[Pagina precedente]...iali e i pompieri indietreggiavano rapidamente da tutte le parti, lasciando qua e là morti e feriti, e la speranza di soffocar l'incendio sul nascere era perduta. Per maggior disgrazia tirava quel giorno un vento fortissimo che abbatteva le fiamme delle case ardenti sopra i tetti delle case vicine, in larghe vampe orizzontali, che parevano tende ondeggianti, in modo che il fuoco penetrava in tutte le case dal tetto, come rovesciatovi sopra da un vulcano. L'accensione era così rapida, che le famiglie raccolte nelle case, sicure d'essere ancora in tempo a portar via una parte dei loro averi, si sentivano tutt'a un tratto crepitare il tetto sul capo, e appena riuscivano a metter in salvo la vita. Le case s'accendevano l'una dopo l'altra come se fossero state intonacate di pece, e subito, dalle innumerevoli finestrine prorompevano le fiamme lunghe, diritte, mobilissime, come serpenti smaniosi di preda, che si curvavano fino a lambire la strada quasi per cercar vittime umane. L'incendio non correva, volava, e prima di avvolgere, copriva, come un mare di fuoco. Dalla via Feridiè irruppe furiosamente nella via di Tarla-Bascì, di qui tornò indietro e invase come un torrente la via di Misc, poi infiammò come una foresta secca il quartiere Aga-Dgiami, poi la via Sakes-Agatsce, poi quella di Kalindgi-Kuluk, e poi di strada in strada, coprì di fuoco tutta la china di Yeni-Sceir, e s'incrociò col turbine di fiamme che veniva giù strepitando e muggendo per la gran strada di Pera. Non c'erano soltanto mille incendii da spegnere, mille nemici sparsi da combattere; erano come le insidie e i colpi di mano inaspettati d'un grande esercito, che pareva fosse guidato astutamente da una volontà unica, per cogliere nella rete la città intera, e non lasciar scampo a nessuno. Erano tanti torrenti di lava che si riunivano e s'incrociavano, precipitando e spandendosi in laghi di fuoco con una rapidità che preveniva tutti i soccorsi. In capo a tre ore metà di Pera era in fiamme. Una miriade di colonne di fumo vermiglio, sulfureo, bianco, nero, fuggivano rapidissimamente rasente i tetti e s'allungavano a perdita d'occhi lungo le colline, ottenebrando e tingendo di colori sinistri i vasti sobborghi del Corno d'oro; per tutto era un turbinio furioso di cenere e di scintille; e il vento sbatteva contro le case ancora intatte dei bassi quartieri una vera grandine di braci e di tizzi, che spazzavano le strade come scariche di mitraglia. Le strade dei quartieri accesi non erano più che grandi fornaci, sopra alcune delle quali le fiamme formavano come un fitto padiglione, e là precipitavano e saltellavano con un fracasso orrendo i pini del mar Nero delle travature dei tetti, i travicelli sottili dei ciardak, i balconi vetrati, i minareti di legno delle piccole moschee, che pareva rovinassero spezzati da un terremoto. Per le strade ancora accessibili, si vedevano passare, come spettri, illuminati da bagliori d'inferno, lancieri a cavallo, ventre a terra, che portavano in tutte le direzioni gli ordini del Seraschierato; ufficiali del Serraglio, col capo scoperto e la divisa abbruciacchiata; cavalli sciolti di soldati caduti; frotte di facchini carichi di masserizie, sciami di cani ululanti, turbe di fuggiaschi che inciampavano e stramazzavano urlando giù per le chine, tra i feriti, i cadaveri e le macerie, e sparivano tra il fumo e le fiamme, come legioni di dannati. Per un momento, fu visto immobile dinanzi all'imboccatura d'una strada accesa del quartier Aga-Dgiami, il Sultano Abdul-Aziz, a cavallo, circondato dal suo corteo, pallido come un cadavere, cogli occhi dilatati e fissi nelle fiamme, come se ripetesse tra sè le parole memorabili di Selim I: - Ecco il soffio ardente delle mie vittime! Io lo sento, che distruggerà la città, il mio serraglio e me pure! - E poi disparve in un nuvolo di cenere, trascinato dai suoi cortigiani. Tutto l'esercito di Costantinopoli e tutta l'innumerevole turba dei pompieri era in moto, a frotte, a lunghissime catene, a semicerchi