[Pagina precedente]...erazion viva, e al suicidio o all'odio di se stesso ch'è il sommo grado, e la somma intensità dell'amor proprio in tali circostanze, lo deve ridurre per necessità ad uno stato opposto, cioè alla freddezza e indifferenza verso se stesso; giacchè s'egli continuasse ad essere così infiammato verso se medesimo, com'era da principio, in che modo potrebbe sopportare la vita, o contentarsi di sopravvivere, vedendo e sentendo sempre infelice questo oggetto del suo sommo amore, e di tutta la sua vita sotto tutti i rispetti?
Ma l'amor di se stesso è l'unica possibile molla delle azioni e dei sentimenti umani, secondo ch'è applicato a questo o quello scopo virtuoso o vizioso, grande o basso ec. [959]Diminuita dunque, e depressa, e ridotta a pochissimo (cioè a quanto meno è possibile mentre l'uomo vive) l'elasticità e la forza di molla, l'uomo non è più capace nè di azioni, nè di sentimenti vivi e forti ec. nè verso se stesso, nè verso gli altri, giacchè anche verso gli altri, anche ai sacrifizi ec. non lo può spingere altra forza che l'amor proprio, in quella tal guisa applicato e diretto. E così l'uomo ch'è divenuto per forza indifferente verso se stesso, è indifferente verso tutto, è ridotto all'inazione fisica e morale. E l'indebolimento dell'amor proprio, in quanto amor proprio e radicalmente, (non in quanto è diretto a questa o quella parte) cioè il vero indebolimento di questo amore, è cagione dell'indebolimento della virtù, dell'entusiasmo, dell'eroismo, della magnanimità , di tutto quello che sembra a prima vista il più nemico dell'amor proprio, il più bisognoso del suo abbassamento per trionfare e manifestarsi, il più contrariato e danneggiato dalla forza dell'amore individuale. Così il detto indebolimento secca la vena della poesia, e dell'immaginazione, e l'uomo non amando, se non poco, se stesso, non ama più la natura; non sentendo il proprio affetto, non sente più la natura, nè l'efficacia della bellezza ec. Una nebbia grevissima d'indifferenza sorgente immediata d'inazione e insensibilità , si spande su tutto l'animo suo, e su tutte le sue facoltà , da che [960]egli è divenuto indifferente, o poco sensibile verso quell'oggetto ch'è il solo capace d'interessarlo e di muoverlo moralmente o fisicamente verso tutti gli altri oggetti in qualunque modo, dico se stesso.
Altra cagione dello snervamento prodotto nell'uomo dall'infelicità , è la diffidenza di se stesso o delle cose, affezione mortifera, com'è vivifica e principalissima nel mondo e nei viventi la confidenza, e massime in se stesso: e questa è una qualità primitiva e naturale nell'uomo e nel vivente, innanzi all'esperienza. ec. ec. Così pure l'uomo che ha perduto, o per viltà e vizio, o per forza delle avversità e delle contraddizioni e avvilimenti e disprezzi sofferti, la stima di se stesso, non è più buono a niente di grande nè di magnanimo. E dicendo la stima, distinguo questa qualità dalla confidenza, ch'è cosa ben diversa considerandola bene.
(19. Aprile 1821.)
Le sopraddette considerazioni possono portare ad una gran generalità , e semplicizzare l'idea che abbiamo del sistema delle cose umane, o la teoria dell'uomo, facendo conoscere come sotto tutti i riguardi, ed in tutte le circostanze possibili della vita, agisca quell'unico principio ch'è l'amor proprio, e come tutti gli effetti della vita umana sieno proporzionati alla maggiore o minor forza, maggiore o minor debolezza, e diversa direzione di quel solo movente: per quanto i detti effetti si presentino a prima vista, come derivati da diverse cagioni.
(19. Aprile 1821.)
