[Pagina precedente]...avevo veduto nell'Armeria di Madrid, e che il mio passo risonasse in quel silenzio come il passo misurato d'un reggimento d'alabardieri del medioevo. Avrei voluto aver la forza d'un Titano per sollevare fra le braccia i ruderi immani di quelle mura superbe. Camminavo colla fronte alta, colle sopracciglia corrugate, colla mano destra serrata, apostrofando a grandi versi sciolti Costantino e Maometto, rapito in una specie d'ebbrezza guerriera, con tutta l'anima nel passato; e mi sentivo tanta giovinezza nella mente e nel sangue, ed ero così beato d'esser solo, e così geloso di quella solitudine piena di vita, che non avrei voluto incontrare nemmeno il più intimo dei miei amici.
Passai dinanzi all'antica porta militare di Trite, oggi chiusa. Le cortine e le torri sfracellate indicano che dinanzi a quel tratto di mura debbono esser stati posti alcuni dei grossi cannoni d'Orbano. Si crede anzi che fosse là una delle tre grandi breccie che Maometto II accennò all'esercito il giorno prima dell'assalto, quando disse: - Voi potrete entrare in Costantinopoli a cavallo per le tre brecce che ho aperte. - Di là riuscii davanti a una porta aperta, fiancheggiata da due torri ottagone, e riconobbi dal piccolo ponte a tre archi d'un bel color d'oro, la porta di Selivri, da cui partiva la grande strada che conduceva alla città di Selybmria, che le diede il nome, cangiato dai Turchi in Selivri. Durante l'assedio di Maometto, difendeva quella porta Maurizio Cattaneo, genovese. La strada conserva ancora alcune pietre del lastricato che vi fece fare Giustiniano. Dinanzi c'è un vasto cimitero e di là dal cimitero il monastero notissimo di Baluklù.
Appena entrato nel cimitero, trovai da me solo il luogo solitario dove sono sepolte le teste del famoso Alì di Tepeleni, pascià di Giannina; dei suoi figli: Velì, governatore di Trihala, Muctar, comandante d'Arlonia, Saalih, comandante di Lepanto; e di suo nipote Mehemet, figlio di Velì, comandante di Delvina. Sono cinque colonnine di pietra, terminate in forma di turbante, che portano tutte la data del 1827, e un'iscrizione semplicissima, fatta da quel povero Solimano dervis, amico d'infanzia d'Alì, che comperò le teste, dopo che furono staccate dai merli del Serraglio, e le seppellì di sua mano. L'iscrizione del cippo d'Alì, che è posto nel mezzo, dice: - Qui giace la testa del famoso Alì-Pascià di Tepeleni, governatore del Sangiaccato di Giannina, il quale, per più di cinquant'anni, s'affaticò per l'indipendenza dell'Albania. - Il che prova che anche sui sepolcri musulmani si scrivono delle pietose menzogne. Mi arrestai qualche momento a contemplare quella poca terra che copriva quel formidabile capo, e mi venivano in mente le domande d'Amleto al teschio di Yorik. Dove sono i tuoi Palicari, leone d'Epiro? Dove sono i tuoi bravi Arnauti e i tuoi palazzi irti di cannoni e il tuo bel chiosco riflesso dal lago di Giannina e i tuoi tesori sepolti nelle roccie e i begli occhi della tua Vasiliki? E pensavo alla bellissima donna vagante per le vie di Costantinopoli, povera e desolata dai ricordi della sua felicità e della sua grandezza, quando sentii un leggero fruscio, e voltandomi, vidi un uomo lungo e stecchito, vestito d'una gran tonaca scura, col capo scoperto, che mi guardava in aria interrogativa. Da un cenno che mi fece, capii che era un monaco greco di Baluklù, che voleva farmi vedere la fontana miracolosa, e m'incamminai con lui verso il monastero. Mi condusse a traverso un cortile silenzioso, aperse una porticina, accese una candela, mi fece scendere con sè per una scaletta, sotto una volta umida e oscura, e fermandosi dinanzi a una specie di cisterna, sulla quale raccolse con una mano la luce della fiammella, mi accennò di guardare i pesci rossi che guizzavano nell'acqua. Mentre guardavo, mi borbottò un discorso incomprensibile che doveva essere la favola famosa del miracolo dei pesci. Mentre i Musulmani davano l'ultimo assalto alle mura di Costantinopoli, un monaco greco, in quel convento, friggeva dei pesci. Improvvisamente s'affacciò alla porta della cucina un altro monaco, tutto atterrito, e gridò: - La città è presa! - Che! - rispose l'altro: - lo crederò quando vedrò i miei pesci saltar fuori della padella. - E i pesci saltarono fuori sull'atto, belli e vivi, mezzi bruni e mezzi rossi perchè non erano fritti che da una parte, e furono rimessi religiosamente, come ognuno può pensare, nell'acqua dov'erano stati pigliati e dove guizzano ancora. Finita la sua chiacchierata, il monaco mi gettò sul viso alcune goccie dell'acqua sacra, che gli ricascarono in mano convertite in soldi, e dopo avermi riaccompagnato alla porta, stette un pezzo a guardarmi, mentre m'allontanavo, coi suoi piccoli occhi annoiati e sonnolenti.