immensi che abbracciavano interi quartieri, sorvegliati e diretti da visir, da ufficiali di corte, da pascià, da ulema; in alcuni punti, per tagliar la strada alle fiamme, fervevano battaglie disperate; case dietro case, in pochi minuti, cadevano sotto le scuri; i tetti formicolavano di gente ardita che affrontava il fuoco a bruciapelo, e cadevano a capofitto nei crateri aperti sotto i loro piedi, e altri vi succedevano, come in una mischia, ostinati, gettando grida selvaggie, e agitando i fez abbruciacchiati in mezzo al fumo color di foco. Ma l'incendio s'avanzava vittorioso in mezzo ai mille getti d'acqua, sorpassando a grandi salti piazze, giardini, grandi edifici di pietra, piccoli cimiteri, e faceva da tutte le parti retrocedere pompieri, soldati e cittadini, come un esercito in rotta, flagellandoli alle spalle con una pioggia di carboni roventi. Si compievano, anche in quell'orrenda confusione, dei belli atti di coraggio e di umanità. Si videro in molti punti, fra le rovine ardenti delle case, sventolare i veli bianchi delle Suore di Carità, curve sui moribondi; dei turchi che si slanciarono tra le fiamme e ricomparvero poco dopo sollevando sulle braccia scorticate dei bambini cristiani; altri musulmani che, dinanzi a una casa infiammata, immobili, colle braccia incrociate in mezzo a una famiglia cristiana in preda alla disperazione, offrivano freddamente cento lire turche a chi salvasse un ragazzo europeo rimasto nel fuoco; alcuni che raccoglievano in drappelli, per le strade, i bimbi smarriti, e li legavano colle bende del turbante, per restituirli poi ai parenti; altri che aprivano le loro case ai fuggitivi seminudi; più d'uno, che, per dar un esempio di coraggio e di disprezzo dei beni terreni, mentre la propria casa bruciava, stava seduto nella via sopra un tappeto, fumando tranquillamente il narghilè, e si faceva in là, con suprema indifferenza, man mano che le fiamme s'avvicinavano. Ma il coraggio e la freddezza d'animo non valevano più oramai contro quella tempesta di fuoco. A momenti, pareva che, scemando un poco il vento, l'incendio rimettesse della sua furia; ma subito il vento ricominciava a soffiare con maggior veemenza, e le fiamme, che s'erano appena risollevate, tornavano a curvarsi con impeto e a vibrare come freccie le loro punte diritte e implacabili, levando uno strepito cupo e precipitoso, rotto dagli scoppi improvvisi delle farmacie piene di petrolio, dalle detonazioni del gaz sparso per le case, di cui i tubi disfatti mandavano fuori rigagnoli di piombo fuso; dai tetti che rovinavano d'un colpo come schiacciati da una valanga; dal crepitìo dei giardini di cipressi che si contorcevano e s'infiammavano a un tratto, sciogliendosi in una pioggia di resina ardente; dai gruppi di vecchie case di legno, che s'accendevano scoppiettando come fuochi d'artifizio, e sprigionavano fasci enormi di fiamme bianche in cui parevano che soffiassero mantici di cento officine. Era uno stritolamento, un rovinìo, una distruzione rabbiosa, che pareva prodotta nello stesso tempo da un incendio, da un'inondazione, da una convulsione della terra e dalla rapina d'un esercito. Nessuno aveva mai nè visto nè sognato un simile orrore. La popolazione pareva impazzita. Per le strade di Pera era un rimescolamento vertiginoso e un urlìo forsennato come sul ponte d'un bastimento nel momento del naufragio. In mezzo ai mobili rotolati, sotto al balenìo delle spade degli ufficiali, fra gli urti e le bastonate dei facchini e dei portatori d'acqua, in mezzo ai cavalli dei Pascià e alle frotte dei pompieri che passavano di corsa investendo e rovesciando quanto incontravano, famiglie italiane, francesi, greche, armene, poveri e ricchi, donne e fanciulli, smarriti, smemorati, si cercavano brancolando, si chiamavano gridando e piangendo, soffocati dal fumo e accecati dalle scintille; passavano ambasciatori, seguiti da drappelli di servi, carichi di carte e di libri; frati che innalzavano un crocifisso sopra la folla; gruppi di donne turche che portavano fra le braccia gli