[Pagina precedente]...l'uguaglianza dei globi che compongono il sistema solare (uguaglianza non insegnata dalla natura, anzi all'opposto), nel modo che la ragione e la natura insegnavano agli uomini ed a qualunque vivente l'uguaglianza naturale degl'individui di una medesima specie.
(22. Aprile 1821.)
La scrittura dev'essere scrittura e non algebra; [976]deve rappresentar le parole coi segni convenuti, e l'esprimere e il suscitare le idee e i sentimenti, ovvero i pensieri e gli affetti dell'animo, è ufficio delle parole così rappresentate. Che è questo ingombro di lineette, di puntini, di spazietti, di punti ammirativi doppi e tripli, che so io? Sto a vedere che torna alla moda la scrittura geroglifica, e i sentimenti e le idee non si vogliono più scrivere ma rappresentare, e non sapendo significare le cose colle parole, le vorremo dipingere o significare con segni, come fanno i cinesi la cui scrittura non rappresenta le parole, ma le cose e le idee. Che altro è questo se non ritornare l'arte dello scrivere all'infanzia? Imparate imparate l'arte dello stile, quell'arte che possedevano così bene i nostri antichi, quell'arte che oggi è nella massima parte perduta, quell'arte che è necessario possedere in tutta la sua profondità, in tutta la sua varietà, in tutta la sua perfezione, chi vuole scrivere. E così obbligherete il lettore alla sospensione, all'attenzione, alla meditazione, alla posatezza nel leggere, agli affetti che occorreranno, ve l'obbligherete, dico, con le parole, e non coi segnetti, nè collo spendere due pagine in quella scrittura che si potrebbe contenere in una sola pagina, togliendo le lineette, e le divisioni ec. Che maraviglia risulta da questa sorta d'imitazioni? Non consiste nella maraviglia uno de' principalissimi pregi dell'imitazione, una [977]delle somme cause del diletto ch'ella produce? Or dunque non è meglio che lo scrittore volendo scrivere in questa maniera, si metta a fare il pittore? Non ha sbagliato mestiere? non produrrebbe egli molto meglio quegli effetti che vuol produrre scrivendo così? Non c'è maraviglia, dove non c'è difficoltà. E che difficoltà nell'imitare in questo modo? Che difficoltà nell'esprimere il calpestio dei cavalli col trap trap trap, e il suono de' campanelli col tin tin tin, come fanno i romantici? (Bürger nell'Eleonora. B. Ital. tomo 8. p.365.) Questa è l'imitazione delle balie, e de' saltimbanchi, ed è tutt'una con quella che si fa nella detta maniera di scrivere, e coi detti segni, sconosciutissimi, e con ragione a tutti gli antichi e sommi.
(22. Aprile. Giorno di Pasqua 1821.)
Quanto più qualsivoglia imitazione trapassa i limiti dello strumento che l'è destinato, e che la caratterizza e qualifica, tanto più esce della sua natura e proprietà, e tanto più si scema la maraviglia, come se nella scultura che imita col marmo s'introducessero gli occhi di vetro, o le parrucche invece delle chiome scolpite. E così appunto si deve dire in ordine alla scrittura, la quale imita colle parole, e non deve uscire del suo strumento. Massime se questi nuovi strumenti son troppo facili e ovvi, [978]cosa contraria alla dignità e alla maraviglia dell'imitazione, e che confonde la imitazione del poeta o dell'artefice colla misera imitazione delle balie, de' mimi, de' ciarlatani, delle scimie, e con quella imitazione che si fa tutto giorno o con parole, o con gesti, o con lavori triviali di mano, senza che alcuno si avvisi di maravigliarsene, o di crederla opera del genio, e divina.
(23. Aprile. 1821.)
Oggi non può scegliere il cammino della virtù se non il pazzo, o il timido e vile, o il debole e misero.
(23. Aprile. 1821.)
Per l'invenzione della polvere l'energia che prima avevano gli uomini si trasportò alle macchine, e si trasformarono in macchine gli uomini, cosicchè ella ha cangiato essenzialmente il modo di guerreggiare. B. Italiana t.5. p.31. Prospetto Storico-filosofico ec. del Conte Emanuele Bava di S. Paolo, 2° ed ult. estratto.
(23. Aprile 1821.)
