[Pagina precedente]...inaggio, ha visto parenti ed amici morir di sete in mezzo alle pianure interminabili dell'Asia Minore, è arrivato alla Mecca in fin di vita, ha fatto sette volte strascinandosi il giro della Kaaba, ed è caduto in deliquio coprendo di baci furiosi la Pietra nera. Questo colosso dal viso bianco, dalle sopracciglia arcate, dagli occhi fulminei, che par più un guerriero che un mercante, e spira da tutta la persona l'ambizione e l'orgoglio, ha portato le sue pelliccie dalle regioni settentrionali del Caucaso, dove, nei suoi begli anni, fece cader la testa dalle spalle a più d'un Cosacco. E questo povero mercante di lane, dal viso schiacciato e dagli occhi piccoli e obliqui, tarchiato e rude come un atleta, non è gran tempo che disse le sue preghiere all'ombra dell'immensa cupola che protegge il sepolcro di Timur: egli è partito da Samarkanda, ha valicato i deserti della grande Bukaria, è passato in mezzo alle orde dei turcomanni, ha attraversato il Mar Morto, è sfuggito alle palle dei Circassi, ha ringraziato Allà nelle moschee di Trebisonda, ed è venuto a cercar fortuna a Stambul, di dove ritornerà , vecchio, in fondo alla sua Tartaria, che gli sta sempre nel cuore.
Uno dei bazar più splendidi è il bazar delle calzature, ed è forse anche quello che mette più grilli nel capo. Sono due file di botteghe smaglianti che danno alla strada l'aspetto d'una sala di reggia, o d'uno di quei giardini delle leggende arabe in cui gli alberi hanno le foglie d'oro e fiori di perle. C'è da calzare tutti i piedini di tutte le corti dell'Asia e dell'Europa. Le pareti son coperte di pantofole di velluto, di pelle, di broccato, di raso, dei colori più petulanti e delle forme più capricciose, ornate di filigrana, contornate di lustrini, abbellite di nappine di seta e di piuma di cigno, stelleggiate e infiorate d'argento e d'oro, coperte d'arabeschi intricati che non lasciano più vedere il tessuto, e lampeggianti di zaffiri e di smeraldi. Ce n'è per le spose dei barcaiuoli e per le belle del Sultano, da cinque e da mille lire il paio; ci sono le scarpette di marocchino che premeranno i ciottoli di Pera, le babbuccie che striscieranno sui tappeti degli arem, gli zoccoletti che faranno risonare i marmi dei bagni imperiali, le pianelline di raso bianco su cui s'inchioderanno le labbra ardenti dei Pascià , e forse qualche paio di pantofole imperlate che aspetteranno ogni mattina lo svegliarsi d'una bella Georgiana accanto al letto del Gran Signore. Ma che piedi possono entrare in quelle babbuccie? Ve ne sono che paion tagliate ai piedi delle urì e delle fate; lunghe come una foglia di giglio, larghe come una foglia di rosa, d'una piccolezza da far disperare tutta l'Andalusia, d'una grazia da farsi sognare; non babbuccie, ma gioielli da tenersi sul tavolino; scatolini da metterci dei dolci o dei bigliettini amorosi; da non poter immaginare che ci sia un piedino che v'entri, senza desiderare di rivoltarselo un mese fra le mani affollandolo di domande e di vezzi. Questo bazar è uno dei più frequentati dagli stranieri. Vi si vedono spesso dei giovani europei, che hanno in un pezzetto di carta la misura d'un piedino italiano o francese, di cui forse sono alteri, e che fanno un atto di stupore o di dispetto, riconoscendo che passa di molto la lunghezza d'una certa babbuccina su cui han posto gli occhi; ed altri che, domandato il prezzo, e sentita una schiopettata, scappano senza ribatter parola. Qui pure spesseggiano le signore mussulmane, le hanum dai grandi veli bianchi, e occorre sovente di cogliere passando qualche frammento dei loro lunghi dialoghi coi venditori, qualche parola armoniosa della loro bella lingua, pronunziata da una voce chiara e dolce che accarezza l'orecchio come il suono d'una mandòla. - Buni catscia verersin? - Quanto vale questo? - Pahalli dir. - È troppo caro. - Ziadè veremèm. - Non pagherò di più. E poi una risata fanciullesca e sonora, che mette voglia di pigliarle un pizzico di guancia e darle una presa di monella.