oggetti più preziosi dell'arem; stuoli di gente curva sotto spoglie di chiese, di teatri, di scuole, di moschee; e a quando a quando, una nuvola enorme di fumo caliginoso, spinta giù da una ventata improvvisa, immergeva tutti nelle tenebre e cresceva lo scompiglio e il terrore. A crescere ancora gli orrori di quel disastro, c'era, come sempre, ma più quel giorno che mai, una miriade di ladri d'ogni paese, sbucati da tutti i covi di Costantinopoli, riuniti a drappelli d'intesa fra loro, e vestiti da facchini, da signori o da soldati, i quali entravano nelle case e rubavano a man salva, e correvano poi in frotte a Kassim-Pascià e a Tataola, a depositarvi il bottino; e i soldati li cacciavano, stendendosi in cordoni, e assalendoli a pattuglie, e seguivano lotte, dispersioni e inseguimenti, che aggiungevano sgomento a sgomento. I pompieri, i facchini, i portatori d'acqua, spalleggiati dai loro parenti, stretti in bande brigantesche, sotto gli occhi delle famiglie desolate di cui ardevano le case, interrompevano il lavoro, e mettevano a prezzo d'oro la continuazione. I mobili ammucchiati a traverso le strade strette, difesi dalle famiglie, erano presi d'assalto da torme di predoni, colle armi alla mano, e poi ridifesi, come barricate, dall'assalto di altri predoni. Turbe di fuggitivi, incontrandosi colle loro robe nei varchi angusti, si disputavano ferocemente la precedenza del passaggio, e lasciavano il terreno ingombro di gente soffocata o ferita. Ma già dopo le prime quattr'ore d'incendio, la furia del foco era tale che pochi s'affannavano più per le proprie robe, e a tutti pareva già molto di metter in salvo la vita. Due terzi di Pera ardevano, e le fiamme, correndo sempre più rapidamente in tutte le direzioni, accerchiavano quasi all'improvviso dei vasti spazii prima che la gente, ch'era dentro, se ne avvedesse. Centinaia di sventurati, stretti in folla, si slanciavano su per una stradicciuola tortuosa per cercare uno scampo, e improvvisamente, a una svoltata, si vedevano venir contro un uragano di vampe e di fumo, che li ricacciava indietro, forsennati, a cercare un'altra uscita. Famiglie intere, - ed una, fra queste, di ventidue persone, - erano tutt'a un tratto circondate, asfissiate, arse, carbonizzate. Presi dalla disperazione, si rifugiavano nelle cantine dove rimanevano soffocati, si precipitavano nei pozzi e nelle cisterne, s'impiccavano agli alberi, o dopo aver cercato inutilmente un ricovero nei ripostigli più segreti della casa, smarrita la ragione, uscivano all'aperto e correvano a buttarsi nelle fiamme. Dai luoghi alti di Pera, si vedevano giù per le chine, in mezzo a cerchi di fuoco, famiglie inginocchiate sulle terrazze, colle braccia tese e le mani giunte, che chiedevano al cielo il soccorso che non speravano più dalla terra. Si vedevano venir giù di corsa dalle alture di Pera e sparpagliarsi per Galata, per Top-hanè, per Funduclù, per i bassi cimiteri, stormi di gente pallida e scapigliata, stravolta dal terrore, che cercava ancora dove nascondersi, come se fosse inseguita dal fuoco; fanciulli insanguinati, donne lacere, coi capelli arsi, che stringevano fra le braccia bimbi morti o acciecati; uomini col viso e le braccia scorticate che si scontorcevano per terra fra gli spasimi dell'agonia; vecchi singhiozzanti come bambini, signori ridotti alla miseria che davan del capo nei muri, giovanetti deliranti che andavano a cadere estenuati sulla riva del Corno d'oro, famiglie che portavano cadaveri anneriti, sventurati impazziti dallo spavento che trascinavano seggiole attaccate a uno spago o si serravano sul petto delle bracciate di cocci e di cenci, prorompendo in grida lamentevoli o in risa frenetiche. E intanto, continuavano a salire dai quartieri bassi, dagli arsenali di Ters-hanè e di Top-hanè, dalle caserme, dalle moschee, dai palazzi del Sultano, e correvano come a un assalto, urlando Janghen var e Allà, su per le colline, fra il turbinìo della cenere e delle scintille, sotto ...
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