E sempre, da una parte, mura dietro mura e torri dietro torri, e dall'altra cimiteri ombrosi, qualche campo verde, qualche vigneto, qualche casa chiusa, e di là, il deserto. Qualche volta, guardando le mura da un luogo basso, mi pareva di vederne l'ultimo profilo; ma fatta una breve salita, le vedevo di nuovo stendersi dinanzi a me senza fine, e a ogni passo saltavan fuori le torri, lontano, l'una dietro l'altra, a due, a tre insieme, come se accorressero sulla strada per veder chi turbava il silenzio di quella solitudine. La vegetazione, in quel tratto, è maravigliosa. Alberi frondosi si rizzano sulle torri, come sopra vasi giganteschi; dai merli spenzolano ciuffi di fiori gialli e di fiori rossi e ghirlande d'edera e di caprifoglio; di sotto ci son mucchi inestricabili di corbezzoli, di lentischi, di ortiche, di pruni, in mezzo a cui sorgono dei platani e dei salici, che coprono d'ombra il fosso e le sponde. Grandi tratti di muro sono completamente coperti dall'edera, che trattiene come una rete i mattoni e i calcinacci staccati, e nasconde le breccie e le feritoie. Il fosso è coltivato a orticelli; sulle sponde pascolano capre e pecore custodite da ragazzi greci, coricati all'ombra degli alberi; dai muri escono stormi d'uccelli; l'aria è piena delle fragranze acute dell'erbe selvatiche; e spira non so che allegrezza primaverile sulle rovine, che paiono inghirlandate e infiorate per il passaggio trionfale d'una Sultana. Tutt'a un tratto mi sentii nel volto un soffio d'aria salina, e alzando gli occhi vidi lontano, dinanzi a me, l'azzurro del Mar di Marmara. Nello stesso punto mi parve che una voce sommessa mi mormorasse nell'orecchio: - Il castello delle Sette Torri - e mi fermai un momento in mezzo alla strada, con un sentimento vago d'inquietudine. Poi ripresi il cammino, passai dinanzi all'antica porta Deleutera, oltrepassai la porta Melandesia, e mi trovai in faccia al castello.
Questo edificio di malaugurio, innalzato da Maometto II sull'antico Cyclobion dei Greci, per difendere la città nel punto in cui le mura che la proteggono dalla parte di terra si congiungono con quelle che la difendono dalla parte del Mar di Marmara, e convertito poi in prigione di Stato, appena le ulteriori conquiste dei Sultani, mettendo al sicuro Stambul dal pericolo d'un assedio, lo ebbero reso inutile come fortezza; non è più ora che uno scheletro di castello, custodito da pochi soldati; una rovina maledetta, piena di memorie dolorose e orribili, che corrono in leggende sinistre per le bocche di tutti i popoli di Costantinopoli, e non veduta dai viaggiatori, per solito, che di sfuggita, dalla prora del bastimento che li porta al Corno d'oro. I Turchi lo chiamano Jedi-Kulé, ed è per loro ciò che la Bastiglia per la Francia e la Torre di Londra per l'Inghilterra: un monumento che ricorda i tempi più nefandi della tirannia dei Sultani.