[961]Alla p.786. E prima della potenza Ateniese e degl'incrementi di quella repubblica, essendo il dialetto ionico il più copioso, come pare, di tutti gli altri nello stato d'allora, per lo molto commercio della nazione o nazioni e repubbliche che l'usavano, prevalse il dialetto ionico nella letteratura greca, usato da Omero, da Ecateo Milesio istorico antichissimo, ed anteriore ad Erodoto che molto prese da lui, da Erodoto, da Ippocrate, da Democrito e da molti altri di gran fama. Così che Giordani crede (B. Ital. vol. 2. p.20.) che Empedocle (il quale parimente scrisse in quel dialetto) lasciasse di adoperare il dialetto (dorico) della sua patria e della sua scuola (Pitagorica) non perchè fosse o più difficile o meno gradito ai greci, ma perchè vedesse più frequentato fuori della Grecia l'ionico, al quale Omero, Erodoto e Ippocrate avevano acquistata più universale celebrità . Di maniera che ancor dopo prevaluto l'attico si seguitò da alcuni a scrivere ionico, non come dialetto proprio, ma come vezzo, e quasi in memoria della sua antica fama. Come fece Arriano, il quale continuò i 7 libri della Impresa di Alessandro scritti in puro attico, colla storia indiana, o libro delle cose indiane scritto in dialetto ionico, per puro capriccio. Ora questo dialetto ionico tutti sanno qual sia presso Omero, cioè una mescolanza di tutti i dialetti, e di voci estere, solamente prevalendo lo ionico, ed Ermogene ???? ????? lib. II. p.513. notat Hecataeum Milesium a quo plurima accepit Herodotus (notante etiam Porphyr. ap. Eus. l.10. praep. c.2. p.466.) usum ?????? ?????, Herodotum ?????????. (Fabric. B. G. II. c.20. §.2. t. I. 697. nota K.) cioè l'uno del dialetto ionico puro, l'altro del dialetto ionico variato o misto. E contuttociò Erodoto è chiamato [962]dal suo concittadino Dionigi d'Alicarnasso (Epist. ad Cneium Pompeium p.130. Fabric.) ??????????????????(?.
(20. Aprile. Venerdì Santo. 1821.)
Sono perciò rare tra' francesi le buone traduzioni poetiche; eccetto le Georgiche volgarizzate dall'abate De-Lille. I nostri traduttori imitan bene; tramutano in francese ciò che altronde pigliano, cosicchè nol sapresti discernere, ma non trovo opera di poesia che faccia riconoscere la sua origine, e serbi le sue sembianze forestiere: credo anzi che tale opera non possa mai farsi. E se degnamente ammiriamo la georgica dell'abate De-Lille, n'è cagione quella maggior somiglianza che la nostra lingua tiene colla romana onde nacque, di cui mantiene la maestà e la pompa. Ma le moderne lingue sono tanto disformi dalla francese, che se questa volesse conformarsi a quelle, ne perderebbe ogni decoro. Staël, B. Ital. vol.1. p.12. Esaminiamo.
Che la traduzione del Delille sia migliore d'ogni altra traduzione francese qualunque (in quanto traduzione), di questo ne possono e debbono giudicare i francesi meglio che gli stranieri. Se poi fatto il paragone tra la detta traduzione e l'originale, vi si trovi tutta quella conformità ed equivalenza che i francesi stimano di ravvisarvi (quantunque concederò che se ne trovi tanta, quanta mai si possa trovare in versione francese) questo giudizio spetta piuttosto agli stranieri che a' francesi, e noi italiani massimamente siamo meglio [963]a portata, che qualsivoglia altra nazione, di giudicarne.
Siccome ciascuno pensa nella sua lingua, o in quella che gli è più familiare, così ciascuno gusta e sente nella stessa lingua le qualità delle scritture fatte in qualunque lingua. Come il pensiero, così il sentimento delle qualità spettanti alla favella, sempre si concepisce, e inevitabilmente, nella lingua a noi usuale. I modi, le forme, le parole, le grazie, le eleganze, gli ardimenti felici, i traslati, le inversioni, tutto quello mai che può spettare alla lingua in qualsivoglia scrittura o discorso straniero, (sia in bene, sia in male) non si sente mai nè si gusta se non in relazione colla lingua familiare, e paragonando più o meno distintamente quella frase straniera a una frase nostrale, trasportando quell'ardimento, quella eleganza ec. in nostra lingua. Di maniera che l'effetto di una scrittura in lingua straniera sull'animo nostro, è come l'effetto delle prospettive ripetute e vedute nella camera oscura, le quali tanto possono essere distinte e corrispondere veramente agli oggetti e prospettive reali, quanto la camera oscura è adattata a renderle con esattezza; sicchè tutto l'effetto dipende dalla camera oscura piuttosto che dall'oggetto reale. Così dunque accadendo rispetto alle lingue (eccetto in coloro che sono già arrivati o a rendersi familiare un'altra lingua invece della propria, o a rendersene familiare e quasi propria più d'una, con grandissimo uso [964]di parlarla, o scriverla, o leggerla, cosa che accade a pochissimi, e rispetto alle lingue morte, forse a nessuno) tanto adequatamente si potranno sentire le qualità delle lingue altrui, quanta sia nella propria, la facoltà di esprimerle. E l'effetto delle lingue altrui sarà sempre in proporzione di questa facoltà nella propria. Ora la facoltà di adattarsi alle forme straniere essendo tenuissima e minima nella lingua francese, pochissimo si può stendere la facoltà di sentire e gustare le lingue straniere, in coloro che adoprano la francese.
