura che è la riva della Troade; di là da Scutari, la Bitinia e l'Olimpo; di là da Stambul, le solitudini ondulate e giallognole della Tracia; due golfi, due stretti, due continenti, tre mari, venti città, una miriade di cupole inargentate e di guglie d'oro, una gloria di colori e di luce, da far dubitare se quella sia una veduta del nostro pianeta o di un altro astro più favorito da Dio.
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[Costantinopoli]
E sulla torre del Seraschiere, come su quella di Galata, come sul vecchio ponte, come a Scutari, io mi domandai cento volte: - Ma in che maniera hai potuto innamorarti dell'Olanda? - E non solo quel paese, ma Parigi, ma Madrid, ma Siviglia, mi parevano città oscure e malinconiche, in cui non avrei più potuto vivere un mese. Poi ripensavo alle mie povere descrizioni e mi dicevo con rammarico: - Ah! disgraziato! Quante volte hai sciupato le parole bello, splendido, immenso! Ed ora che cosa dirai di questo spettacolo? - Ma già mi pareva che da Costantinopoli non avrei cavato una pagina. E il mio amico Rossasco mi diceva: - Ma perchè non ti ci provi? - Ed io gli rispondevo: - Ma se non ho nulla da dire! - E alle volte, chi lo crederebbe? quello spettacolo, per qualche minuto secondo, a certe ore, a una certa luce, mi pareva meschino, ed esclamavo quasi con sgomento: - O dov'è la mia Costantinopoli? - Altre volte mi pigliava un sentimento di tristezza pensando che mentre io ero là dinanzi a quella immensità e a quella bellezza, mia madre era in una piccola stanza, da cui non si vedeva che un cortile uggioso e una piccola striscia di cielo; e mi pareva una colpa mia, e avrei dato un occhio per aver la mia buona vecchia a bracetto e condurla a Santa Sofia. La giornata però correva quasi sempre allegra e leggera come un'ora d'ebbrezza. E le rare volte che faceva capolino l'umor nero, il mio amico ed io avevamo un mezzo sicuro di liberarcene. Scendevamo a Galata in due caicchi a due remi, i più variopinti e i più dorati dello scalo, e gridavamo: - Eyub! - ed eravamo già in mezzo al Corno d'oro. I nostri rematori si chiamavano Mahmut, Baiazet, Ibraim, Murat, avevano vent'anni per uno e due braccia di ferro, e vogavano a gara incitandosi con grida e ridendo come bambini; il cielo era sereno e il mare trasparente; noi rovesciavamo il capo indietro per bere a sorsate più lunghe l'aria piena di profumi, e lasciavamo spenzolare una mano nell'acqua; i due caicchi volavano, di qua e di là ci fuggivano allo sguardo i chioschi, i palazzi, i giardini, le moschee; ci pareva d'esser portati dal vento a traverso un mondo fatato, sentivamo un piacere inesprimibile d'esser giovani e d'essere a Stambul, Yunk cantava, io recitavo delle ballate orientali di Vittor Hugo, e vedevo ora a destra, ora a sinistra, ora vicino, ora lontano, balenare per aria un viso amoroso, coronato di capelli bianchi e illuminato da un sorriso dolcissimo, che diceva: - Sii felice, figliuolo! Io ti benedico e ti seguo.
SANTA SOFIA
Ed ora, se anche un povero scrittore di viaggi può invocare una musa, io la invoco a mani giunte perchè la mia mente si smarrisce "in faccia al nobile subbietto" e le grandi linee della basilica bizantina mi tremano dinanzi come un'immagine riflessa da un'acqua agitata. La musa m'ispiri, Santa Sofia m'illumini e l'imperatore Giustiniano mi perdoni.
Una bella mattina d'ottobre, accompagnati da un cavas turco del Consolato d'Italia e da un dracomanno greco, andammo finalmente a visitare il "paradiso terrestre, il secondo firmamento, il carro dei cherubini, il trono della gloria di Dio, la meraviglia della terra, il maggior tempio del mondo dopo San Pietro". La quale ultima sentenza, - lo sappiano i miei amici di Burgos, di Colonia, di Milano, di Firenze, - non è mia, e non oserei farla mia; ma l'ho citata, colle altre, perchè è una delle molte espressioni consacrate dall'entusiasmo dei Greci, che il nostro dracomanno ci andava ripetendo per via. E avevamo scelto pensatamente, insieme a un vecchio cavas turco, un vecchio dracomanno greco, colla speranza, che non fu delusa, di sentire nelle loro spiegazioni e nelle loro leggende cozzare le due religioni, le due storie, i due popoli; e che l'uno ci avrebbe esaltato la chiesa l'altro magnificato la moschea, in modo da farci vedere Santa Sofia come dev'esser veduta: con un occhio di cristiano e un occhio di turco.
La mia aspettazione era grande e la curiosità vivissima; eppure, strada facendo, pensavo come penso ancora, che non c'è monumento famoso, e sia pure degno della sua fama, dal quale venga all'anima una commozione così vivamente e schiettamente piacevole com'è quella che si prova nell'andarlo a vedere. Se dovessi rivivere un'ora di tutti i giorni in cui vidi qualche grande cosa, sceglierei quella che passò fra il momento in cui dissi: - Andiamo -; e il momento in cui intesi dire: - Siamo giunti. Le più belle ore dei viaggi son quelle. Andando, par di sentirsi ingrandir l'anima come per contenere il sentimento di ammirazione che vi sorgerà tra poco; si rammentano i desiderii della prima giovinezza, che parevan sogni; si rivede un vecchio professore di geografia che, dopo aver segnato Costantinopoli sulla carta d'Europa, traccia per aria, con una presa di tabacco tra le dita, le linee della grande basilica; si vede quella stanza, quel caminetto, dinanzi al quale, nel prossimo inverno, si descriverà il monumento in mezzo a un cerchio di visi meravigliati ed immobili; si sente sonar quel nome di Santa Sofia nella testa, nel cuore, nelle orecchie, come il nome d'un essere vivo che ci aspetti e ci chiami per rivelarci qualche grande segreto; si vedono apparire sul nostro capo archi e pilastri prodigiosi d'edifizii che si perdono nel cielo; e quando si è a poch...
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