Alla p.975. Una lingua timidissima non è buono nè perfetto strumento a gustare una lingua coraggiosa ed ardita, a gustare gli ardimenti e il coraggio; nè una lingua tutta regola, e matematica, ed esattezza e ragione, a gustare una lingua naturalmente e felicemente irregolare, (come sono tutte le antiche, orientali come occidentali), una lingua regolata dalla immaginazione ec.; nè una lingua che non ha, si può dire, nessuna proprietà quanto ai modi ec. (????? ?? ?????) a gustare le proprietà [979]delle altre lingue.
(24. Aprile. 1821.)
Passa rapidamente sulla ricerca del linguaggio de' primi abitatori dell'Italia, e sembra persuaso che la lingua di quelle genti, siccome pure la greca e la latina, derivassero dall'indiana, giacchè i popoli indiani dalle spiagge dell'Oriente, passarono in turme alle Occidentali, e posero sede nella Grecia ed in Italia. Formata, ossia ridotta ad eleganza la lingua latina (cioè quella derivata, secondo il Ciampi, dall'indiana), non perciò perirono l'etrusca, l'osca, la volsca, la latina antica più rozza; ma benchè queste non formassero la lingua della capitale e del governo, continuarono forse a parlarsi dal volgo, in quella maniera medesima che il volgo delle diverse provincie d'Italia è tuttora tenace dei propri dialetti. Infatti alcune voci toscane sono ancora probabilmente di origine etrusca. Biblioteca Italiana tomo 7. pag.215. rendendo conto dell'opera del Ciampi intitolata De usu linguae italicae saltem a saeculo quinto R. S. Acroasis. Accedit etc. Pisis. Prosperi. 1817.
(24. Aprile 1821.)
Trae perfino un argomento a suo favore dalla lingua valacca, la quale derivata dai soldati romani che vi si lasciarono stazionarii da Traiano, conviene in molte parole ed in molte frasi colla italiana, e ne [980]mette fuori di dubbio la rimota antichità. Bibl. Ital. l. cit. nel pensiero antecedente, rendendo conto della stessa opera. p.217. fine.
(24. Aprile 1821.)
La lingua del Lazio adunque si dovette propagare nel contiguo Illirico e all'Oriente, non meno che si propagò in amendue le Gallie all'Occidente; e il nome Romania, che fino a' nostri dì si è conservato; e la lingua chiamata dai Valacchi: ROMANESKI, che tanto somiglia alla latina (come un viaggiatore recente ce lo conferma) (vedi Caronni in Dacia. Milano, 1812. pag.32.) non che il gran numero di antichità romane disotterrate in quelle parti, ne sono una prova convincente. Articolo originale del Cav. Hager nello Spettatore di Milano. 1. Aprile 1818. Quaderno 97. p.245. fine. (25. Aprile 1821.).
Basta che la voce OCO che significa anch'essa OCCHIO in russo, (cioè oltre la voce Glass che significa lo stesso) sia tanto simile all'OCULUS de' latini, onde dimostrare che questa voce non è meno affine alla voce latina, che la parola OCCHIO in italiano, non essendo OCULUS che il diminutivo della parola OCCUS o OCCOS che significava un OCCHIO in greco antico, come lo attestano Esichio ed Isidoro. Luogo citato qui sopra, p.244. principio. Sì dunque la voce russa Oco derivata dal latino mediante la propagazione [981]della lingua latina nell'Illirico, avvenuta in bassi tempi, (Hager, ivi, p.244. verso il mezzo ec. e Bibl. Italiana vol. 8. p.208. rendendo conto dell'opera dello stesso Hager: Observations sur la ressemblance frappante que l'on découvre entre la langue des Russes et celle des Romains. Milan. 1817. chez Stella, en 4°. gr. dove l'autore dimostra questa propagazione.) essendo la lingua russa figlia dell'illirica (ivi); sì ancora la voce ojo spagnuola (che si pronunzia oco, aspirando il c all'uso spagnuolo) dimostrano che quell'antichissima voce occus, benchè sparita dalle scritture latine, si conservò nel latino volgare. (25. Aprile 1821.). Occhio però viene da oculus come da somniCULosus, sonnaCCHIoso, e l'antico sonnoCCHIoso, da auricula, orecchia, da geniculum o genuculum, ginocchio (v. pag.1181. marg.), da foeniculum, finocchio, da macula, macchia, da apicula o apecula, pecchia, da stipula, stoppia, (bisogna notare che anche gli spagnuoli dicono ojo da oculus, come oreja, oveja da auricula, ovicula ec.) da ungula, unghia ec. V. p.2375. (e la p.2281. e segg.).