Il bazar più ricco e più pittoresco è quello delle armi. Non è un bazar, è un museo, riboccante di tesori, pieno di memorie e d'immagini che trasportano il pensiero nelle regioni della storia e della leggenda, e destano un sentimento indescrivibile di meraviglia e di sgomento. Tutte le armi più strane, più spaventose e più feroci che sono state brandite dalla Mecca al Danubio in difesa dell'Islam, sono là schierate e forbite, come se ce l'avessero appese poco prima le mani dei soldati fanatici di Maometto e di Selim; e par di veder scintillare fra le loro lame gli occhi iniettati di sangue di quei sultani formidabili, di quei giannizzeri forsennati, di quegli spahì, di quegli azab, di quei silidar senza pietà e senza paura che seminarono l'Asia Minore e l'Europa di teste recise e di corpi dilaniati. Là si ritrovano le scimitarre famose che tagliavano le penne in aria e spiccavan le orecchie agli ambasciatori insolenti; i cangiari pesanti che d'un colpo fendevano il cranio e scoprivano il cuore; le mazze d'armi che stritolavano i caschi serbi e ungheresi; gli yatagan dal manico intarsiato d'avorio e tempestato d'amatiste e di rubini, che serbano ancora segnato a intagli nella lama il numero delle teste troncate; i pugnali dai foderi d'argento, di velluto e di raso, coi manichi di agata e d'avorio, ornati di granate, di corallo e di turchine, istoriati di versetti del Corano in lettere d'oro, colle lame incurvate e ritorte che par che cerchino un cuore. Chi sa che in questa armeria confusa e terribile non ci sia la scimitarra d'Orcano, o la sciabola di legno con cui il braccio poderoso d'Abd-el-Murad, il dervis guerriero, spiccava d'un colpo le teste; o il famoso jatagan col quale il Sultano Musa spaccò Hassan dalla spalla al cuore; o la sciabola enorme del gigantesco bulgaro che appoggiò la prima scala alle mura di Costantinopoli; o la mazza con cui Maometto II freddò il soldato rapace sotto le vôlte di Santa Sofia; o la gran sciabola damascata di Scanderberg che fendette in due Firuz-Pascià sotto le mura di Stetigrad? I più formidabili fendenti e le più orrende morti della storia ottomana s'affacciano alla mente, e par che proprio su quelle lame debba esser rappreso quel sangue, e che i vecchi turchi rintanati in quelle botteghe, abbiano raccolto armi e cadaveri sul terreno della strage, e custodiscano ancora gli scheletri sfracellati in qualche angolo oscuro. In mezzo alle armi si vedono pure le grandi selle di velluto scarlatto e celeste, ricamate a stelle e a mezzelune d'oro e di perle, i frontali impennacchiati, i morsi d'argento niellato e le gualdrappe splendide come manti reali: bardature da cavalli delle Mille e una notte, fatte per l'entrata trionfale d'un re dei genii in una città dorata del mondo dei sogni. Al di sopra di questi tesori, sono sospesi alle pareti vecchi moschetti a ruota e a miccia, grosse pistole albanesi, lunghissimi fucili arabi lavorati come gioielli, scudi antichi di scorza di tartaruga e di pelle d'ippopotamo, maglie circasse, scudi cosacchi, celate mongoliche, archi turcassi, coltellacci da carnefici, lamaccie di forme sinistre, ognuna delle quali pare la rivelazione d'un delitto, e fa pensare agli spasimi di un'agonia. In mezzo a quest'apparato minaccioso e magnifico, siedono a gambe incrociate i mercanti più schiettamente turchi del Grande Bazar, la più parte vecchi, d'aspetto tetro, smunti come anacoreti e superbi come Sultani, figure d'altri secoli, vestiti alla foggia delle prime egire, che sembrano risuscitati dal sepolcro per richiamare i nipoti imbastarditi alla austerità dell'antica razza.