Le mura della città lo nascondono agli occhi di chi guarda dalla strada, eccetto due delle sette grandi torri che gli diedero il nome, delle quali non ce n'è più intere che quattro. Nel muro esterno rimangono due colonne corinzie, che appartenevano all'antica Porta dorata, per la quale fecero le loro entrate trionfali Narsete ed Eraclio, e che è la stessa, giusta una leggenda comune ai musulmani ed ai greci, per la quale passeranno i Cristiani il giorno che rientreranno vincitori nella città di Costantino. La porta d'entrata è dentro le mura, in una piccola torre quadrata, dinanzi a cui sonnecchia una sentinella in babbuccie, la quale acconsente quasi sempre a lasciar entrare nello stesso tempo una moneta in tasca e un viaggiatore nel castello.
Entrai e mi trovai solo in un grande recinto, d'un aspetto lugubre di cimitero e di carcere, che mi fece arrestare il passo. Tutt'intorno s'alzano mura enormi e nere, che formano un pentagono, coronate di grosse torri quadrate e rotonde, altissime e basse, alcune diroccate, altre intere e coperte da alti tetti conici, rivestiti di piombo, e innumerevoli scale in rovina, che conducono ai merli e alle feritoie. Dentro al recinto c'è una vegetazione alta e fitta, dominata da un gruppo di cipressi e di platani, sopra i quali spunta il minareto d'una piccola moschea nascosta; fra le piante più basse, i tetti d'un gruppo di capanne, in cui dormono i soldati; nel mezzo, la tomba d'un vizir che fu strangolato nel castello; qua e là i resti deformi d'un antico ridotto; e fra i cespugli e lungo i muri, frammenti di bassorilievi, tronchi di colonne e capitelli affondati nella terra, mezzo coperti dalle erbaccie e dall'acqua dei pantani: un disordine bizzarro e triste, pieno di misteri e di minaccie, che mette ripugnanza a inoltrarsi. Stetti un po' incerto guardando intorno, e poi andai innanzi, con circospezione, come per timore di mettere il piede in una pozza di sangue. Le capanne erano chiuse, la moschea chiusa; tutto solitario e quieto, come in una rovina abbandonata. In qualche punto dei muri ci sono ancora tracce di croci greche, frammenti di monogrammi costantiniani, ali spezzate d'aquile romane e resti di fregi dell'antico edifizio bizantino, anneriti dal tempo. Su alcune pietre si vedono incise rozzamente delle iscrizioni greche in caratteri minuti: quasi tutte iscrizioni dei soldati di Costantino, che custodivano la fortezza, sotto il comando del fiorentino Giuliani, il giorno prima della caduta di Costantinopoli; povera gente rassegnata a morire, che invocava Iddio perchè salvasse la loro città dal saccheggio e le loro famiglie dalla schiavitù. Delle due torri poste dietro alla Porta dorata, una è quella in cui venivano chiusi gli ambasciatori degli Stati ch'erano in guerra coi Sultani, e vi si leggono ancora sui muri parecchie iscrizioni latine, delle quali la più recente è degli ambasciatori veneti imprigionati sotto il regno d'Ahmed III, quando scoppiò la guerra della Morea. L'altra è la torre famosa a cui si riferiscono le più lugubri tradizioni del castello: la torre che racchiudeva un labirinto di segrete orrende, sepolcri di vivi, nelle quali i vizir e i grandi della Corte aspettavano, pregando nelle tenebre, l'apparizione del carnefice, o impazziti dalla disperazione, lasciavano sulle pareti le traccie sanguinose delle unghie e del cranio. In uno di quei sepolcri c'era il grande mortaio in cui si stritolavano le ossa e le carni agli ulema. A pian terreno v'è lo stanzone rotondo, chiamato prigione di sangue, dove si decapitavano secretamente i condannati, e si buttavano le teste in un pozzo, detto il pozzo di sangue, di cui si vede ancora la bocca nel mezzo del pavimento ineguale, coperta da due lastre di pietra. Sotto c'era la così detta caverna rocciosa, rischiarata da una lanterna appesa alla volta, dove si tagliava la pelle a striscie ai condannati alla tortura, si versava la pece infiammata nelle piaghe aperte dalle verghe e si schiacciavano colle mazze i piedi e le mani, e gli urli orrendi degli agonizzanti non arrivavano che come un lamento fioco agli orecchi dei prigionieri della torre. In un angolo del recinto si vedono ancora le traccie d'un cortile nel quale si troncava la testa, di notte, ai condannati comuni; e là vicino c'era ancora, non è gran tempo, un muro di ossa umane che s'innalzava fin quasi alla piattaforma del castello. Vicino all'entrata c'...
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