Alla p.740. La lingua greca si era conservata sempre pura, in gran parte per la grande ignoranza in cui erano i greci del latino. La quale si fa chiara sì da altri esempi che ho allegati in altro pensiero (cioè quelli di Longino nel giudizio timidissimo che dà di Cicerone, e di Plutarco nella prefazione alla Vita di Demostene, della quale vedi il Toup ad Longin. p.134.) sì ancora da questo, che laddove i latini citavano ad ogni momento parole e passi greci, colle lettere greche, gli scrittori greci non mai citavano o usavano parole latine se non con elementi greci, e con maraviglia, e come cosa unica notò il Mingarelli in un'opera di Didimo Alessandrino, Teologo del quarto secolo, da lui per la prima volta pubblicata, due o tre parole latine barbaramente scritte in caratteri latini. (Didym. Alexandr. De Trinitate Lib.1. cap.15. Bonon. typis Laelii a Vulpe 1769. fol. p.18. gr. et lat. cura Johannis Aloysii Mingarellii. Vide ib. eius not.3. e la Lettera a Mons. Giovanni Archinto Sopra un'opera inedita di un antico teologo stampata già in Venezia nella Nuova Raccolta del Calogerà 1763. tomo XI. e ristampata nell'Appendice alla detta opera: Cap.3. pag.465. fine-466. principio. del che non si troverà [982]così facilmente altro esempio in altro scrittore greco.) Il che dimostra sì che gli stessi scrittori sì che i lettori greci erano ignorantissimi del latino, da che gli scrittori non giudicavano di poter citare parole latine, com'elle erano scritte; e di rado anche le usavano in lettere greche, al contrario de' latini rispetto alle voci greche e passi greci in caratteri latini ec. Quanto poi i greci dovessero lottare colle circostanze per mantenersi in questa verginità anche prima di Costantino, e dopo la conquista della Grecia fatta dai Romani si può raccogliere da queste parole del Cav. Hager, nel luogo cit. qui dietro (p.980.) p.245. Basta consultare la celebre opera di S. Agostino, DE CIVITATE DEI, onde vedere quanto i Romani al medesimo tempo erano solleciti d'imporre non solo il loro giogo, ma anche la loro lingua a' popoli da loro sottomessi: Opera data est, ut imperiosa civitas, non solum iugum, verum etiam linguam suam, domitis gentibus per pacem societatis, imponeret (Lib. XIX, cap.7.) Ai Greci medesimi, dice Valerio Massimo, non davano giammai risposta che in lingua latina: illud quoque magna perseverantia custodiebant, ne Graecis unquam nisi latine responsa darent, (Lib. II., c.2. n.2.) e ciò quantunque la lingua greca fosse tanto famigliare a' Romani; nulla dimeno per diffondere la lingua latina obbligavano perfino que' Greci, che non la sapevano, a spiegarsi per mezzo di un interprete in latino: Quin etiam... per interpretem loqui cogebant... quo scilicet latinae vocis honos per omnes gentes venerabilior diffunderetur. (ibid.) [983]E tuttavia la Grecia resistè. Ma dopo Costantino, alla Corte Bizantina, segue lo stesso autore l.c. come si osserva da S. Crisostomo (adv. oppugnatores vitae monasticae. Lib. III. tom. I., p.34. Paris. 1718, edit Montfaucon.) era un mezzo di far fortuna il sapere il latino; e fino a' tempi di Giustiniano, le leggi degli imperatori greci si pubblicavano nella Grecia medesima in latino. E soggiunge subito in una nota: Le PANDETTE furono pubblicate a Costantinopoli in latino.
(25. Aprile 1821.)
Nelle Mémoires de l'Acad. des Inscriptions, Tom.24. si trova: Bonamy, Réflexions sur la langue latine vulgaire. (25. Aprile 1821.). E son pur da vedere in questo proposito le memorie di Trévoux, anno 1711. p.914.
Un nostro missionario (cioè italiano) il P. Paolino da S. Bartolomeo, mostrò l'affinità della lingua tedesca con una lingua indiana non solo, ma che da una lunga serie di secoli ha cessato di essere vernacola, con la samscrdamica (cioè sascrita: così la nomina anche p.208. samscrdamica) che è la madre di tutte le lingue delle Indie. Bibliot. Ital. vol.8. p.206.
(25. April...
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