Un altro bazar da vedersi è quello degli abiti vecchi. Qui il Rembrant ci avrebbe preso domicilio e il Goya speso la sua ultima peceta. Chi non ha mai visto una bottega di rigattiere orientale non può immaginare che stravaganza di stracci, che pompa di colori, che ironia di contrasti, che spettacolo ad un tempo carnevalesco, lugubre e schifoso, presenti questo bazar, questa cloaca di cenci, in cui tutti i rifiuti degli arem, delle caserme, della corte, dei teatri, vengono ad aspettare che il capriccio d'un pittore o il bisogno d'un pezzente li riporti alla luce del sole. Da lunghe pertiche confitte nei muri, pendono vecchie uniformi turche, giubbe a coda di rondine, dolman di gran signori, tuniche di dervis, cappe di beduini, tutte untume, brindelli e buchi, che paiono state crivellate a colpi di pugnale e rammentano le spoglie sinistre degli assassinati che si vedono sulle tavole delle Corte d'Assisie. In mezzo a questi cenci luccica ancora qua e là qualche rabesco d'oro; spenzolano vecchie cinture di seta, turbanti sciolti, ricchi scialli lacerati, bustini di velluto a cui pare che la mano furiosa d'un ladro abbia strappato insieme il pelo e le perle, calzoncini e veli che sono forse appartenuti a qualche bella infedele, la quale dorme cucita in un sacco in fondo alle acque del Bosforo, ed altre vesti ed ornamenti di donna, di mille colori gentili, imprigionati fra i grossi caffettani circassi, dai cartuccieri irruginiti, fra le lunghe toghe nere degli ebrei, fra le rozze casacche e i pesanti mantelli, che hanno nascosto chi sa quante volte il fucile del bandito o lo stile del sicario. Verso sera, alla luce misteriosa che scende dai fori della volta, tutti quei vestiti appesi prendono una vaga apparenza di corpi d'impiccati; e quando in fondo a una bottega si vedono scintillare gli occhi astuti d'un vecchio ebreo, che si gratta la fronte con una mano adunca, si direbbe che è quella la mano che ha stretto i lacci, e si dà uno sguardo alla porta del bazar, per paura che sia chiusa.
Non basterebbe una giornata di giri e di rigiri se si volessero veder tutte le stradette di questa strana città . V'è il bazar dei fez, dove si trovano fez di tutti i paesi, da quelli del Marocco a quelli di Vienna, ornati d'iscrizioni del Corano che preservano dagli spiriti maligni; i fez che le belle greche di Smirne portano sulla sommità della testa, sopra il nodo delle treccie nere scintillanti di monete; le berrettine rosse delle turche; fez da soldati, da generali, di sultani, da zerbinotti, di tutte le sfumature di rosso e di tutte le forme, da quelli primitivi dei tempi d'Orcano fino al gran fez elegante del Sultano Mahmut, emblema delle riforme e abbominazione dei vecchi mussulmani. V'è il bazar delle pelliccie dove si trova la sacra pelle di volpe nera, che una volta poteva portare il solo Sultano o il gran vizir; la martora con cui si foderavano i caffettani di gala; l'orso bianco, l'orso nero, la volpe azzurra, l'astrakan, l'ermellino, lo zibellino, in cui altre volte i sultani profusero tesori favolosi. È pure da vedersi il bazar dei coltellinai, non fosse che per pigliare in mano una di quelle enormi forbici turche, colle lame bronzate e dorate, adorne di disegni fantastici d'uccelli e di fiori, che s'incrociano ferocemente lasciando in mezzo un vano in cui potrebbe entrare la testa d'un critico maligno. V'è ancora il bazar dei filatori d'oro, quello dei ricamatori, quello dei chincaglieri, quello dei sarti, quello dei vasellami, tutti diversi l'un dall'altro di forma e di gradazione di luce; ma tutti eguali in questo: che non vi si vede nè vendere, nè lavorare una donna. Tutt'al più può accadere che qualche greca seduta per un momento davanti a una sartoria vi offra timidamente un fazzoletto finito allora di ricamare. La gelosia orientale interdice la bottega al bel sesso come una scuola di civetteria e un nascondiglio d'intrighi.
Ma ci sono ancora altre parti del gran bazar in cui uno straniero non può avventurarsi se non lo accompagna un mercante o un sensale; e sono le parti interne dei piccoli quartieri in cui è divisa questa città singolare, il di dentro dei piccoli isolati intorno a cui girano le stradette percorse dalla folla. Se nelle stradette c'è pericolo di smarrirsi, là dentro è impossibile non perdersi. Da corridoi poco più larghi d'un uomo, in cui bisogna chinarsi per non urtar nella volta, si riesce in cortiletti grandi come celle, ingo...
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