Notate ch'io dico, gustare e sentire, non intendere nè conoscere. Questo è opera dell'intelletto il quale si serve di altri mezzi. E quindi i francesi potranno intendere e conoscer benissimo le altre lingue, senza però gustarle nè sentirle più che tanto.
Ho detto che gl'italiani in questo caso possono dar giudizio meglio che qualunque altro. 1. La lingua italiana, come ho detto altrove, è piuttosto un aggregato di lingue che una lingua, laddove la francese è unica. Quindi nell'italiana è forse maggiore che in qualunque altra la facoltà di adattarsi alle forme straniere, non già sempre ricevendole identicamente, ma trovando la corrispondente, e servendo come di colore allo studioso della lingua straniera, per poterla dipingere, rappresentare, ritrarre nella propria [965]comprensione e immaginazione. E per lo contrario nella lingua francese questa facoltà è certo minore che in qualunque altra. 2. Queste considerazioni rispetto alla detta facoltà della nostra lingua, si accrescono quando si tratta della lingua latina, o della greca. Perchè alle forme di queste lingue, la nostra si adatta anche identicamente, più che qualunque altra lingua del mondo: e non è maraviglia, avendo lo stesso genio, ed essendosi sempre conservata figlia vera di dette lingue, non solo per ragione di genealogia e di fatto, ma per vera e reale somiglianza e affinità di natura e di carattere. Laddove la lingua francese sebbene nata dalla latina, se n'è allontanata più che qualunque altra sorella o affine. E il genio della lingua francese è tanto diverso da quello della latina, quanta differenza mai si possa trovare fra le lingue di popoli che appartengono ad uno stesso clima, ad una stessa famiglia, ed hanno una storia comune ec. La somiglianza delle parole, cioè l'essere grandissima parte delle parole francesi derivata dal latino, non fa nessun caso, essendo una somiglianza materialissima, e di suono, non di struttura: anzi neppur di suono, per la somma differenza della pronunzia. Ma in ogni caso il suono e la struttura sono cose indipendenti, così che ci potrebbero esser due lingue, tutte le cui parole avessero un'etimologia comune, [966]e nondimeno esser lingue diversissime.
In conseguenza se ai francesi pare di ravvisare il gusto, l'andamento, il carattere di Virgilio nel Delille, e a noi italiani pare tutto l'opposto, io dico che in ciò siamo più degni di credenza noi, che col mezzo della lingua propria (solo mezzo di sentire le altre) possiamo meglio di tutti sentire le qualità della francese e (più ancora) della latina; di quello che i francesi che col mezzo della loro renitentissima ed unica lingua, non hanno se non ristretta facoltà di sentire veramente Virgilio e gustarlo in tutto ciò che spetta alla lingua.
Passo anche più avanti, e dico esser più difficile ai francesi che a qualunque altra nazione Europea, non solo il gustare e il sentire, ma anche il formarsi un'idea precisa e limpida, il familiarizzarsi, e finalmente anche l'imparare le lingue altrui. Dice ottimamente Giordani (B. Italiana vol.3. p.173.) che Niuna lingua, nè viva nè morta, si può imparare se non per mezzo d'un'altra lingua già ben saputa. Questo è certissimo. S'impara la lingua che non sappiamo, barattando pa...
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